Le critiche al Reddito di Cittadinanza. Proviamo a fare chiarezza (seconda parte)

FraGRa nella seconda parte del loro articolo sulle critiche mosse al Reddito di Cittadinanza si soffermano sulla “spinta” che esso darebbe all’indolenza. Contro la tesi che sia dominante il fenomeno dei “poveri indolenti”, gli autori ritengono che occorra distinguere fra situazioni molto diverse e sostengono che gli effetti di disincentivo al lavoro del Rdc sono assai deboli e in prevalenza riconducibili a cause diverse dall’indolenza, e molto più giustificabili. Volendo contrastarli la via maestra è, comunque, rendere il lavoro più attraente.

Nella prima parte di questo articolo, pubblicata sullo scorso numero del Menabò, abbiamo richiamato la necessità di maggiore rigore analitico nella riflessione pubblica sul Reddito di Cittadinanza (RdC) concentrandoci sulle critiche riconducibili alla questione che abbiano definito del “mancato bersaglio”. In questa seconda parte ci occupiamo delle obiezioni relative a quella che abbiamo chiamato “spinta all’indolenza” e che trovano la loro rappresentazione nell’immagine, ormai un po’ stucchevole, del beneficiario del RdC che invece di attivarsi e cercare lavoro passa le giornate sdraiato sul divano. In quanto segue sosterremo che il RdC ha debolissimi effetti di disincentivo al lavoro; che quando questi si manifestano molto spesso è per ragioni diverse – e ben più giustificabili – dall’indolenza e, anche a causa di ciò, è molto difficile isolare e definire precisamente l’indolenza. Peraltro, se si volessero ulteriormente ridurre quegli effetti la strada maestra è rendere il lavoro più attraente non il RdC più povero.

Quelli che non possono lavorare. Partiamo da qui: una quota molto rilevante di potenziali percettori del RdC non è in grado di offrirsi sul mercato del lavoro per cause personali o familiari (emarginazioni, responsabilità di cura dei minori) ovvero ha probabilità praticamente nulla di trovare lavoro (si pensi ai disoccupati di lunga durata a bassa istruzione).

Rispetto all’Italia, sono interessanti alcuni dati forniti dall’Anpal e contenuti nel recente rapporto Caritas sulla povertà: dei 3 milioni di percettori del RdC, meno della metà è stato definito abile al lavoro e dunque ha firmato un patto di servizio. Fra questi, più del 70% ha un titolo di studio che non supera la scuola secondaria di I grado, vive in territori con bassa domanda di lavoro e, frequentemente, è disoccupato di lungo periodo. Non c’è da stupirsi: se abbiamo uno schema di contrasto alla povertà è perché ci sono soggetti che hanno bisogno di un sostegno monetario. Piuttosto che in trappole di povertà e di disoccupazione, sono invischiati in trappole di opportunità.

Possibili disincentivi, non solo indolenza. Diversa è la valutazione per quanto riguarda gli ‘attivabili’ che, con riferimento alla fase in cui viene introdotto il RdC, possono essere percettori del RdC che inizialmente avevano un’occupazione oppure erano in cerca di lavoro. Su costoro il RdC può esercitare effetti disincentivanti, inducendo qualcuno che è occupato a smettere di lavorare o che era alla ricerca di lavoro a non continuare a farlo o a rifiutare eventuali offerte che in precedenza sarebbero state accettate, naturalmente al di là degli obblighi derivanti dal “patto del lavoro” previsto dal RdC. Una volta trascorso un congruo lasso di tempo dall’introduzione del RdC la questione si pone solo per la ricerca di lavoro.

Se si ha un lavoro decente, in termini di soddisfazione e salario, o si ritiene che sia facile trovarlo, è assai improbabile che abbia effetti disincentivanti un trasferimento quale è il RdC che comunque comporta costi (richiede una prova dei mezzi, controlli e rinnovi, ed è soggetto a forme di condizionalità al lavoro su cui ci soffermeremo più avanti) e che in generale è di importo limitato. Un singolo con una piccola abitazione di proprietà abbandonerebbe un lavoro da 1.000 euro per un trasferimento di circa la metà? Appare ben poco probabile. Ma possono esservi casi tra loro ben diversi, in cui disincentivi potrebbero verificarsi.

Il primo caso è quello dei nuclei familiari numerosi con un unico percettore di reddito. Ad esempio, una famiglia monoreddito in affitto e con 2 figli, malgrado la scala di equivalenza del RdC penalizzi i nuclei numerosi, potrebbe ricevere un RdC di circa 1400 euro netti, che è approssimativamente il valore del salario mediano. Similmente, un soggetto potrebbe scegliere di lavorare un numero minore di ore, godendo dell’integrazione offerta dal RdC (si ricordi che la condizionalità non si applica in caso di redditi da lavoro inferiori alla soglia esente IRPEF) oppure il partner di un occupato a basso salario potrebbe rinunciare a cercare di incrementare col lavoro il reddito del nucleo, potendo ora contare sull’integrazione garantita dal RdC.

Il secondo caso è quello di una madre sola con figli a carico e un lavoro precario che, soprattutto in mancanza di servizi per l’infanzia, decide di rinunciare a quest’ultimo (peraltro, l’obbligo di ricerca di lavoro non si applica a chi ha figli di meno di 3 anni d’età).

Il terzo e ultimo caso è quello di coloro che, per dirla in breve, amano così tanto il tempo libero e hanno un tenore di vita ‘spartano’ da trovare conveniente lavorare meno o niente affatto in seguito all’introduzione del RdC.

È evidente che questi tre casi sono tra loro molto diversi e anche se l’indolenza può essere variamente definita sembra impossibile rilevarla nel secondo caso, mentre ciò appare possibile nel terzo. Sul secondo caso appare più difficile esprimersi, e diventa decisiva la definizione precisa di indolenza che si adotta.

Dunque, la conclusione provvisoria è che gli effetti di disincentivo del RdC sono molto circoscritti e che nel loro piccolo recinto l’indolenza gioca un ruolo ulteriormente circoscritto.

Alcune analisi internazionali sulle caratteristiche dei percettori di reddito minimo sembrano confermarlo. Immervoll, Jenkins e König esaminano gli effetti dei redditi minimi esistenti in Canada, Germania, Lettonia, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Svezia e Regno Unito e segnalano che predominano coloro che non potrebbero avere accesso a redditi da lavoro o che sono disincentivati da responsabilità di cura, cosicché gli indolenti non possono che essere pochi.

Indolenza e razionalità. I comportamenti ipotizzati in quanto precede appaiono conformi a quelli che la teoria microeconomica tradizionale considererebbe del tutto razionali. Adottando questa prospettiva, al RdC si può attribuire l’effetto di ridurre l’attrazione del lavoro (principalmente ma non esclusivamente come fonte di reddito e quindi di possibili consumi) rispetto al tempo libero: il reddito a cui si deve rinunciare per accrescere quest’ultimo è, ora, minore. Dunque, date le preferenze di ciascuno (che naturalmente possono essere condizionate dal contesto) è possibile che la scelta migliore sia quella di ridurre il lavoro (o l’impegno nella ricerca del lavoro).

Gli esempi formulati in precedenza mostrano, tuttavia, che il valore attribuito al tempo sottratto al lavoro può avere natura molto diversa e non nasce soltanto dall’eventuale passione per la pigrizia. D’altro canto, la diversa disponibilità a rinunciare a un reddito maggiore può segnalare, a parità di altre condizioni, una sorta di diversa ‘propensione al consumismo’.

Naturalmente, è molto importante l’entità di questa rinuncia che dipende dalla situazione del mercato del lavoro. Ad esempio, chi è in cerca di lavoro più difficilmente interromperà la sua ricerca se ritiene elevata la probabilità di trovare un lavoro almeno ‘decente’, che vuol dire non soltanto adeguatamente remunerato ma anche capace di assicurare qualcuna delle soddisfazioni che il lavoro dovrebbe dare e che valgono a limitare l’attrattività del tempo libero.

La domanda di lavoro è tanto più importante in periodi di crisi quando può determinare comportamenti erroneamente interpretati come dovuti a una più o meno ben definita indolenza. Anche per questo è arbitrario giudicare il RdC un insuccesso se è basso il numero dei beneficiari che hanno trovato o cercano un’occupazione. Una valutazione più solida – ma di difficile realizzazione – dovrebbe riconoscere l’esistenza di problemi di domanda e richiederebbe di isolare il ruolo della stessa stimando l’occupazione che si avrebbe in assenza di RdC.

I comportamenti più convenienti risentono, inoltre, della condizionalità a cui è sottoposto il godimento del RdC. In particolare, quanto stabilito a proposito dell’accettazione di offerte definite congrue (ma che non è detto siano anche “decenti”) prospettano la possibilità che ci si trovi a dover scegliere tra un lavoro considerato “cattivo” e l’azzeramento del trasferimento. Tale possibilità dovrebbe rafforzare la convenienza a non rinunciare a un lavoro “buono” e a impegnarsi nella ricerca sperando di trovare un lavoro migliore.

Cosa fare, eventualmente? Possiamo, ora, cercare di avanzare qualche riflessione su cosa si potrebbe fare per limitare ulteriormente la possibilità – che il RdC disincentivi il lavoro. Inizieremo con qualche considerazione di carattere generale per poi soffermarci brevemente su quelli che abbiamo chiamato ‘veri indolenti’, cioè individui con una forte preferenza per la pigrizia che il RdC potrebbe aiutare a realizzare.

La misura più generale dovrebbe essere quella che mira a accrescere l’attrattività del lavoro e non a ridurre il RdC. L’ovvia ragione è che quest’ultimo è destinato anche a tanti poveri che non potrebbero reagire alla perdita di reddito intensificando la ricerca di lavoro. Ciò può realizzarsi in vari modi; ne elenchiamo due:

  • oggi, l’aliquota marginale implicita del RdC è quasi sempre pari all’unità (ossia, se si guadagna un euro in più sul mercato, si perde un euro di RdC) con l’effetto di scoraggiare il lavoro. Parziali eccezioni riguardano chi ottiene un contratto da dipendente (il 20% del nuovo reddito da lavoro non viene considerato nel calcolo delle soglie d’accesso al beneficio) e chi inizi una nuova attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o una società cooperativa entro i primi 12 mesi di fruizione del beneficio, che potrà fruire, in un’unica soluzione, di un beneficio pari a sei mensilitàdi RdC, nei limiti di 780 euro mensili. Ma occorre riconsiderare questi incentivi evitando anche misure di incentivo al lavoro (come quelle relativi agli esoneri contributivi per i datori di lavoro che assumono un beneficiario del RdC) che rischiano di creare un ingiusto vantaggio per i percettori di RdC rispetto ad altri lavoratori (con scarse giustificazioni anche in termini di efficienza);
  • di importanza cruciale è la capacità di intervenire a espandere la disponibilità di posti di lavoro, e soprattutto di posti di lavoro soddisfacenti per reddito e condizioni di lavoro. Si tratta, dunque, di intervenire sulla domanda di lavoro. È un punto cruciale, questo. Gli effetti del RdC, con o senza ‘veri indolenti’, dipendono moltissimo da questa condizione.

Veniamo ora ai ‘veri indolenti’. Al riguardo, il primo problema è disporre di criteri per individuarli, dopo averli accuratamente definiti, più di quanto si sia fatto in queste note. Il secondo problema è condividere l’idea che quando il RdC è fruito da chi se ne avvantaggia con un abbondante uso di tempo libero ‘passivo’ vi sono buone ragioni per intervenire allo scopo di realizzare un miglior contemperamento tra diritti individuali e giustizia sociale. I modi per farlo, in astratto, possono essere diversi: i) imporre, semplicemente, l’obbligo di lavorare rinunciando al RdC; ii) chiedere di svolgere lavori di qualche utilità sociale (come nel caso previsto dei cosiddetti PUC) – una proposta diversa da quella ben più severa, e riferita ai percettori di RdC senza troppe distinzioni, di “lavorare nei campi” avanzata, con riferimento all’emergenza Covid, dal Presidente dell’Emilia Romagna Bonaccini; iii) utilizzare, in un’ipotesi ancora più ‘avveniristica’, questi lavoratori per ridurre l’orario di lavoro (a parità di salario) di alcuni occupati “svantaggiati”, cioè occupati che percepiscono salari bassi e non sono in grado di compiere la scelta degli indolenti.

Tutte queste cose sono difficili ma non impossibili da realizzare e richiederebbero di risolvere un problema tutt’altro che facile: individuare i veri indolenti in un insieme limitato ma che comprende individui con motivazioni ben più giustificabili socialmente.

E il sommerso? Prima di concludere è utile una breve riflessione sul sommerso. Se la spinta che il RdC dà all’indolenza appare debole e circoscritta quella al lavoro nel sommerso rischia di essere più forte. L’indolente che rifiuta un lavoro regolare potrebbe accettarlo se fosse sommerso, offrendo un salario che sommato al RdC compensa la perdita di utilità derivante dalla sostituzione del tempo di lavoro al tempo libero. Inoltre, il RdC consentirebbe di remunerare con salari contenuti il lavoro e, dunque, potrebbe incentivare anche i datori di lavoro a ricorrere al sommerso. Il problema si collega a quello dei falsi positivi di cui ci siamo occupati sullo scorso numero del Menabò. Di fronte a questa possibilità non vi è nulla di meglio di controlli rigorosi e sanzioni severe. I vantaggi, naturalmente, andrebbero al di là del più corretto utilizzo del RdC.

In conclusione. Gli effetti di scoraggiamento del lavoro prodotti dal RdC appaiono certamente possibili. Sono, tuttavia, assai deboli e ancora più circoscritti sono quelli riconducibili alla vera e propria indolenza, che non è data in natura e, dunque, andrebbe definita in modo rigoroso e condiviso rispettando anche fondamentali criteri di giustizia. Peraltro, in una fase di emergenza come quella in cui siamo, occorre una speciale attenzione a non imputare all’indolenza ciò che ha ben altre cause. Comunque, limitare ulteriormente questi fenomeni senza danneggiare i poveri appare possibile ma è richiesta un’accurata riflessione.

In queste note abbiamo cercato di illustrare come si potrebbero ridurre taluni effetti sociali non desiderabili di una desiderabile misura sociale come il RdC. Una politica razionale non può sottrarsi a un simile compito. Ma quella politica deve essere anche consapevole, ben più di quanto sembra essere oggi, che un conto è ridurre quegli effetti indesiderati altro è raggiungere un ulteriore obiettivo, che nel caso sarebbe l’ampliamento dell’occupazione. Come si insegna nei manuali di politica economica per raggiungere due obiettivi, tra loro non complementari, occorrono due strumenti. E, dunque, per tutelare i poveri e ampliare l’occupazione occorrono anche politiche di sostegno della domanda di lavoro.

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