Le cooperative di lavoratori e le sfide del capitalismo

Claudio Treves coglie l’occasione della recente costituzione in cooperativa dei lavoratori della Unilever di Marsiglia diretta a impedire la chiusura dell’impresa per riflettere sui problemi che incontrano oggi le cooperative come forma alternativa di organizzazione della produzione. In particolare, egli richiama l’attenzione sulla questione delle competenze, su quella del funzionamento della democrazia interna e sulla degenerazione della natura delle cooperative indotta dai vantaggi fiscali riconosciuti a questa forma di impresa.

Di recente si è parlato, su alcuni mezzi di informazione, del caso della Unilever di Marsiglia dove i lavoratori costituiti in coooperativa hanno rilevato l’impresa impedendone la chiusura. Un caso analogo si è avuto non molto tempo fa anche in Italia: nello stabilimento dell’Ideal Standard di Orcenigo (PN) si è costituita una cooperativa in risposta al tentativo, poi parzialmente rientrato, di chiusura da parte della multinazionale. L’accordo raggiunto prevede anche qui una fase transitoria in cui la multinazionale si impegna a garantire i flussi di materiali a condizioni vantaggiose dopo che l’impianto sia stato rilevato dalla cooperativa.

Quando i lavoratori, riuniti in cooperativa, rilevano un’impresa spesso si tratta della loro risposta al rischio di chiusura dell’impresa. Nel corso della storia, e in contesti molto diversi, la decisione dei lavoratori di non far fermare le fabbriche ha assunto varie forme: dall’occupazione delle fabbriche del 1920, ai comitati di gestione del periodo tra la fine della guerra mondiale e l’avvio della ricostruzione, fino alle esperienze di occupazione delle terre negli anni ’40 e ’50. Tutti questi sono stati tentativi di rispondere alla doppia tentazione nella quale frequentemente cade il potere datoriale: chiudere l’impresa o dismetterla in nome della ricerca di profitti più elevati.

Assumere, da parte dei lavoratori, la gestione di un’impresa pone molti problemi, quasi tutti di non facile soluzione. Una riflessione su questi problemi può aiutare a comprendere meglio le prospettive che ha un progetto di superamento del dominio dell’impresa capitalistica o, comunque, di rafforzamento della democrazia economica.
La costituzione di una cooperativa presuppone che i lavoratori abbiano preso, per dir così “a monte”, la decisione fondamentale di concorrere con analoghe imprese capitalistiche in una competizione che ha anche le caratteristiche di una contesa istituzionale. Di ciò vi è spesso traccia nei nomi scelti per le cooperative che riflettono una tensione anticapitalistica – ad esempio, l’originaria denominazione dell’attuale Coop Tirreno era “La proletaria” e la denominazione dell’odierna CMB di Ravenna era “Cooperativa Muratori e Braccianti”. Accettare questa sfida è possibile soprattutto quando si confida nella possibilità di riuscire a coniugare valore sociale e capacità produttiva, facendo meglio di chi è guidato soltanto dalla ricerca del profitto. Il fondamento di quella possibilità sta nelle potenzialità di un collettivo che “sa far funzionare la baracca perché la conosce dal di dentro”.

Dunque, il collettivo svolge un ruolo cruciale. In primo luogo, è decisiva la presenza al suo interno di competenze e conoscenze in grado di assicurare il controllo e la gestione del ciclo produttivo; con l’avanzare delle tecnologie queste competenze e conoscenze diventano sempre più raffinate e complesse e senza di esse ogni speranza di riuscita è destinata al fallimento.

Oltre che una conoscenza adeguata del ciclo lavorativo e produttivo occorre anche sapere interpretare le prospettive “di mercato”, valutando se sia preferibile “fare la stessa cosa di prima ma meglio”, oppure compiere nuove scelte produttive che possono segnare una rottura con la storia dell’impresa.

Questi temi, in particolare quello relativo al controllo del ciclo produttivo, hanno attirato l’attenzione in epoche oramai lontane. Ad essi si ricollega, in particolare, la questione del rapporto tra “operai e tecnici”, affrontata prima da Gramsci, poi da Morandi e, successivamente, con una propria elaborazione , dagli “operaisti” di Quaderni Rossi alla fine degli anni ’60.

Molte delle idee emerse in queste riflessioni potrebbero essere riprese oggi, approfondendole e confrontandole con la nuova situazione in cui ci troviamo. In particolare, si potrebbe riconsiderare il tema dell’ unificazione tra teoria e prassi che veniva trattato considerando i complessi rapporti tra coloro che concepiscono un modello produttivo e coloro che, invece, lo applicano concretamente. I tempi nei quali questi problemi venivano affrontati erano quelli della produzione standardizzata di massa, del taylorismo e del fordismo; il cambiamento certamente radicale che nel frattempo è intervenuto non è da solo sufficiente a derubricare il tema.

Vi sono, tuttavia, molti fatti nuovi. Particolarmente rilevanti per noi sono la scomposizione dell’impresa conseguente a esternalizzazioni o cessioni in appalto di funzioni e servizi una volta interni, così come la pluralità di forme d’impiego, con connessa temporaneità/precarietà nell’impiego dei lavoratori.

Tutto ciò mette in rilievo un aspetto di particolare rilievo nella costituzione della cooperativa: non sono importanti soltanto le caratteristiche di chi partecipa, e in particolare le competenze possedute, contano anche i soggetti con i quali si entra in relazione.

E qui diventa di nuovo fondamentale il nesso tra scelte ideali, condivisione e conoscenze. Non a caso in anni recenti si è molto discusso del rapporto che intercorre tra il socio lavoratore e la “sua”cooperativa e delle difficoltà che possono sorgere a questo riguardo. Un primo problema, piuttosto banale, è quello della funzionalità degli organi.
La cooperativa costituita dai lavoratori dell’Unilever di Marsiglia conta 76 membri, un numero relativamente ridotto che potrebbe non porre problemi per rispettare essenziali principi di democraticità come la partecipazione di tutti alle assemblee o la possibilità del consiglio di amministrazione di riferire con regolarità all’assemblea stessa. Ma se la cooperativa contasse svariate migliaia di soci, in cosa la sua gestione sarebbe diversa da quella di un’impresa capitalistica che si limitasse a incontrare i propri azionisti nell’assemblea annuale? E se queste sono le dimensioni dell’impresa cooperativa, in cosa il socio lavoratore, che pure è detentore di parte del “capitale”, sarebbe diverso dal lavoratore subordinato?

La rilevanza di questo problema è testimoniata dal fatto che in diversi regolamenti di cooperative era previsto il divieto di ricorrere a rapporti di dipendenza salvo casi eccezionali e temporanei; questo divieto ha, però, determinato conflitti acutissimi quando la cooperazione ha iniziato ad essere presente in settori dove l’attività era regolata dalle gare d’appalto e la tutela dell’occupazione era garantita dalla clausola sociale, secondo cui il vincitore di un appalto doveva farsi carico dei lavoratori occupati dalla precedente impresa appaltatrice. A quel punto l’”obbligo” di diventare soci, pena la mancata assunzione, ha determinato lo scoppio della contraddizione e da allora è iniziato un lungo e tribolato percorso che, da un lato, ha portato a riconoscere all’impresa cooperativa la possibilità di intrattenere rapporti di “normale” subordinazione e, dall’altro, ha consentito ai soci lavoratori di avere con la cooperativa rapporti “distinti”, sia di mutualità che di lavoro, subordinato o autonomo. E, sia detto con rispetto, questo fu il vero contributo recato da Marco Biagi al diritto del lavoro, sua essendo l’elaborazione che portò nel 2001 al varo della legislazione fondamentale sul socio di cooperativa.

Vi è, poi, un altro problema da tenere presente, che distingue nettamente la situazione attuale delle cooperative rispetto a quella che vigeva al tempo in cui esse iniziarono ad affermarsi. Si tratta del fatto che la presenza delle cooperative oggi è rilevante, e a volte addirittura maggioritaria, in importanti settori e attività delle economie sviluppate. Le Costituzione italiana all’articolo 45 riconosce il valore della cooperazione e la sua funzione sociale e anche per questo si è affermata una legislazione di favore, soprattutto sotto l’aspetto fiscale, per le cooperative. Con il trascorrere del tempo questo vantaggio si è trasformato in una tentazione per imprenditori senza scrupoli, operanti in settori caratterizzati da polverizzazione delle imprese e scarsa presenza delle organizzazioni sindacali confederali oppure da gare d’appalto rette dal criterio del massimo ribasso. Non resistendo alla tentazione, quegli imprenditori hanno “spacciato” per cooperative entità economiche costituite al solo scopo di lucrare vantaggi competitivi impropri, non di rado usufruendo anche dell’applicazione di contratti collettivi “pirata”, sottoscritti al solo scopo di abbassare i costi e i diritti dei “soci lavoratori”, che sono troppo deboli per opporsi alla forza di una concorrenza basata sul costo del lavoro e che spesso non hanno altro mezzo per tutelarsi che il ricorso alla difesa costituzionale (art. 36 Cost.). Uno degli effetti paradossali delle sacrosante inchieste della magistratura, da Mani pulite in poi, è stato quello di aprire il mercato a cooperative spurie e alla diffusione di “contratti pirata”, certo complice la mancata applicazione dell’articolo 39 della Costituzione, in tema di estensione erga omnes dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni più rappresentative.
Questo tema richiederebbe un approfondimento. Ma è indubbio che, al di là dei problemi che la cooperativa “vera” incontra a competere con le imprese capitalistiche e ai quali occorre prestare attenzione se si vuole costituire un’alternativa istituzionale a queste ultime e rafforzare la democrazia economica, c’è una sfida che dovrebbero raccogliere quanti hanno a cuore il destino della cooperazione: come rendere attuale quel riconoscimento costituzionale dando così concreta attuazione al valore costitutivo della cooperazione, che è rappresentato dalla partecipazione e dalla solidarietà tra soci.

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