L’accordo UE-Turchia: dal burden-sharing al responsibility-shifting in materia migratoria

Daniela Vitiello illustra i tratti salienti del “deal” UE-Turchia sull’immigrazione così come è venuto strutturandosi, passandone in rassegna le principali criticità in relazione tanto alla forma prescelta, quanto al contenuto e agli obiettivi. Secondo Vitiello il deal è espressione di un ritorno all’intergovernamentalismo come motore del processo di integrazione europea, epifenomeno della crisi di governance dell’Unione, che si sostanzia nella crisi dei suoi principi fondativi e si riverbera sulla sua azione esterna.

L’Unione europea e la Turchia hanno raggiunto un’intesa di portata storica, che segna l’avvio del primo esperimento istituzionalizzato di responsibility-shifting nella gestione dell’immigrazione e dell’asilo. L’intesa è il risultato di un dialogo a livello di vertice che ha preso avvio attraverso canali informali in concomitanza con l’Agenda europea sulle migrazioni. Ufficializzato con una bozza di piano d’azione nell’ottobre 2015, tale dialogo si è inizialmente tradotto nell’impegno europeo a mettere a disposizione della Turchia 3 miliardi di euro come misura di sostegno allo sforzo turco di accoglienza dei profughi siriani, cui tale paese ha riconosciuto uno status di protezione temporanea.

L’impegno è stato confermato dal vertice UE-Turchia di novembre, durante il quale si è stabilito di rafforzare l’azione congiunta di contrasto all’immigrazione irregolare, mediante la prevenzione degli attraversamenti non consentiti del confine tra Turchia, Grecia e Bulgaria, l’integrale attuazione dell’accordo bilaterale di riammissione con la Grecia, l’accelerazione dei tempi per l’entrata in vigore dell’accordo di riammissione UE-Turchia e una rapida esecuzione delle decisioni di rimpatrio dei migranti irregolari presenti in territorio turco. Già in quella sede, la contropartita ottenuta dai leaders turchi, oltre all’ingente sostegno economico, ha riguardato la ripresa del processo di liberalizzazione dei visti per i lavoratori turchi e la riattivazione dei negoziati per l’adesione.

La dichiarazione del 7 marzo ha suggellato il patto, riflettendo nondimeno un ulteriore affievolimento della capacità negoziale europea. In tal senso, può essere letta l’accelerazione del processo di adesione e di liberalizzazione dei visti, ma anche la previsione espressa che l’UE proceda senza indugio all’erogazione di 3 miliardi di euro per la realizzazione delle prime azioni urgenti e decida, in una fase successiva, di predisporre risorse addizionali da allocare nella Refugee Facility for Turkey, attivata dalla Commissione il 4 marzo 2016, dopo aver ricevuto l’avallo degli Stati membri (v. tabella 1).

Se queste priorità costituiscono, in un certo senso, un restyling degli impegni previamente assunti, vi sono però alcuni punti “nuovi” nella dichiarazione del 7 marzo, oggetto di particolare sviluppo nel successivo statement UE-Turchia del 18 marzo, che dettaglia gli obiettivi strategici della cooperazione strutturata UE-Turchia e, insieme alle conclusioni del Consiglio europeo del 17-18 marzo e alla comunicazione della Commissione del 16 marzo, traccia la roadmap per l’implementazione dell’accordo. Il primo riguarda la nuova strategia di contrasto all’immigrazione irregolare, il secondo concerne il meccanismo di resettlement per i siriani, il terzo la creazione una sorta di “internal protection alternative” in Siria.

Partendo con ordine, la cooperazione nel contrasto all’immigrazione “clandestina” è sicuramente il fulcro del deal, come espressamente riconosciuto nello statement del 7 marzo, dove si afferma: “We need to break the link between getting in a boat and getting settlement in Europe”. Per rompere questo “link” la strada prescelta dall’Europa è puntare sul binomio deterrenza-prevenzione, stirando non poco le garanzie procedurali previste dal diritto dell’Unione. La dichiarazione del 18 marzo stabilisce, infatti, che tutti i “nuovi” immigrati giunti clandestinamente in Grecia e che non abbiano presentato una domanda di asilo, o la cui domanda sia manifestamente infondata o inammissibile, siano immediatamente trasferiti in Turchia.

Per i richiedenti asilo, il fondamento giuridico per la dichiarazione di inammissibilità della domanda è individuato negli artt. 35 e 38 della dir. procedure, che riguardano rispettivamente i casi in cui il richiedente provenga da un paese “di primo asilo” o da un paese “terzo sicuro”. Il problema fondamentale di questa costruzione è che la premessa logica su cui si fonda – ovvero la qualifica della Turchia come “paese di primo asilo” per i siriani e di “paese terzo sicuro” per tutti gli altri – è artificiosa, soprattutto in relazione ai non siriani. Infatti, in base alla dir. procedure, un paese terzo può definirsi sicuro solo se esiste la possibilità di ottenere protezione in conformità alla Convenzione di Ginevra. Per i richiedenti asilo non siriani, cui la Convenzione non si applica dal momento che la Turchia non ha ancora ritirato la riserva geografica che ne limita l’ambito di applicazione ratione personarum ai rifugiati europei, vi sarebbero degli status “attenuati” previsti dal diritto interno (uno status di “conditional refugee”, attribuito in attesa di resettlement, e una “brutta copia” della protezione sussidiaria europea), ma essi non possono in alcun modo essere considerati conformi alla Convenzione di Ginevra.

Anche per gli immigrati irregolari la legittimità del trasferimento in Turchia, che viene banalmente presupposta, non è scontata, tanto dal punto di vista procedurale – dal momento che gli hotspots diverranno veri e propri centri detentivi per i migranti in attesa del trasferimento, motivo per cui l’UNHCR non coopererà all’attuazione del deal – quanto da quello sostanziale. Infatti, tale misura potrebbe porsi in contrasto con il divieto di respingimento, come chiarito dalla giurisprudenza della Corte EDU, che ha posto in capo agli Stati parti l’obbligo di accertare la sussistenza di un rischio di refoulement nei casi di allontanamento degli stranieri anche qualora non abbiano presentato richiesta d’asilo, soprattutto allorquando siano documentate prassi di maltrattamenti nel paese di destinazione (v. Hirsi, par. 133).

La seconda falla strutturale riguarda il diritto di accesso alla protezione internazionale in Europa. Nella comunicazione del 16 marzo, la Commissione ha sostenuto che l’aver transitato in un paese terzo sicuro costituisca una causa di irricevibilità della domanda operante quasi automaticamente, previo espletamento di un’intervista individuale per appurare l’esistenza di “particular circumstances”, tra cui la peculiare vulnerabilità e la presenza di familiari in uno Stato UE (casi in cui si applicheranno i criteri di radicamento della competenza all’esame della domanda previsti dal reg. Dublino III). L’intervista individuale, garantendo l’accesso alla protezione internazionale, escluderebbe il rischio di espulsioni collettive – vietate dalla Carta dei diritti fondamentali UE (art. 19), dalla CEDU (art. 4, prot. 4) e dal diritto internazionale generale. La Commissione ha anche aggiunto, però, che per evitare l’abuso del diritto d’asilo da parte dei migranti irregolari sbarcati in Grecia e posti di fronte alla prospettiva di una subitanea espulsione verso la Turchia, è necessario predisporre “accelerated asylum procedures for all stages of the procedure, from the initial interview to a possible appeal”. Come sia possibile, nell’ambito di tali procedure accelerate, operare un esame accurato della situazione individuale del singolo richiedente e garantire il diritto di ricorso effettivo in ossequio alla giurisprudenza europea (v. Corte EDU, F.G., parr. 125-127; Corte di giustizia, Diouf, punto 71), non viene chiarito.

Non meno delicata è la questione del resettlement dei rifugiati siriani. Lo schema 1:1 (per ogni siriano “irregolare” trasferito dalla Grecia in Turchia, un siriano “regolare” sarà riammesso nell’UE dalla Turchia) è qualcosa di sconosciuto alla prassi internazionale, dove il reinsediamento è concepito come uno strumento di burden-sharing, attivabile su base volontaria, in caso di afflusso massiccio. Nello statement del 18 marzo appare subito chiara la ratio di uno schema di riallocazione dei richiedenti asilo a somma zero (“one in, one out”), laddove si prevede che nel reinsediamento sia data priorità “to migrants who have not previously entered or tried to enter the EU irregularly”. Si tratta, quindi, di un meccanismo che, premiando i siriani che non tentino l’attraversamento irregolare di un confine internazionale per giungere in Europa, dovrebbe disincentivare le partenze non autorizzate. In tal senso, esso rappresenta un indubbio regresso rispetto al divieto, ormai consolidato nel diritto internazionale dei rifugiati, di sanzionare il richiedente asilo in ragione dell’irregolarità dell’ingresso nel territorio dello Stato di accoglienza. Tale divieto, sancito nell’art. 31 della Convenzione di Ginevra, riguarda tutti i richiedenti che siano potenziali rifugiati ed è volto ad evitare che l’irregolarità dell’ingresso nello Stato di accoglienza diventi un ostacolo al godimento della protezione internazionale. Naturalmente, l’analogia va presa cum grano salis, giacché il meccanismo “one in, one out” mira a prevenire l’accesso irregolare e non può essere considerato propriamente alla stregua di una sanzione. Tuttavia, persegue di fatto l’obiettivo vietato dall’art. 31, ostacolando l’accesso alla protezione internazionale in Europa, oltre a comprimere indebitamente il diritto di ciascuno di lasciare qualsiasi paese. Più in generale, il resettlement per i soli siriani rappresenta una misura che discrimina tra richiedenti mediante un approccio selettivo su base nazionale, che crea richiedenti asilo di “serie B” e sviluppa una presunzione quasi assoluta di non eleggibilità alla protezione dei richiedenti di nazionalità non siriana.

Infine, la creazione di una zona cuscinetto al confine tra Siria e Turchia per ospitare i profughi siriani è il punto più controverso del deal UE-Turchia, dal momento che, se è lecito dubitare della sicurezza della Turchia ai fini dell’asilo, è altrettanto lecito farlo della possibilità di garantire protezione agli sfollati all’interno della Siria, sicché il trasferimento dei siriani in Turchia potrebbe porsi in contrasto con il divieto di refoulement “a catena”.

A questo punto occorre comprendere chi risponderà di eventuali violazioni degli obblighi internazionali e dei diritti dei migranti, il che pone il problema dell’imputabilità delle condotte in violazione di tali obblighi e della natura di questo deal. Come si è detto, esso non è stato negoziato e concluso mediante la procedura prevista per la conclusione dei trattati internazionali dal diritto dell’Unione (art. 218 TFUE), constando di due dichiarazioni finali di conferenze intergovernative che non possono, di per sé, impegnare la responsabilità dell’Unione sul piano internazionale e si sottraggono al controllo politico del Parlamento europeo e a quello giurisdizionale della Corte di giustizia. Invero, l’accordo UE-Turchia potrebbe apparire come un’intesa (o anche un pactum de contrahendo) tra gli Stati membri dell’Unione e uno Stato terzo, esterna alla cornice dei trattati ed espressiva di un prepotente ritorno all’intergovernamentalismo come motore dell’avanzamento dell’integrazione europea.

D’altra parte, anche prescindendo dalle incertezze sulla natura giuridica del deal UE-Turchia e dai riflessi di tali incertezze sulla tutela dei diritti fondamentali, il “prezzo” pagato dall’Europa, in termini economici e politici, per questa cooperazione appare eccessivo rispetto agli ipotetici vantaggi. In termini economici, la Turchia ha spuntato un raddoppio dello stanziamento inizialmente pattuito dinanzi a un’Europa divisa e schizofrenica. Il “prezzo” della cooperazione turca – 6 miliardi di euro – è ancora più significativo se comparato con quello della cooperazione con i Paesi africani, ovvero con il fondo fiduciario lanciato durante il summit di La Valletta (1,8 miliardi per oltre venti paesi). Dal punto di vista politico, questo modello di esternalizzazione delle responsabilità europee nella gestione dei flussi migratori è l’epifenomeno della crisi di governance che interessa l’Unione, una crisi che si articola in tante altre crisi: quella del principio del mutuo riconoscimento e di fiducia reciproca, quella del principio di leale cooperazione e di solidarietà, quella del principio democratico e quella del principio di libera circolazione.

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