La vittoria di Macron e lo stato di salute della democrazia

Alfio Mastropaolo analizza le ultime elezioni presidenziali francesi per trarne valutazioni sullo stato delle democrazie avanzate. Secondo Mastropaolo esse sono state il trionfo dell’antipolitica che, però, non è un fenomeno unitario. Inoltre, il successo di Macron segna, come non era mai successo, l’entrata in politica del mondo imprenditoriale con il rischio di travolgere confini stabiliti da secoli. Infine, le presidenziali francesi consentono di riflettere sulle effettive conseguenze delle drastiche semplificazioni imposte dai regimi maggioritari.

Le presidenziali francesi sono state l’orgia dell’antipolitica, in una discreta sequenza di varianti. Al primo turno hanno votato poco meno dell’80 per centro degli elettori iscritti alle liste elettorali (si calcola che i non iscritti si aggirino intorno al 10 per cento). Di questo 80 per cento, poco più di un quarto ha votato per i partiti tradizionali (vale a dire i socialisti e i repubblicani), gli altri hanno votato per liste, raggruppamenti, personalità situati al margine o al di fuori dalla scena politica ufficiale. A sommare i risultati di questi ultimi, e ad aggiungerci l’astensione, nonché il milione di schede bianche e nulle, ben otto elettori su dieci hanno manifestato la loro insofferenza per la politica. Era un’insofferenza con gradazioni e significati diversi: grosso modo, tra questi otto elettori “antipolitici” due si sono rifiutati di votare, due abbondanti hanno votato il più tipico esponente dell’establishment economico-finanziario, due hanno sostenuto Mme Le Pen, cioè un’erede diretta della destra anti-dreyfusarda, vichyista, colonialista, e due, un po’ scarsi, hanno raccolto l’appello di un ex-socialista, Mélenchon, già ministro dell’educazione di Jospin, riavvicinatosi ai comunisti e alla galassia della nuova sinistra.

Si può ragionare, però, anche in termini di schieramenti: tolti i due elettori su otto che hanno preferito astenersi, due si sono collocati sulla destra estrema, due sulla sinistra “nuova” e vecchia (Mélenchon più Hamon), mentre in mezzo c’è una larga piazza centrista in cui convergono la destra moderata e la parte più governativa, o più rassegnata, dell’elettorato socialista. Visto da sinistra, non è un risultato da buttar via. Purtroppo non lo è nemmeno visto dalla destra estrema.

Consideriamo anche i dati del secondo turno. Stavolta ad astenersi è stato un elettore su quattro. Su 36 milioni di votanti, 21 milioni (il 66 per cento) hanno preferito Macron, mentre 11 milioni (il 34 per cento) hanno scelto Le Pen. Quattro milioni di voti, infine, cioè l’11,5 per cento, sono andati in fumo. Le Pen ha guadagnato 2 milioni e mezzo di voti. Macron ha sì abbondantemente raddoppiato il suo seguito originario, ma, a fare qualche conto, una delle maggiori democrazie avanzate appare guidata da un presidente il cui capitale di consenso personale è modesto, che è sprovvisto di un partito che lo sorregga, e sul quale incombe pertanto un non lieve clima di diffidenza.

C’è poco da entusiasmarsi per la sconfitta dei cosiddetti populisti. I quali sono stati, è vero, sconfitti, ma tutt’altro che rovinosamente. Quando nel 2002 si registrò una situazione analoga – Jean-Marie Le Pen fu ammesso al secondo turno – i votanti arrivarono all’80 per cento, le schede bianche e nulle furono il 5 per cento, mentre Chirac, in nome della solidarietà repubblicana, ottenne l’82 per cento dei consensi. Marine Le Pen ha perso al secondo turno, ma ha quasi raddoppiato il risultato paterno: il che può ritenersi l’inquietante dimostrazione di una radicalizzazione a destra di una quota sostanziosa di elettorato, di una riuscita dédiabolisation del Front National e dell’indebolirsi della solidarietà repubblicana: come schieramento politico-costituzionale e come sentimento della pubblica opinione. Chi non ne esce troppo bene è la democrazia, o, appunto, per dirla alla francese, la tradizione repubblicana. Se alla fine ha vinto l’establishment, c’è riuscito pagando un prezzo altissimo. L’avanzata dell’estremismo di destra non è stata frenata, ma solo interrotta: quanto stabilmente non sappiamo. Qualcosa di più lo sapremo dopo le legislative. Ma intanto, tenuto conto dei propositi di Macron, del suo – nebuloso – programma politico e delle sue prime mosse, c’è da temere che si sia curato il cancro utilizzando un cancerogeno. O fermata l’estrema destra senza neanche sfiorare i motivi della sua avanzata.

Le ragioni per riflettere sulle presidenziali del 23 aprile e del 7 maggio 2017 sono insomma parecchie. Fanno riflettere i risultati elettorali e fa molto riflettere il fenomeno Macron. Sulla storia personale del neopresidente sappiamo alcune cose, le più banali, anche se non irrilevanti: i suoi studi nelle grandes écoles, all’Ena, le sue esperienze professionali come inspecteur des finances, come banchiere, come collaboratore di Hollande, come ministro. Poco sappiamo invece del suo programma, anche se molto possiamo intuire. La sua elezione non segnerà affatto il ritorno all’interventismo statale, al welfare, alle politiche di sostegno dell’occupazione. Né tantomeno favorirà la dismissione delle politiche di austerità: ben che vada, saranno edulcorate. Macron ha già promesso di sfoltire gli organici della fonction publique. Ma la stessa composizione del suo governo è l’annuncio principale: il neoliberalismo prosegue imperterrito sulla sua strada e, molto verosimilmente, la Francia proverà ad agganciarsi più strettamente alla Germania.

Sappiamo anche abbastanza, e sono dati eloquenti, circa la composizione dell’elettorato del neopresidente. Quello che conta davvero è l’elettorato di Macron al primo turno: costituito da coloro che lo hanno votato spontaneamente e non per scongiurare un danno più grave. Sono i ceti abbienti, le categorie sociali e professionali superiori, i cadres pubblici e privati, i professionisti e gli imprenditori, Oltre un terzo degli elettori di Macron guadagna più di 3000 euro al mese. Si tratta pure di un elettorato prevalentemente urbano, seppure non egualmente diffuso in tutte le città. È palesemente più concentrato nelle regioni più dinamiche della Francia occidentale e a Parigi. Ed è l’elettorato con la percentuale più elevata di laureati. Ciò che non è possibile stabilire è quanti hanno votato Macron al primo turno condividendo realmente la sua offerta politica e quanti invece, già al primo turno, lo hanno votato faute de mieux: sol perché delusi dagli scandali che hanno investito Fillon, o dal fallimento di Hollande, oppure ancora preoccupati di un eventuale successo di Marine Le Pen. Serviranno indagini più approfondite per capirlo. E comunque azzardato ribadire che un elettorato assemblato in poco tempo e in questo modo è una base di consenso molto fragile?

Molte più cose s’imparano per contro, o almeno s’intravedono, a considerare come Emmanuel Macron sia riuscito a procacciarsi i 15 milioni di euro che, in assenza di finanziamenti pubblici, gli sono serviti per condurre la sua campagna elettorale. Ne ha parlato ampiamento Libération dell’11 maggio scorso. Nulla d’illegale, ma molto di istruttivo. Tutto sarebbe iniziato ad Amiens, dove il Nostro nacque trentanove anni or sono. Lì il 6 aprile 2016 egli ha lanciato il suo movimento, quand’era ancora in servizio quale ministro dell’economia nel governo di Manuel Valls. In quell’occasione una trentina di amici, provenienti dai circuiti del management e della finanza, versarono ciascuno un contributo di 7500 euro – il massimo consentito annualmente dalla legislazione francese – alla nuova start up della politica. È stata avviata in questo modo, sotto la guida di un ex-dirigente di BNP Paribas, una raccolta fondi tanto frenetica quanto fruttuosa, secondo un piano finanziario meticolosamente predisposto da un alto dirigente industriale. Con un andamento a palla di neve sono giunti ulteriori versamenti da quadri e dirigenti della banca Rothschild da cui Macron proveniva e negli ambienti bancari, finanziari e imprenditoriali. Macron ha ottenuto pure cospicui contributi negli ambienti finanziari di Londra e di New York.

Non lasciamoci impressionare dai numerosi contributi di poco conto che vanta l’équipe de propagande di Macron. Il quale invece costituisce una novità piuttosto rilevante. Il mondo imprenditoriale, si sa, ha sempre fatto politica. Ma da un quarto di secolo interviene in politica sempre più attivamente e visibilmente. In un paese come il nostro, che ha fatto da battistrada, non c’è troppo di cui stupirsi. Ma ogni caso ha la sua specificità. Una cosa è l’iniziativa politica di un imprenditore in difficoltà, che investe in un’avventura politica il suo patrimonio personale e, tra la diffidenza dei suoi pari, coinvolge la sua azienda. Un’altra è una cordata politico-affaristica che metta in relazioni personale politico e imprenditori (sono di moda soprattutto in Toscana). Una terza cosa è l’invasione programmata a tavolino della politica elettiva da parte dell’establishment economico-finanziario. In comune le tre vicende hanno la vulnerabilità della politica, ma probabilmente anche una sua mutazione radicale. Al tempo del fondamentalismo di mercato, la politica è divenuta un luogo in cui si controllano cespiti – servizi pubblici, suoli, aree industriali dismesse, teatri, musei, scuole, università, grandi eventi e molto altro ancora – da mettere a profitto. Le competenze politico-elettorali e quelle imprenditoriali in simili condizioni si uniscano in cordata e, salvo smentita, che sarebbe benvenuta, il caso Macron costituisce forse l’annuncio dell’entrata in scena di un nuovo modello di governo della vita collettiva, che valica disinvoltamente il confine tra politica e economia. Chi ha studiato la politica locale a Torino o a Marsiglia, o in altri posti, ha già visto all’opera cordate simili.

C’è ancora un punto che merita di essere sollevato in conclusione. Quanto sono ancora affidabili di questi tempi i regimi elettorali maggioritari, quelli che permettono di sapere la sera delle elezioni chi governerà l’indomani, che tanto favore incontrano presso il pubblico italiano? È un punto su cui il parlamento italiano dovrebbe riflettere con molto impegno. I sistemi maggioritari funzionano se gli elettorati sono molto compatti, ovvero se le loro articolazioni sono relativamente modeste. In altri casi sono una rischiosa forzatura. Se gli elettorati sono parecchio diversificati, se le distanze tra i vari segmenti che li compongono sono troppo lunghe, il maggioritario non è più un motivo di stabilità, ma di continue fibrillazioni. È inevitabile che chi ha vinto si trovi condizione di debolezza. Così è in Francia da almeno un quindicennio.

Torniamo di nuovo a fare qualche numero. Il primo turno delle presidenziali ha mostrato una diversificazione e una divaricazione considerevole: tra destra e sinistra, tra politica convenzionale e antipolitica. Di suo, Macron aveva ottenuto al primo turno il consenso di meno di due elettori su dieci. Al secondo turno la sua quota è raddoppiata, ma in tanti l’hanno votato assai di controvoglia. È verosimile che il malcontento cresca rapidamente tra chi non l’ha votato e pure tra chi l’ha votato. I sondaggi sono lo strumento ideale per aggravare la piaga. In tal caso il destino di Macron non sarebbe molto diverso da quello dei suoi ultimi predecessori. Così stanno le cose. Nelle società in cui viviamo non vi sono unicamente disuguaglianze più gravi che in passato. In esse convivono a fatica interessi, opinioni, valori molto eterogenei. Il compito della politica sarebbe quello di ricomporli. Ma le ricomposizioni forzate e artificiose prodotte grazie a una legge elettorale fortemente manipolativa rompono più di quanto aggiustano. Non converrebbe allora ben di più accettare l’idea che il maggioritario è una formula inadatta ai tempi difficili in cui stiamo vivendo e pagare il costo di costituire governi di ampia coalizione? Le coalizioni sono in realtà inevitabili sempre: lo dimostra la coalizione occulta su cui si fonda il primo governo costituito da Macron: una coalizione di ex-repubblicani, ex-socialisti, di centristi, con una lieve spolverata di società civile. Forse offrire agli elettori l’opportunità di esprimere più genuinamente le loro preferenze e di riconoscersi meglio in chi li governa e li rappresenta sarebbe una mossa più onesta e più saggia.

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