La tratta di esseri umani tra politiche di protezione sociale e rischi di vittimizzazione secondaria

Consuelo Bianchelli si occupa del drammatico problema della tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale che interessa anche il nostro paese. Dopo avere richiamato le caratteristiche principali di questo fenomeno, Bianchelli si sofferma sulle politiche nazionali di protezione sociale per vittime di tratta mette in luce gli aspetti critici che intervengono nell'applicazione della normativa di riferimento (Art. 18 D.Lgs 286/98) e conclude ricordando che i rischi più seri che si corrono sono quelli di marginalizzazione e di vittimizzazione secondaria.

La tratta di esseri umani, un’espressione che ricorda la schiavitù di tempi passati e luoghi lontani. Per lungo tempo abbiamo considerato la tratta un fenomeno relegato in un’ alterità storico-geografica e culturale; ritrovarla invece sulle strade, nei cantieri edili, nei campi di pomodori e in molti altri luoghi della nostra quotidianità ci porta a riflettere sulla contemporaneità di questa pratica e sulle sue declinazioni post-moderne. I capitali investiti per la tratta provengono generalmente da precedenti traffici di armi e droga, i costi di gestione del commercio e dello sfruttamento delle vittime sono notevolmente inferiori agli alti tassi di guadagno derivanti dalle loro prestazioni.

Donne, uomini e bambini impiegati da gruppi criminali a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo, di accattonaggio o di prelievo d’organi: prostitute, manovali edili, braccianti, assistenti familiari, minori obbligati a chiedere l’elemosina e a compiere furti o spaccio di droga.

Il protocollo addizionale alla Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale (Palermo 2000) ha fornito una definizione largamente accettata che descrive la tratta di esseri umani come il reclutamento, il trasporto, l’ospitare persone tramite l’impiego della forza, minaccia o altre forme coercitive, rapimento, inganno, abuso di una posizione di vulnerabilità a scopo di sfruttamento. Il conclamato successo del Protocollo di Palermo è frutto di un processo di negoziazione durato più di due anni che ha portato gli Stati ONU a confrontarsi sulle divergenti posizioni politiche, religiose e culturali in merito a prostituzione, sfruttamento, differenza di genere e pari opportunità.

Questo articolo prende in esame la tratta a scopo sessuale che in Italia rappresenta il 62% del più ampio fenomeno del trafficking in human beings.

La tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Promesse di lavoro, debt-bondage, rapimento o sempre più frequentemente accordi informali -in un secondo momento non rispettati- circa il lavoro da svolgere e la spartizione dei guadagni. Le migranti si affidano a sfruttatori e sfruttatrici che il più delle volte sono conoscenti, amici e familiari per fuggire da un contesto sociale opprimente. Le donne divengono oggetto di compravendita e le cifre variano in base alla giovinezza, al colore della pelle, alla bellezza e alla verginità. Talvolta -soprattutto per i traffici da Est Europa- i corpi vengono ispezionati, saggiati, esposti agli occhi dei possibili acquirenti durante aste che si svolgono in grandi città o zone di confine. Fin dalle prime fasi del viaggio si manifestano abusi, percosse, minacce.

La violenza assume una triplice dimensione: non soltanto materiale e psicologica ma anche simbolica. La profonda violazione della dignità e le strategie di inferiorizzazione mirano a indebolire l’autodeterminazione della migrante e ad affermare le regole ordinatrici del rapporto fortemente asimmetrico tra sfruttatori e sfruttate. Percosse, minacce, sevizie piuttosto che concessioni o premi di vario genere seguono rispettivamente l’inadempimento o l’osservanza dei patti imposti secondo una dinamica di punizione e ricompensa. La violenza può essere eseguita anche in modo apparentemente casuale quando botte, marcature a fuoco e stupri sembrano svincolati da qualsiasi nesso causale essendo in realtà orientate a costituire un regime di terrore che stordisce e disorienta la vittima.

Gli odierni sfruttatori est-europei organizzano brevi e intensi cicli di sfruttamento: essi reclutano ragazze che vivranno in una regione italiana per pochi mesi (talvolta giusto il tempo previsto dal visto turistico) per poi rimandarle in patria o cederle ad altre organizzazioni, provvedendo a sostituirle con altre donne. Questa strategia permette non soltanto di portare sul mercato prostituzionale un’offerta sempre nuova ma anche di destabilizzare eventuali relazioni sociali tra le prostitute e altre persone non appartenenti alla cerchia criminale (clienti, operatori di associazioni, polizia).

Nel caso della tratta dalla Nigeria l’intermediazione è gestita dalle Madame, donne che attraverso il complesso network transnazionale hanno gioco facile nel venire a conoscenza delle ragazze che si trovano in situazioni di particolare vulnerabilità. Una volta convinta la migrante a partire, la Madame anticipa i costi del viaggio e suggella un contratto formale o informale con la famiglia della ragazza aprendo le porte a una forma di indebitamento (solitamente di 50.000-60.000 euro) che permeerà l’esperienza migratoria.

Il panorama italiano. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ogni anno sono circa 1 milione le vittime, di cui 500 mila indirizzate in Europa. L’ONU stima che nel mondo siano circa 2,7 milioni le persone trafficate, di cui l’80% sarebbe coinvolto nel mercato dello sfruttamento sessuale. Secondo un recente rapporto del GRETA (Group of Experts on Action against Trafficking in Human Beings) in Italia tra il 2011 e 2013 sono state identificate 4530 vittime di tratta. Sono ovviamente stime approssimative poiché la struttura sommersa del fenomeno e la condizione di clandestinità rendono complicata la raccolta di dati quantitativi. Inoltre quanto sia diffusa la tratta di esseri umani è una questione tutt’altro che neutrale rispetto ai riferimenti cognitivi e politici con cui si guarda al fenomeno.

La storia della prostituzione in Italia sembra rispecchiare gli sconvolgimenti economici e geo-politici degli anni Ottanta e Novanta dovuti al crollo del Muro di Berlino, alla guerra nei Balcani e alla crisi petrolifera. Nel corso del tempo le migrazioni hanno continuato a configurarsi non solo come fuga da povertà e guerra, ma anche come strategia di resistenza e ricerca di valide alternative all’oppressione sociale, economica e di genere. Nei primi anni Novanta arrivarono nel Bel paese ragazze provenienti dai paesi balcanici e dalla Nigeria, mentre qualche anno più tardi tra il 1993 e 1994 fu la volta delle albanesi. Donne giovani la cui presenza sulle strade trovò un favorevole riscontro tra i clienti italiani, pronti a esperienze sessuali percepite e rappresentate come esotiche ma reperibili a pochi chilometri da casa.

Tra i primi ad avvicinarsi alle ragazze furono le Unità di Strada promosse da enti del terzo settore che svolgevano attività di assistenza e riduzione del danno. Violenza, sfruttamento, abusi di vario genere vennero lentamente alla luce. Ben presto si rese necessario capire come fosse mutata la realtà sociale della strada che non parlava solo di prostituzione ma di forme di grave sfruttamento, assoggettamento e talvolta di tratta. La drammaticità del fenomeno sollecitò le istituzioni politiche a elaborare strategie di contrasto.

Riflessioni sulla normativa italiana. Nel 1998 all’interno del Testo Unico sull’Immigrazione (D.Lgs 268/98) vide la luce una normativa che è diventata un punto di riferimento per l’elaborazione di future direttive europee. In Italia contrariamente a quanto è avvenuto in altri Stati europei, il primo passo è stato mosso non tanto in un’ottica di repressione del crimine, quanto piuttosto di protezione delle vittime. L’articolo 18 del Testo Unico ha stabilito misure amministrative che prevedono il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari e l’inserimento in progetti di protezione sociale. Tali programmi offrono alloggio, assistenza medica e psicologica, sostegno legale, mediazione linguistica, insegnamento dell’italiano e orientamento lavorativo.

La protezione ai sensi dell’art. 18 D.Lgs 286/98 avviene attraverso due canali distinti: il permesso di soggiorno viene rilasciato dalla Questura, previa proposta o parere della Procura, qualora la vittima denunci i propri sfruttatori (cosiddetto percorso giudiziario). Nel caso in cui la vittima non voglia o non possa collaborare con l’autorità giudiziaria, l’associazione addetta alla presa in carico stila una relazione sull’esperienza di sfruttamento vissuta dalla migrante e la inoltra alla Questura la quale valuterà la questione in via esclusiva (cosiddetto percorso sociale).

Molteplici sono gli elementi di novità portati dall’Art. 18: la norma ha innanzitutto creato un sistema di assistenza delle vittime prima che venissero stabiliti obblighi a livello sovranazionale. Inoltre la sua natura non premiale permette alla vittima di sottrarsi all’organizzazione criminale e ricevere protezione sociale indipendentemente dalla volontà o possibilità di sporgere denuncia.

Tuttavia proprio su questo punto si profila un’evidente discrasia tra norma e prassi che ha condizionato l’integrale applicazione dell’articolo 18 D.Lgs 286/98: il rilascio del permesso di soggiorno attraverso il “percorso sociale” è sempre meno frequente. In gran parte di Italia il percorso giudiziario si profila come pressoché unica possibilità di regolarizzazione e accesso alle politiche di accoglienza. La denuncia racchiude spesso un’istanza di protezione più che una volontà di perseguire penalmente i propri aguzzini. In molte regioni italiane risulta complicato, se non impossibile, assicurare la presa in carico della migrante nel caso in cui questa non denunci la rete degli sfruttatori. Dai programmi di protezione sociale, paradossalmente, sembrano essere escluse le persone più vulnerabili che non denunciano gli sfruttatori a causa del timore per la propria incolumità fisica ed eventuali ritorsioni sui familiari nel paese di origine.

L’ancoraggio del riconoscimento dello status di vittima di tratta al percorso giudiziario ha effetti rilevanti anche sul procedimento penale. Alle denunce strumentali al conseguimento del permesso di soggiorno segue una ritrosia a testimoniare e collaborare con le autorità giudiziarie: i lunghi tempi della giustizia italiana comportano che tra i fatti e il dibattimento passino molti anni e a distanza di tempo la donna potrebbe essere riluttante a narrare la dolorosa esperienza di sfruttamento. Il processo è un contesto conflittuale in cui le dichiarazioni della vittima sono oggetto di un rigido vaglio, sono sezionate, enucleate e ricomposte nel tentativo di costruire una verità processuale. Come mostrano molti processi per violenza sessuale, la vita privata e familiare, i progetti futuri della parte offesa divengono oggetto di interesse e valutazione. Molti organi sovranazionali e comunitari hanno sottolineato che ancora troppo spesso nella dinamica processuale si nascondono rischi di vittimizzazione secondaria.

Le forme di assoggettamento e dipendenza personale si innestano in un tessuto sociale segnato da una continua erosione dei diritti fondamentali. Anche per questo è necessario che le strategie di contrasto alla tratta siano fortemente sostenute da politiche migratorie, di welfare e del mercato del lavoro finalizzate a combattere lo sfruttamento e le discriminazioni razziste e sessiste.

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