La tassa sui robot: discutiamone

Maurizio Franzini riflette sulla cosiddetta “tassa sui robot” per far fronte al rischio di disoccupazione di cui si è discusso soprattutto dopo la favorevole presa di posizione di Bill Gates. Franzini dopo aver ricordato che la proposta è stata avanzata, e bocciata, nel Parlamento europeo, sostiene, anche richiamando studi recenti sugli effetti dei robot su occupazione e salari, che le reazioni generalmente negative verso la tassa sono basate su argomenti che non appaiono conclusivi e auspica che del problema da cui è nata la proposta si discuta al di fuori di opposti pregiudizi.

“Mi stupisco che un Parlamento si rifiuti di discutere di idee presenti …. nei libri e nelle scuole di pensiero già da molto prima che questo dibattito iniziasse……e che rifiuti un dibattito aperto e lungimirante, disattendendo le richieste dei nostri cittadini”.

Con queste parole Mady Delvaux ha accolto, nel febbraio scorso, la decisione del Parlamento europeo di non dare seguito alla sua proposta di fare fronte al rischio di crescente disoccupazione tecnologica, introducendo l’obbligo da parte delle imprese di rendicontare il contributo che i robot e l’intelligenza artificiale danno ai loro risultati, per farne la base imponibile di tasse e contributi sociali.

Mady Delvaux è una deputata lussemburghese – vice presidente della Commissione giuridica – che siede nel Parlamento Europeo nei banchi dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici. Si deve soprattutto a lei se si è parlato e si parla di “tassa sui robot” – che, come si è visto, non è certo una tassa che devono pagare i robot come qualcuno sembra avere malamente inteso.

Il Parlamento europeo ha però bocciato la sua proposta al termine di un dibattito che non si segnala per la profondità e l’accuratezza degli argomenti utilizzati e che sembra essere stato dominato dal timore (meglio, dalla convinzione pregiudizievole) che una simile tassa avrebbe posto un irresponsabile freno all’innovazione. Nella sua delibera il Parlamento si è sostanzialmente limitato a invitare la Commissione ad attivarsi per introdurre forme di assicurazione contro i danni che i robot potranno provocare, tra i quali non rientra la disoccupazione tecnologica.

La proposta della Delvaux ha attirato molta attenzione fuori del Parlamento europeo ed ha collezionato un gran numero di bocciature. Un’eccezione, di grande risonanza, è l’approvazione di Bill Gates che – prodigi della notorietà! – si è visto anche intestare la paternità della proposta.

Bill Gates ha sostenuto che gli introiti della tassa potrebbero essere destinati a finanziare l’assistenza agli anziani e ai bambini per cui vi è carenza di offerta e che non può essere delegata ai robot. Inoltre, la tassa potrebbe rallentare l’introduzione dei robot favorendo un’ordinata transizione verso un nuovo assetto occupazionale, così limitando il rischio, per i lavoratori, di trovarsi di fronte a situazioni drammatiche.

Gli argomenti utilizzati per bocciare la proposta sono diversi. Quello dominante è, però, lo stesso che ha prevalso nel dibattito parlamentare: la tassa rischia di frenare l’innovazione (senza altre qualificazioni) e questo sarebbe un gran danno perché l’innovazione sostiene la crescita, gli standard di vita e l’occupazione.

Tra i più convinti assertori di questa tesi spicca – e non sorprende – la Federazione internazionale della robotica (IFR) la quale ha, appunto, affermato che “l’idea di introdurre una tassa sui robot avrebbe un impatto molto negativo sulla competitività e l’occupazione”. Per dare sostegno a questa affermazione, l’IFR ha citato alcuni dati sull’occupazione nel settore automobilistico che, però, sembrano inadeguati per provare che l’introduzione dei robot aiuta l’occupazione. L’IFR, di nuovo non sorprendentemente, è anche contro la raccomandazione di impegnarsi a definire assicurazioni obbligatorie contro i possibili danni dei robot, indirizzata alla Commissione europea dal Parlamento.

L’idea che il sistema economico disponga di anticorpi adeguati per evitare che la disoccupazione tecnologica persista nel lungo termine è antica, e ben presente nella migliore teoria economica. Keynes, nel suo famoso saggio sulle Possibilità economiche dei nostri nipoti, del 1930, si disse poco preoccupato della disoccupazione tecnologica che considerava un fenomeno temporaneo, l’espressione di una fase transitoria di disequilibrio. Schumpeter, come è noto, vedeva nella “distruzione creatrice” delle innovazioni la forza trainante del capitalismo. Posizioni diverse non mancano, ma la domanda è: di quali elementi disponiamo per affermare che questi anticorpi sono pronti a svolgere il proprio compito anche questa volta e a farlo con rassicurante rapidità?

Coloro che propendono per l’ottimismo spesso si limitano a richiamare il passato (è sempre andata bene) e a ribadire l’indispensabilità delle innovazioni (in generale) per il progresso. Se il primo argomento non possiede una particolare forza persuasiva, il secondo è certamente ben più solido. Ma il punto è: preoccuparsi degli effetti specifici della robotizzazione sull’occupazione costituisce un tentativo di frenare l’innovazione in generale? E’ questa una proposta da “tecnofobici”, categoria alla quale la Delvaux si è premurata di affermare che non appartiene?

Gli ottimisti sostengono anche che il problema oggi è la tendenza dell’automazione a procedere a un ritmo che è troppo lento, non troppo veloce. Al riguardo vengono citati i dati sulla (deludente) dinamica della produttività – e non solo in Italia. Ma quei dati risentono di troppe variabili – ad esempio della diversa espansione dei settori produttivi – per poter essere considerati una prova del fatto che i robot non accrescono in modo rilevante la produttività, laddove vengono introdotti.

Guardando al futuro si tende, poi, a non dar credito (forse con ragione) ai risultati di un noto lavoro di Frey e Osborne secondo il quale il 47% delle occupazioni sarebbe a rischio di completa (o quasi) automazione nei prossimi decenni. Più credibile è considerato un recente studio pubblicato dell’OCSE che, usando un approccio basato sulle mansioni – e quindi idoneo a distinguere i casi in cui l’automazione può essere complementare e non sostituiva del lavoro umano – conclude in modo più tranquillizzante che soltanto il 9% delle occupazioni sarebbe, nella media dei paesi, a rischio.

Senza avventurarsi nelle previsioni per il futuro può essere utile chiedersi che effetto hanno avuto finora i robot sull’occupazione e sui salari. Al riguardo, lo studio più ambizioso è quello pubblicato di recente da D. Acemoglu e P. Restrepo (Robots And Jobs: Evidence from Us Labor Markets, NBER Working Paper 23825, March 2017). L’analisi si riferisce agli USA e al settore manifatturiero – dove i robot sono stati introdotti in misura più consistente -; il periodo considerato sono gli anni 1990-2007. La conclusione principale è che per ogni robot introdotto per mille occupati, hanno perso il lavoro – nel settore manifatturiero – fino a 6,2 lavoratori e i salari sono caduti dello 0,70%, con una riduzione complessiva di 670.000 posti di lavoro. Gli effetti a livello nazionale sono minori perché, grazie alla diminuzione del prezzo dei beni prodotti con i robot, si è creata occupazione altrove: si sono persi nel complesso 3 lavoratori e i salari sono diminuiti dello 0,25% per ogni robot introdotto per mille lavoratori. Ciò indica, tra l’altro, che i robot hanno e avranno effetti rilevanti nella localizzazione geografica dell’occupazione.

Inoltre, Acemoglu e Restrepo trovano che nel settore manifatturiero la produttività è cresciuta ben più che nel resto dell’economia (ad esempio del 4,7% annuo tra il 2000 e il 2007 contro il 2,6% del complesso dell’economia con esclusione dell’agricoltura) smentendo – o, comunque, ridimensionando – la tesi che i robot non abbiano effetti di rilievo sulla produttività.

In breve, sembra che vi sia un consistente effetto diretto negativo su occupazione e salari e gli effetti indiretti compensativi sono insufficienti, almeno finora, per giungere a un bilancio positivo. I lavoratori più penalizzati sarebbero i blue collar senza laurea e questo avrebbe implicazioni ulteriori per la disuguaglianza oltre quelle determinate dalla crescita della disoccupazione. Mancano elaborazioni comparabili per l’Europa ma si può ritenere che gli effetti non siano dissimili anche perché nel periodo 1993-2007, secondo i dati della Federation of Robotics, in Europa occidentale sono stati introdotti 1,6 robot in media per ogni mille lavoratori contro un solo robot negli Stati Uniti.

Questi dati non portano acqua al mulino degli ottimisti ma di certo non bastano per temere una catastrofe. Essi, semplicemente, invitano a vigilare; un dibattito non precluso dalla pregiudiziale ottimista sugli effetti dell’innovazione (in generale) avrebbe precisamente lo scopo di favorire l’individuazione dei modi più idonei per effettuare questa azione di vigilanza.

La tassa sui robot ha ricevuto anche critiche che riguardano non l’azione di freno che eserciterebbe sull’innovazione ma la sua efficacia e la sua pratica applicabilità. In questo tipo di critiche rientra la considerazione che non è facile stabilire con precisione cosa sia un robot e che effetti simili potrebbero aversi con un’innovazione incorporata in una vecchia macchina. Questa è la tesi di Varoufakis, secondo il quale se si tassassero i robot si darebbe un incentivo a adottare l’altro tipo di innovazione con effetti nulli rispetto all’obiettivo di frenare la disoccupazione tecnologica. L’alternativa per Varoufakis, che non costituisce però una novità, consiste nel socializzare parte dei profitti mettendo le azioni delle imprese in un fondo comune pubblico nel quale fluiranno anche i dividendi che serviranno per scopi sociali, inclusi quelli di retraining dei lavoratori. La proposta – in definitiva una riscrittura dei diritti di proprietà – merita attenzione; ma, tornando alla tassa, non so se la sostituibilità tra i robot e l’adeguamento delle vecchie tecnologie sia davvero semplice da attuare e comunque si potrebbe definire l’ambito di applicazione della tassa in modo da limitare il rischio che Varoufakis paventa.

Altra osservazione è quella secondo cui alcuni robot sarebbero complementari e non sostitutivi del lavoro umano. Ma la tassa potrebbe essere definita in modo da distinguere i due casi e potrebbe essere applicata soltanto ai robot che sostituiscono l’uomo. In sintesi, il disegno della tassa dovrebbe essere oggetto di approfondimenti ma prima si dovrebbe decidere se essa è utile, anche come strumento da affiancare ad altre politiche dirette a rendere le innovazioni occasioni di effettivo progresso. Politiche che comunque devono essere create e alle quali probabilmente pensano, ma senza esplicitarle troppo, gli ottimisti.

Ma quali elementi abbiamo per prendere una simile decisione? Ecco il punto: in assenza di un serio dibattito non si può dare una risposta convincente. Verrebbe da dire che le ragioni a favore appaiono non meno solide di quelle contro. Tra di esse vi è anche quella che concepisce la disoccupazione tecnologica come una mera esternalità, cioè un danno recato ad altri e non compensato nell’immediato ma che potrà essere compensato solo se e quando si creerà altra occupazione. Quale principio impedisce di considerare giusto ed efficiente applicare una tassa temporanea sui robot fino al riassorbimento della disoccupazione, che gli stessi introiti delle tasse potrebbero facilitare? Una posizione di questo tipo è espressa da Shiller e a rafforzarla concorre la possibilità che i robot portino a una mera sostituzione di salari con profitti (ed eventualmente ad una limitata riduzione del prezzo) dunque a un vantaggio per alcuni cui corrisponde un danno ben preciso per altri, senza ulteriori rilevanti vantaggi per la collettività. Se si trattasse di questo sarebbe davvero grave per il progresso (quale?) tassare i robot?

Ripeto, il punto è che non abbiamo elementi sufficienti per dare una risposta fondata e sarà così finché ci si farà guidare più dai pregiudizi che da fondate (e non facili) analisi. Il pregiudizio principe è che tutte le innovazioni sono “buone” e quindi ogni granello messo negli ingranaggi è un’offesa al progresso. Sembra, invece, di poter dire che non tutte le innovazioni sono buone e che il compito dovrebbe essere quello di dotarsi di un sistema istituzionale in grado di individuare e promuovere le innovazioni buone e frenare quelle cattive. Un compito tutt’altro che agevole. Ma che sarebbe bene prendere sul serio. Se si liquida la tassa sui robot con gli argomenti che abbiamo visto, si mostra, in realtà, di non voler prendere sul serio questo problema. Un problema che, invece, può essere decisivo per il progresso delle nostre società sospese tra la speranza di un futuro luminoso – grazie a innovazioni che ci libereranno dai lavori faticosi e ci permetteranno di raggiungere forme di benessere oggi impensabili – e il timore di un domani senza lavoro, senza benessere e con intollerabili livelli di segregazione economica e sociale.

 

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