La scuola italiana e il divario tra “ricchi” e “poveri”

Maurizio Franzini e Michele Raitano esaminano un recente studio pubblicato dall’OCSE che ha ricevuto molta attenzione e che è stato interpretato come la prova che la scuola italiana riduce i divari tra i figli dei ricchi e quelli dei poveri. Franzini e Raitano spiegano l’effettivo contenuto dello studio e perché esso non possa in alcun modo giustificare l’affermazione che la scuola italiana è “inclusiva”. Al contrario, altri dati mostrano che essa non lo è affatto e rischia di esserlo sempre meno, se alcune tendenze in atto non verranno contrastate.

Si può pretendere dai giornali e dai mass media una presentazione fedele ed accurata dei risultati raggiunti da studi di una qualche complessità? E se questo non si può pretendere, si può almeno chiedere di lasciare spazio a parole di dubbio nel presentare la propria interpretazione di quello che emergerebbe da quegli studi? Domande come queste sono venute alla mente nei giorni scorsi leggendo quello che si è riusciti a dire e a scrivere a proposito di uno studio dell’OCSE sulle competenze dei giovani e sul ruolo della scuola nel limitare gli effetti delle origini familiari su quelle competenze. Infatti, si è scritto che in Italia la scuola “colmerebbe il divario tra i ricchi e i poveri”, cioè sarebbe un perfetto strumento di realizzazione della tanto agognata eguaglianza delle opportunità. Purtroppo, neanche inforcando il paio di occhiali più deformanti si può leggere sulle righe e tra le righe dello studio dell’OCSE una conclusione di questa natura. E vediamo perché.

Lo studio dell’OCSE mette a confronto i risultati di due indagini di rilevazione delle competenze (non nozionistiche) degli intervistati realizzate dallo stesso OCSE, la PISA (Programme for International Student Assessment), condotta periodicamente a partire dal 2000 su un campione di quindicenni, e la PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) condotta nel 2012 su un campione di individui di età compresa fra i 16 e i 65 anni. Da queste indagini, lo studio estrae le informazioni relative alle competenze nella literacy (la capacità di comprensione di un testo scritto) e nella numeracy (la capacità di calcolo e ragionamento matematico/scientifico) dei soli nati nel 1985. Tali informazioni sono quelle rilevate dall’indagine PISA nel 2000 (quindi rispetto ai quindicenni di allora, che frequentavano la scuola media superiore) e dalla PIAAC nel 2012 (quando gli intervistati avevano 27 anni ed erano nelle prime fasi della loro carriera lavorativa o in quelle finali del percorso universitario).

Un punto da sottolineare è che i giovani le cui competenze sono state rilevate nel 2012 non sono gli stessi sottoposti a test nel 2000: ciò che i due insiemi di giovani hanno in comune è soltanto l’anno di nascita. Quindi parliamo di un confronto tra individui diversi (che condividono soltanto l’anno di nascita) e che riguarda un insieme specifico di competenze – non gli esiti formativi, né tanto meno la loro collocazione sul mercato del lavoro. Nulla più di questo, che è davvero troppo poco per desumere qualcosa sugli effetti che la scuola ha sulle competenze dei giovani o, a maggior ragione, sul divario tra ricchi e poveri. Ma lo studio dell’OCSE permette, almeno, di affermare che è stato colmato il divario nelle competenze (di literacy e eventualmente di numeracy) tra (approssimativamente) i figli dei ricchi e i figli dei poveri?

Anzitutto va ricordato che per rappresentare le diverse origini familiari, lo studio utilizza indicatori ben poco raffinati. Infatti, gli studenti sono considerati avvantaggiati o svantaggiati a seconda che abbiano o meno almeno un genitore laureato o che vivano o meno in case nelle cui librerie sono allineati almeno 100 libri. La misura del divario di competenze fra i due gruppi di avvantaggiati e svantaggiati così definiti non è poi calcolata con tecniche che consentano di tenere conto di alcuni fattori da cui questi divari possono essere determinati (ad esempio, il tipo di scuola frequentata o la regione di residenza), ma è basata sulla semplice differenza delle competenze medie di chi appartiene ai due gruppi, rilevate nel campione del 2000 e in quello del 2012.

L’indagine del 2000 porta alla conclusione che in Italia gli studenti svantaggiati mostrano competenze di literacy peggiori rispetto agli avvantaggiati e l’indicatore di questo effetto negativo del background familiare assume il valore stimato di 0,45. Nella media dei paesi dell’OCSE questo valore è invece leggermente superiore: 0.48. Sfortunatamente lo studio fornisce questa stima soltanto per le competenze di literacy; per quelle di numeracy si limita a fornire dati, distinti per paese, sulle sole differenze di genere e non di background familiare.

Se ci si vuole entusiasmare per la performance italiana la base lo studio dell’OCSE non offre altro che questo: un divario nelle competenze di literacy dei quindicenni del 2000, provenienti da background diversi nel senso che è stato chiarito, inferiore (di molto poco) a quello medio dei paesi OCSE – anche se, si potrebbe aggiungere, pur sempre consistente. Occorre un uso non parsimonioso dell’arte dell’approssimazione per parlare di “divario colmato tra ricchi e poveri”.

E una discreta propensione a tollerare le approssimazioni occorre anche per affermare, come ha fatto la Ministra Fedeli, che “I dati ci dicono che la scuola italiana è una scuola inclusiva: fra le nostre e i nostri quindicenni le differenze socio-economiche di partenza pesano meno che in altri Paesi». Siamo di fronte a un’approssimazione per diversi motivi: perché basarsi solo sulle competenze di literacy per parlare di scuola inclusiva (senza, peraltro, distinguere il tipo di scuola superiore frequentata) è, appunto, approssimativo; perché non vi sono prove che quel ridotto divario sia dovuto alla scuola; perché lo studio dell’OCSE si riferisce ai risultati degli studenti rilevati nel 2000 e i meriti di un’eventuale performance positiva non sono, dunque, attribuibili all’attuale organizzazione del sistema scolastico; e perché il percorso formativo continua dopo i 15 anni e i dati riferiti ai ventisettenni possono anche essere interpretati – sulla base degli stessi criteri che portano a parlare di scuola inclusiva per i quindicenni – come prova del fatto che scuola e università, dopo i quindici anni, sono ben poco inclusive.

Infatti, i risultati relativi al test sulle competenze di literacy condotto nel 2012 sui nati nel 1985 dimostrano, anzitutto, che il divario tra giovani avvantaggiati e svantaggiati è ovunque (con poche eccezioni: Canada, Belgio, Stati Uniti e Corea) maggiore di quello rilevato nel 2000 sui nati nel 1985. A livello medio OCSE l’indicatore assume il valore di 0,61 (maggiore dello 0,48 di cui si è detto in precedenza). Dunque, se si volesse proporre un’interpretazione, si dovrebbe dire che pressoché ovunque il divario nelle competenze si fa più accentuato con il passare degli anni. E, se si volesse sottoscrivere una simile interpretazione, si potrebbe trovare conforto in altri dati che emergono dallo studio. In particolare quelli che riguardano il divario all’interno del gruppo di coloro che si collocano in basso nella classifica delle competenze a 15 anni d’età. Infatti, il divario di background nel 10% peggiore (in questo senso) passa da 0,48 nel 2000 a 0,77 nel 2012. Dunque si potrebbe dire che tra coloro che hanno le performance peggiori le distanze tra avvantaggiati e svantaggiati sono più nette nell’età più adulta.

Per quanto riguarda l’Italia, l’indicatore del divario complessivo dovuto al background raggiunge il valore di 0,67, quindi è superiore a quello medio OCSE. Lo stesso criterio che portava a parlare di scuola inclusiva dovrebbe ora giustificare una conclusione tendenzialmente opposta: il complessivo processo formativo scolastico e, se si vuole, il mercato del lavoro nella fase di avvio della carriera, sono responsabili nel nostro paese di un divario tra “ricchi” e “poveri” maggiore di quello che si ha nella media dei paesi OCSE.

Ma quale significato si può fondatamente attribuire a questi risultati e cosa ci possono dire sul problema generale della capacità della scuola di essere realmente inclusiva e di colmare (ma in che senso?) il divario tra ricchi e poveri? Prima di rispondere a questa domanda è utile ricordare brevemente alcuni limiti dello studio dell’OCSE.

Si è già detto che lo studio non prende in esame gli stessi individui a distanza di 12 anni e che , nel valutare e confrontare le competenze, non controlla per alcune variabili certamente molto importanti come il tipo di scuola o la regione di residenza. Ma oltre a ciò lo studio, come si è già notato, si limita a rilevare le differenze medie nella literacy, troppo poco per rappresentare il vero divario che dovrebbe riguardare gli esiti formativi complessivi e, ancora di più, il successo o l’insuccesso nel mercato del lavoro. Infine, l’efficacia della scuola nel permettere agli svantaggiati di ridurre le distanze (se di questo si tratta) resta largamente dubbia.

Anche sulla base di queste considerazioni cerchiamo di dare risposta al quesito formulato poco sopra.

Una valutazione della capacità della scuola di ridurre gli svantaggi iniziali dovrebbe tenere conto di quello che conosciamo sulla trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze – di istruzione e di reddito da lavoro – nel nostro paese.

Come risulta da un’altra importante pubblicazione periodica dell’OCSE, Education at a glance, in Italia l’influenza del background sul titolo di studio conseguito è altissima. In un paese nel quale è massima la quota di individui di età compresa tra i 25 e i 44 anni che non hanno neanche un diploma di scuola media superiore, la percentuale di persone in queste condizioni è particolarmente alta – in assoluto e nei confronti internazionali – per coloro che provengono da background svantaggiati. Come mostra la fig. 1 il 53% di chi non ha genitori laureati da noi non raggiunge il diploma di scuola superiore mentre la corrispondente percentuale su tutta la popolazione è 41%. Entrambi i valori sono elevatissimi nei confronti internazionali.

Fig. 1: Quota della popolazione di età 25-44 che non ha ottenuto un diploma di istruzione secondaria superiore, per origine familiare.

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Fonte: elaborazioni su dati OCSE

 

D’altro canto anche la probabilità di laurearsi per chi proviene da un background familiare meno favorevole è significativamente più bassa, come si osserva dalla figura 2 (ripresa da un nostro precedente lavoro).

Fig. 2: Stima della variazione della probabilità di laurearsi – rispetto ai figli di operai – a seconda dell’occupazione più elevata dei genitori. Popolazione di età 35-49

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Fonte: elaborazioni su dati EU-SILC 2005.

Inoltre, come abbiamo mostrato in numerosi studi (ad esempio, Franzini e Raitano, “Persistence of inequality in Europe: the role of family economic conditions”, International Review of Applied Economics 2009; Raitano e Vona, “Measuring the link between intergenerational occupational mobility and earnings: evidence from 8 European Countries”, Journal of Economic Inequality 2015), a differenza di quanto accade in altri paesi, chi ha vantaggi familiari gode, nel mercato del lavoro italiano, di un premio in termini di reddito piuttosto consistente. L’implicazione è che l’influenza delle origini familiari non si manifesta solo rispetto al titolo di studio acquisito e non termina con il completamento degli studi.

Ciò vuol dire che anche se la scuola riuscisse a contrastare l’influenza della famiglia nell’accesso ai titoli di studi più elevati (cosa che, si è visto, non fa) non verrebbe annullato il divario tra ricchi e poveri. Se il mercato del lavoro è il luogo più appropriato per misurare gli effetti del background familiare, nel nostro paese questi effetti sono enormi e di certo non basta che il divario di competenze in literacy dei quindicenni (di 17 anni fa…) sia lievemente inferiore alle media OCSE per esorcizzare quegli effetti o anche soltanto per considerarli meno gravi.

Dunque la disuguaglianza di opportunità tra ricchi e poveri resta un problema serissimo che richiede di intervenire nelle modalità di funzionamento del mercato del lavoro e, naturalmente, anche nel processo formativo. Usando un termine alla moda si deve anche pretendere che quel sistema diventi più inclusivo evitando di interpretare in modo distorto studi come quelli dell’OCSE. Il pericolo che abbiamo di fronte è, invece, proprio quello di rendere ancora meno inclusiva una scuola che lo è già molto poco. Questo pericolo nasce dalla tendenza a cercare “talenti” già in età molto precoce per indirizzarli verso scuole di eccellenza che sono, sempre più, scuole per ricchi e sempre più spostate verso la fase iniziale del processo formativo. Questa tendenza di certo non gioverà alla riduzione del divario tra ricchi e poveri. E di questo, più che di fantasiose interpretazioni del grado di “inclusività” della nostra scuola, dovrebbero preoccuparsi giornali e politici responsabili.

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