La questione dei rifiuti e i conflitti irrisolti

Daniele Fortini parte dalla considerazione che decidere come e dove smaltire i rifiuti non differenziati, inevitabilmente genera conflitti spesso inconcludenti che coinvolgono politica e istituzioni, cittadini e società. Fortini sostiene che per alleviare i conflitti sulla localizzazione degli impianti o sulle tecnologie di smaltimento e per favorire una gestione dei rifiuti ispirata ai principi dell’economia circolare occorre dare soluzione ad altri conflitti, sommersi o poco conosciuti, che elenca con precisione.

Tutto sommato, quella dei rifiuti non è questione impossibile da risolvere. Tutt’altro. Nei Paesi del centro e del nord dell’Unione Europea nei quali, da almeno un decennio, è assicurata una responsabile e illuminata politica del recupero e dello smaltimento dei rifiuti, nessuno si sognerebbe di usare questo tema per animare violenti scontri politici, talora dai connotati ideologici e più spesso rivelatori di corposi interessi in conflitto tra loro. Il solo business legale dei rifiuti urbani italiani, esclusi i rifiuti industriali, vale oltre 9 miliardi di euro all’anno senza considerare il valore economico dei traffici illeciti, purtroppo consistenti.

Oltre alla sindrome NIMBY, cioè “non nel mio giardino”, che riguarda ormai la collocazione di ogni genere di impianto dedicato al trattamento o allo smaltimento dei rifiuti, sia esso un inceneritore come un compostaggio e pur considerando la larga avversione a taluni processi industriali come il recupero di energia, resta il fatto che l’Italia consegna alle discariche il 30% dei circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti generati nel 2015 mentre questa percentuale è consolidata al di sotto del 3% in Germania, Danimarca, Svezia, Olanda e in altri Paesi. Ciò accade, paradossalmente, nel momento in cui l’Italia vanta alte percentuali di raccolta differenziata (oltre il 42% nel 2015), peraltro raggiunta grazie alle regioni settentrionali che compensano quelle, assai più basse, espresse nel Mezzogiorno.

Quello delle infrastrutture per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti, dunque, è un campo di conflitti irrisolti che ancora zavorrano il Paese nello sviluppo delle migliori pratiche ambientali e che, soprattutto, incidono negativamente sull’efficienza di sistema. Eppure, l’efficienza di sistema sarebbe raggiungibile risolvendo altri latenti e incombenti conflitti, la cui soluzione potrebbe avere un positivo riverbero proprio sulla problematica delle infrastrutture. Vediamone alcuni.

Il primo e più acuto riguarda proprio la raccolta differenziata, i suoi oneri e i suoi vantaggi nella catena del valore generata dal recupero delle materie riciclabili. A ben vedere, milioni di italiani si sono dedicati, a casa come in ufficio o nel negozio, alla funzione di “netturbino ausiliario”. Sono i cittadini che differenziano i rifiuti, li ripongono nei contenitori specifici compiendo una attività di cernita e selezione degna di una catena di montaggio. L’azienda incaricata della raccolta, pubblica o privata che sia, preleva i carichi e li consegna alla filiera industriale orientata alla valorizzazione economica di quei materiali. Ebbene, il valore generato dai “netturbini ausiliari” non è considerato e men che meno, ricompensato: la tariffa (TIA) o la tassa (TARSU), cresce ogni anno del 2,5%. I maggiori costi, procurati da un moderno sistema di raccolta differenziata (per esempio il porta-a-porta), infatti, non sono compensati dal valore aggiunto del riciclaggio delle materie recuperate, perché questo è trattenuto dalla filiera industriale. Orbene, esiste già oggi la possibilità tecnica di assegnare all’apparato industriale le attività di cernita e selezione, ora svolte dai “netturbini ausiliari”, ma ciò destinerebbe a quell’apparato un rilevante costo ora distribuito su milioni di persone. I cittadini potrebbero, come accade altrove, consegnare al servizio di raccolta i loro rifiuti “secchi” riciclabili (plastica, lattine, carta e cartone) in un solo contenitore e risparmiare assai sui costi pubblici di raccolta. Per l’apparato industriale, però, è molto più conveniente ricevere rifiuti distinti con certosina precisione, puliti e facili da lavorare per il reimpiego procurando elevati margini di profitto. Il conflitto, tra interessi sociali e interessi privati, è latente e certo non potrà essere mitigato dalle promesse di sconti tariffari ai cittadini operosi (irrisori e difficili da attuare) o dal blandire la coscienza pulita di chi si è comportato bene facendo la differenziata.

Se indagassimo più in profondità, per esempio nel mondo del riciclo della plastica, troveremmo sorgenti di potenziale conflitto assai stridenti. Le plastiche rigenerabili con profitto, infatti, non sono la totalità di quelle prodotte e usate. Le famiglie della plastica sono più di 400, ma soltanto il PET (bottiglie per alimenti), l’HDPE (flaconi dei detersivi) ed i film (sacchetti, nastri, bobine…) sono facilmente e convenientemente riciclabili. Queste frazioni costituiscono il 55% delle plastiche raccolte con la differenziata, mentre il 45% è composto da plastiche, eterogenee e non riciclabili, il “plastmix”, destinate allo smaltimento negli inceneritori che ne ricavano energia. All’industria che produce imballaggi in plastica, interessano le frazioni utilmente riciclabili e rivendibili mentre le plastiche eterogenee, destinate a bruciare, rappresentano un puro costo di smaltimento. Ricevere plastiche pregiate, pulite e distinte, lasciando alla sfera pubblica della raccolta l’onere e i costi dello smaltimento del “plastmix”, è il comprensibile obiettivo del comparto industriale. A quel punto, però, il soggetto pubblico si ritroverebbe a veder aumentare i rifiuti indifferenziati, tra i quali finirebbero le plastiche eterogenee, pagandone sia i costi di raccolta che quelli di smaltimento. Insomma, mentre l’industria degli imballaggi riceverebbe una “materia prima seconda” di alta qualità e agevole valorizzazione, la collettività avrebbe più rifiuti da raccogliere e smaltire con un sicuro aumento di costi. Anche in questo caso il conflitto è piuttosto palese, nella contesa tra equa distribuzione dei costi e sostenibile redistribuzione dei benefici.

Per altro verso, ad esempio, oggi sarebbe possibile sostituire una buona parte di plastiche tradizionali con bioplastiche ottenute da fibre vegetali (dagli scarti di mais alle bucce di pomodoro), ma l’industria delle cosiddette “acque minerali”, che magari ha installato linee di produzione per fabbricare in house bottiglie in PET, appare piuttosto reticente dall’intraprendere nuovi percorsi ecologici.

Il conflitto che rischia di diventare più evidente e strutturale, tuttavia, riguarda l’attuale assetto del ciclo di trattamento e smaltimento dei rifiuti indifferenziati.

Negli ultimi venti anni, in Italia, abbiamo assistito alla proliferazione di impianti di trattamento meccanico-biologico (TMB) di cui oggi è disseminato il nostro territorio. Ne abbiamo più di 200 e da soli disponiamo di una parco TMB superiore a quello di tutti i paesi europei messi assieme. Di cosa si tratta? I TMB sono stabilimenti nei quali si conferiscono rifiuti urbani indifferenziati che, triturati e vagliati secondo un protocollo, rilasciano rifiuti da collocare in discarica o conferire agli inceneritori. Qualcuno li ha definiti “macchine che generano rifiuti da rifiuti” e in effetti, questi impianti non fanno sparire i rifiuti, non li smaltiscono, ma servono a diminuirne il potenziale inquinamento che potrebbero causare laddove fossero seppelliti in discarica così come sono. Difatti, la parte organica (gli scarti della nostra alimentazione) viene sottoposta ad un processo di biostabilizzazione che quasi elimina la carica batterica e minimizza la pericolosità del suo collocamento in discarica (minor biogas in atmosfera, minori volumi di impiego del suolo, minore rilascio di percolati). Cosicché una parte dei rifiuti consegnati al TMB diventa combustibile (CDR), una parte diventa frazione organica biostabilizzata (FOS) e una parte saranno scarti di lavorazione. Il materiale in output dai TMB, però, dovrà comunque essere smaltito in discariche e inceneritori, perché altri impieghi non ne sono consentiti (restano rifiuti, infatti).

Fintanto che l’Unione Europea sospingeva, nel campo dei rifiuti, la priorità di diminuire l’impiego delle discariche, i TMB una loro funzione la svolgevano nel minimizzare i rischi di inquinamento procurati proprio dalle discariche. Una funzione costosa e poco efficiente (il 70% della componente organica finisce comunque in discarica), ma socialmente accettata e funzionale anche alla filiera del recupero di energia. Adesso che l’Unione Europea, con l’Italia tra i più decisi sostenitori, abbraccia e sospinge l’economia circolare come nuova frontiera dell’azione economica e richiede, perciò, di stressare ogni pratica o processo che consenta di evitare la produzione di rifiuti o di rifiuti da rifiuti, il ruolo dei TMB sembra coniugato al passato remoto rispetto ad un ciclo fatto di differenziata, riciclaggio, recupero di energia e azzeramento delle discariche. Ma ancora oggi, i TMB sono il perno che consente all’Italia di inviare in discarica quasi 10 milioni di tonnellate di rifiuti, ogni anno, senza incappare nelle sanzioni europee e sono proprio i TMB, in molti casi, a permettere l’alimentazione degli impianti di recupero di energia dai rifiuti. La Campania, nel 2015, ha inviato ai suoi sette TMB circa 1,4 Ml/ton di rifiuti indifferenziati. Il Lazio circa 1,7 Ml/ton ai propri 14 impianti TMB. Cifre inferiori, ma ugualmente di milioni di tonnellate, nelle altre regioni.

I 200 TMB italiani sono, allora, un vincolo di sistema che costringe ad aver bisogno di inceneritori e discariche e rallenta il processo virtuoso dell’economia circolare, ma ora sembrano, nel contempo, irrinunciabili.

Un bel dilemma, certamente foriero di conflitti e tuttavia ineludibile nella prospettiva “End of Waste” patrocinata dall’Unione Europea.

È dalla soluzione dei conflitti, comunque, che può uscire una moderna e prospettica gestione del ciclo dei rifiuti, ancora oggi segnato dal caos. Avendo per bussola la tutela del pubblico e generale interesse e scegliendo le cose semplici, giuste e convenienti per tutti che si possono fare. Poi si può discutere di “decrescita felice” o “rifiuti zero”, anzi, se ne deve discutere per quell’innalzamento culturale necessario ad accompagnare ogni processo di cambiamento. Ma i conflitti, anche per questo necessari nel confronto tra interessi contrapposti di conservazione e innovazione, devono essere svelati e gestiti.

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