La politica monetaria del New Deal e la (limitata) influenza di Keynes: le tesi di un nuovo libro

Stefania Jaconis analizza il recente libro dello storico Eric Rauchway, sulla politica monetaria del New Deal, un argomento poco trattato nella pur vasta letteratura sulla Grande Crisi. Jaconis, dopo aver sottolineato che Rauchway tende a sfatare il mito dell’incompetenza economica di Roosevelt, si sofferma sulla ricostruzione dell’uscita degli USA dal Gold Standard e sul rapporto tra Roosevelt e Keynes, concordando con la tesi di Rauchway secondo cui Keynes solo in parte ispirò le battaglie contro la ‘ortodossia finanziaria’ dell’epoca.

Poco è stato scritto sul ‘pensiero economico’ di Franklin Delano Roosevelt, e su come siano stati composti i singoli pezzi di quel grande mosaico che va sotto il nome di New Deal. Eppure, l’unico presidente degli Stati Uniti eletto per quattro mandati consecutivi era estremamente informato sulle tecnicalità del disegno di riforma globale che permise di sconfiggere la Grande Depressione, quando non ne fu addirittura l’ispiratore. E’ questa la tesi di un nuovo libro sulle vicende economiche di quel periodo, The Money Makers, dello storico statunitense Eric Rauchway (Basic Books, New York, 2015).

L’opera, di notevole interesse storico-ricostruttivo, pone al centro dell’attenzione la politica monetaria del New Deal, e colma quindi uno spazio lasciato scoperto nella letteratura sulle riforme rooseveltiane che, soprattutto sul fronte della storia economica, tende a privilegiare l’analisi delle politiche ‘keynesiane’ di spesa pubblica. E ciò malgrado sia ormai acquisito – soprattutto nei lavori degli economisti – che la politica monetaria statunitense del periodo è stata relativamente più efficace nel debellare la recessione (basti citare gli scritti di P. Temin, C.Romer e G.B. Eggertsson).

Parlare della politica monetaria rooseveltiana significa ovviamente cominciare con il superamento del Gold Standard, che caratterizzò la fase iniziale della nuova presidenza e l’avvio della lotta alla pesante deflazione che aveva funestato gli ultimi anni della leadership di Hoover. La ‘teoria’ che serviva da supporto alla misura di policy era già stata enunciata da Keynes, sia nel ‘Trattato sulla riforma monetaria” (1923) che nel pamphlet polemico ‘Le conseguenze economiche di Mr. Churchill’ (1925) a proposito dell’Inghilterra, che poco tempo prima era sciaguratamente rientrata nel regime aureo.

Ma le tesi keynesiane, come è noto, non ebbero alcun successo nel’indicare gli effetti deflattivi del Gold Standard, e le conseguenze nefaste della politica di alti tassi di interesse e di bassa spesa a cui questo obbligava. In piena recessione economica, nell’ottobre del 1931 la Federal Reserve aveva portato il tasso di sconto dall’1,5% al 3,5% (cosa che, secondo alcuni osservatori, segnò di fatto il passaggio alla Grande Depressione). Roosevelt entrò in carica all’inizio del 1933, e fu accolto da una situazione in cui la crisi valutaria aveva dato avvio a una crisi delle banche, che fallivano una dopo l’altra sotto il peso di un’insostenibile corsa agli sportelli. E tuttavia l’amministrazione Hoover si dibatteva nelle secche di un’immotivata quanto virulenta ‘paura dell’inflazione’: ancora nel gennaio del 1933, ci racconta Rauchway, il segretario del Tesoro Ogden Mills in un discorso alla Columbia sosteneva che la nazione doveva mantenere il pareggio del bilancio e una moneta stabile.

Il libro risulta estremamente utile nella ricostruzione del ‘clima’ che fa da sfondo all’uscita degli Stati Uniti dal Gold Standard, avvenuta nel marzo del 1933, e alle altre misure di politica monetaria che costituirono l’ossatura di questo versante del New Deal, dalle manovre sull’oro agli stimoli inflazionistici, dal Glass-Steagall Act all’istituzione della Sec, l’ente regolatore dell’attività borsistica. Da storico molto attento alle vicende economiche, l’autore ricostruisce con puntigliosità il ruolo dei vari personaggi che fanno da contorno all’operare del presidente.

Ci viene così narrata l’opposizione dei banchieri, e della stampa popolare ad essi in qualche modo legata, che si coniuga con i pochi momenti di esitazione dello stesso presidente, e, soprattutto, con le titubanze e l’altalenare di coloro che avrebbero dovuto spalleggiarlo nella lotta per il nuovo corso del dollaro: non solo Moley, che sembra (ma non da questo libro) avesse la posizione di leading advisor, ma anche Morgenthau, Segretario al Tesoro; White, il grigio funzionario di simpatie filosovietiche che riuscirà vincitore su Keynes nel delineare l’accordo di Bretton Woods; il banchiere Warburg e i consulenti accademici Warren, Tugwell, Berle, Frankfurter….

Le vicende del dollaro fanno da contrappunto alla politica generale del New Deal, di cui costituiscono un aspetto fondamentale anche grazie all’approvazione dell’ Emendamento Thomas, che concedeva al presidente ben quattro modalità diverse per influire sulla politica monetaria: egli poteva infatti intervenire sull’emissione di moneta cartacea, fissare il valore legale dell’argento rispetto all’oro, cambiare il contenuto in oro del dollaro oppure nominare una commissione che fissasse il valore del dollaro in termini di un paniere di beni. Di fatto, queste prerogative non vennero quasi mai esercitate.

Le scelte riguardanti il dollaro avevano poi effetti diretti sulle relazioni internazionali: se la prosperità degli Stati Uniti fu sempre una priorità per Roosevelt, la manovrabilità della valuta favorì sia un incremento degli scambi commerciali in tempo di pace che l’implementazione del Lend-Lease Act, con cui si poterono approvvigionare di materiale bellico gli alleati europei, quando scoppiò la guerra. Fu proprio la politica monetaria, sostiene Rauchway, che consentì al presidente di battere gli isolazionisti del suo paese, allo stesso modo in cui gli aveva sempre permesso di condurre una politica interna espansionistica senza dover troppo dipendere dall’approvazione del Congresso.

Sul piano internazionale, il libro dedica notevole attenzione ai lavori preparatori alla Conferenza di Bretton Woods, che si tenne nel luglio del 1944 e che sancì l’istituzione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Gli accordi che ne sarebbero scaturiti, ci racconta Rauchway, erano pesantemente ostacolati dalla lobby dei banchieri e da molta parte dell’opinione pubblica, in allarme per i possibili effetti inflazionistici del nuovo ordine monetario mondiale. Ma le tesi della Conferenza erano fortemente appoggiate dal Tesoro, il cui delegato, Harry Dexter White, riuscì contro Keynes a far passare il sistema ‘contributivo’ e dollaro-centrico che ha retto l’attività dei due nuovi istituti fino all’inizio degli anni ’70.

Per quanto riguarda la responsabilità per la politica monetaria interna, val la pena ricordare che proprio con gli accordi di Bretton Woods, siglati alla fine del terzo mandato di Roosevelt, questa tornava ad essere prerogativa della Federal Reserve, dopo gli anni ‘eroici’ del New Deal. In quegli anni, il ruolo essenziale fu quello giocato dal Tesoro e dal presidente, e su questo aspetto della questione il libro di Rauchway senza dubbio scrive parole definitive.

E veniamo al rapporto con Keynes. La relazione personale tra Roosevelt e Keynes si articolò in quattro incontri diretti e in alcune (poche) lettere scritte al presidente dal grande economista. The Money Makers ci ricorda che Keynes ebbe parole di elogio per la politica monetaria rooseveltiana, mentre sappiamo che le sue reazioni alla politica fiscale del New Deal furono alquanto meno entusiastiche: nel dicembre del 1933, in una delle lettere indirizzate al presidente, l’economista britannico notava, con molto garbo, la ‘limitatezza’ dello stimolo fiscale impresso all’economia americana, e il fatto che la nuova leadership tendeva a non aver molto chiari i confini esistenti tra una politica volta alla ripresa ed una che mirava a realizzare nuove riforme. Ben più cogenti furono le critiche rivolte da Keynes a Roosevelt dopo che questi, incoraggiato dai successi del nuovo corso di politica economica, nel 1936 attuò anzitempo una parziale stretta sull’economia.

Il rapporto tra la teoria keynesiana e il New Deal statunitense (ovvero il tema della ‘innocenza ideologica’ di quest’ultimo) meriterebbe forse una trattazione più ampia e sistematica di quella dedicatagli dal libro, che pure ha come sottotitolo ‘Come Roosevelt e Keynes posero fine alla Depressione, sconfissero il fascismo e garantirono la pace nella prosperità’. Ma forse chiediamo troppo a una ricerca che si propone come eminentemente storica, e che, rivalutando la competenza economica del presidente americano e degli uomini del suo entourage, implicitamente ipotizza che i supporti teorici alle politiche del New Deal, almeno per quanto riguarda la politica monetaria, siano ascrivibili solo in misura limitata alle tesi portate avanti in quegli anni da Keynes. D’altra parte, l’unico altro libro che possiamo citare dedicato al ‘pensiero economico’ di F.D.Roosevelt, quello di D.Fusfeld del 1956, si limita a nominare l’economista britannico due o tre volte in tutto, e solo a proposito delle politiche di spesa pubblica.

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