La politica della concorrenza: il disegno e le difficoltà odierne

Michele Grillo reinterpreta la politica antitrust alla luce della preoccupazione costante di combinare libertà individuale ed efficienza sociale che richiede a un’Autorità antitrust di amministrare le norme sui divieti di intese e di abusi. La crescente attenzione per l’attività di advocacy nei confronti dei poteri legislativo ed esecutivo, per sollecitarli a provvedimenti di promozione della concorrenza rischia, però, di indebolire questo disegno e di assimilare un’Autorità antitrust a un soggetto politico, che ha nella produzione di consenso un ben diverso obiettivo e metro di successo.

La teoria economica ha sempre esaltato il mercato, ma la gran parte degli economisti sa che l’oggetto di tale esaltazione non è di questo mondo. C’è un mercato ideale (perfettamente concorrenziale) che organizza la convivenza sociale evitando la maledizione dello stato di natura hobbesiano senza pretendere da alcun soggetto alcuna coartazione della propria individualità e nel quale si combinano due elementi: la libertà dell’individuo e l’efficienza sociale, cioè la garanzia che non esiste altra forma di organizzarla i cui esiti sarebbero preferiti da tutti i soggetti. Nel mondo reale il mercato è però imperfetto e libertà individuale ed efficienza sociale possono combinarsi (e a fatica) solo se sostenute da un adeguato disegno istituzionale.

Questo disegno istituzionale è ciò che persegue la politica antitrust. Il diritto antitrust restringe gli insiemi di scelta dei soggetti (vieta intese e abusi del potere di mercato), ma con l’obiettivo di esaltarne, in ultima analisi, la libertà; perché lo fa in modo tale da perseguire l’efficienza sociale continuando a fare leva, anche in mercati non concorrenziali, su decisioni decentrate. I principi antitrust, introdotti in America alla fine dell’Ottocento, a metà del Novecento hanno costituito il fulcro del progetto di integrazione europea; nella globalizzazione, il WTO ne ha fatto infine la base per regolare il commercio mondiale. La preoccupazione di combinare libertà individuale ed efficienza sociale è rimasta costante nel tempo, ma le modalità di intervento hanno subito profonde evoluzioni. Può aiutare a ricostruire un tracciato unitario ripercorrere tre elementi della teoria del mercato ideale su cui i principi antitrust fanno leva.

Il primo elemento (identificato da Walras e Marshall) stabilisce che libertà individuale ed efficienza sociale sono compatibili quando ogni soggetto è price-taker, cioè non ha alcun potere di influenzare, con i suoi comportamenti, i prezzi ai quali hanno luogo gli scambi, propri e degli altri soggetti. Il secondo elemento (intuito da Cournot ma compreso appieno solo alcuni decenni fa con la teoria non cooperativa della concorrenza perfetta) stabilisce che condizione sufficiente per il price-taking è una dimensione del mercato indefinitamente grande rispetto a quella di ciascun individuo. Quando la tecnologia impone alle imprese dimensioni significative per essere efficienti, condizioni di price-taking sono comunque realizzate se i confini del mercato sono indefinitamente allargati. Il terzo elemento, infine, assicura che le condizioni ideali possono essere approssimate con regolarità nel mondo reale, perché il potere di mercato di ciascun soggetto è proporzionalmente tanto minore quanto più ampia è la dimensione del mercato. Questa visione strutturalista suggerisce che la via per coniugare libertà individuale ed efficienza sociale sta nel ridurre il potere di mercato dei soggetti e ciò può avvenire in due modi: ampliando la dimensione dei mercati o, in mercati imperfetti, impedendo l’esercizio del potere di mercato tramite le restrizioni del diritto antitrust.

In questo quadro, una politica per la concorrenza si confronta con due principali difficoltà. La prima è teorica. Il disegno antitrust fa leva su una condizione solo sufficiente: in mercati indefinitamente grandi i soggetti sono price-taker e la loro interazione è efficiente. Questa però non è una condizione necessaria: i soggetti possono avere dimensione rilevante, ma non per questo potere di mercato. La Scuola di Chicago ha fatto leva su questo argomento, affermando che “due è un numero grande per la concorrenza” (e anche “uno” può esserlo, se c’è concorrenza potenziale). L’idea è che se le imprese sono libere di concorrere (non nelle forme ideali della concorrenza perfetta, ma nei processi concorrenziali che si svolgono nei mercati reali) i comportamenti dei soggetti di dimensioni anche rilevanti non riflettono l’esercizio di un potere di mercato (che sarebbe frustrato) ma l’urgenza di organizzare la produzione in modo efficiente e di offrire i beni preferiti dai consumatori, per attirare i clienti delle imprese concorrenti e mantenere i propri. Con la Scuola di Chicago il mercato esaltato dalla teoria economica diventa “di questo mondo”: grande impresa anche in mercati piccoli non implica di per sé potere di mercato e i veri ostacoli alla concorrenza vengono dalla protezione del principe (monopolio istituzionale) o dalla collusione di tutte le imprese che vogliano replicare un monopolista. L’osservazione che l’ampiezza del mercato è condizione sufficiente ma non necessaria per evitare il potere di mercato è condivisa anche dalla “sintesi post-Chicago”, ma con maggiore scetticismo sulla concorrenza “di questo mondo”. La moderna Organizzazione Industriale mostra infatti che la concorrenza imperfetta può produrre esiti sociali in alcuni casi efficienti e, in altri, inefficienti e ciò sollecita il diritto antitrust a fare leva su un’analisi puntuale degli equilibri.

Anche la scuola Ordoliberale si confronta con la concorrenza “di questo mondo”, ma arrivando a conclusioni diverse per il disegno antitrust. Per gli ordoliberali la concorrenza è elemento intrinseco dell’interazione sociale, a causa della scarsità dei beni materiali; i diversi sistemi economici organizzano però le relazioni competitive tra i soggetti tramite assetti istituzionali differenti. In particolare, organizzare la concorrenza tramite il mercato significa lasciar guidare le relazioni economiche dall’esercizio dell’autonomia privata. Poiché nel mondo reale questa non può essere illimitata, è necessario definire sfere individuali di azione mutuamente compatibili. Il compito dell’antitrust è garantire a tutti i soggetti in modo uguale l’esercizio dell’autonomia privata attraverso un sistema di regole astratte. La scuola ordoliberale ha ampiamente contribuito all’elaborazione dei principi antitrust accolti nel Trattato dell’Unione europea, recependo e reinterpretando in questo senso le due norme dello Sherman Act.

La seconda difficoltà con cui si confronta la politica della concorrenza è connessa con il disegno di policy. Per ragioni già illustrate, favorire il mercato e la concorrenza richiede di combinare due finalità. Restringere i comportamenti delle imprese nei mercati imperfetti tramite le norme antitrust ne rappresenta solo una, convenzionalmente detta di tutela della concorrenza. Applicare il diritto antitrust non rende però più concorrenziali i mercati; impedisce solo alle imprese comportamenti che avrebbero esiti sociali indesiderati. Una seconda finalità, convenzionalmente detta di promozione della concorrenza, ha bisogno di interventi diretti di policy per allargare i confini del mercato (anche attraverso accordi che amplino le relazioni commerciali tra gli Stati), rimuovere gli ostacoli alla concorrenza potenziale, contrastare il monopolio istituzionale del depositario del potere politico che abbia riservato a sé, o trasmesso a suoi delegati, lo svolgimento di attività al contempo precluse a ogni altro soggetto; in una parola, eliminare o ridurre le condizioni dalle quali nasce il potere di mercato dei soggetti economici. Questa seconda finalità è però saldamente nelle mani dei Parlamenti e dei Governi e ha ben poco a che vedere con i principi antitrust e con i poteri delle Autorità che li applicano. In molti Paesi, come in Italia, è attribuito alle Autorità antitrust un potere di advocacy, cioè la capacità di sollecitare il potere legislativo ed esecutivo a prendere provvedimenti normativi che promuovano la concorrenza e il mercato, e a questa attività è stata dedicata negli ultimi anni un’attenzione crescente. Al di fuori del gioco di parole, advocacy testimonia però piuttosto l’assenza di un potere. E’ vero che le condizioni concorrenziali sono tanto più prossime al benchmark ideale quanto più il potere di mercato è assente. Tuttavia ciò che una istituzione antitrust può e deve fare non è eliminare il potere di mercato dei soggetti, ma neutralizzarlo applicando norme che ne definiscono illegale l’esercizio.

In conclusione, dare indebita pregnanza all’advocacy di un’Autorità antitrust ha conseguenze gravi, perché assimila l’Autorità a un soggetto politico, il cui obiettivo e il cui metro di successo è la produzione di “consenso”, con il rischio che “Parlamento e Governo non ascoltano l’Autorità” diventi facilmente “l’Autorità non sa farsi ascoltare da Parlamento e Governo”; mentre l’effettivo potere istituzionale dell’Autorità sta nell’amministrare il diritto antitrust attraverso una piena comprensione dei modi nei quali le imprese, in un mondo che si evolve costantemente, possono esercitare un potere di mercato in condizioni di concorrenza imperfetta.

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