La forza delle idee e quella degli interessi ai tempi del Crony Capitalism

Maurizio Franzini prendendo spunto dalla notizia che un ricercatore americano, sostenitore della tesi che il cambiamento climatico non esiste, ha ricevuto cospicui finanziamenti da imprese impegnate nella produzione di petrolio e carbone, propone alcune riflessioni sul rapporto tra idee e interessi. Ricordando la fiducia che Keynes e Weber avevano nella forza e nell’autonomia delle idee, Franzini si chiede se quella fiducia non rischi di essere meno giustificata nell’epoca del crony capitalism

Non è detto ma è molto probabile che se Max Weber e John Maynard Keynes fossero vivi si interesserebbero all’ingegner Wei-Hock Soon più noto come Willie Soon e lo farebbero perché, come ci informano le cronache internazionali, l’ingegnere è al centro di una vicenda in grado di gettare nuova luce (o, forse, nuove ombre) sul rapporto tra idee e interessi di cui si occuparono (e preoccuparono) quei due giganti del pensiero sociale.

Le parole, oramai celebri, scelte nel 1936 da Keynes per concludere la sua rivoluzionaria General Theory proprio a quel rapporto sono dedicate: “Sono sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto con la progressiva estensione delle idee …… presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male”.

Con questa affermazione Keynes prendeva le distanze dalla tesi marxiana dell’ineluttabile predominio degli interessi e si riallacciava, non so quanto consapevolmente, a Max Weber, che circa 20 anni prima, nell’Etica economica e le religioni mondiali aveva scritto: “Non sono le idee ma gli interessi, materiali e ideali, che determinano in modo diretto l’agire dell’uomo. Tuttavia, le ‘rappresentazioni del mondo’, create dalle ‘idee’, hanno molto spesso determinato, come fa uno scambio ferroviario, i binari lungo i quali l’azione viene spinta dalla dinamica degli interessi”.

Dunque, Keynes e Weber ricordano ai “produttori di idee” che il materiale sfornato dal loro intelletto è di decisiva importanza e Keynes aggiunge, a scanso di equivoci, che lo è non solo nel bene ma anche nel male. In più, egli certamente pensava che le idee contenute nel suo libro si sarebbero imposte agli interessi e avrebbero disegnato un nuovo futuro. Come sappiamo, non si è trattato di un peccato di presunzione.

L’influenza che le idee – distinte dagli interessi e forse in conflitto con essi – possono avere sui comportamenti, anche dei policy maker, ha attratto molta attenzione e continua a farlo; ne è prova, ad esempio, il tentativo di formalizzazione compiuto di recente da un economista autorevole come Dani Rodrik sul Journal of Economic Perspectives (Winter 2014). In effetti, l’autonomia delle idee è molto importante ed è una buona cosa (naturalmente se le idee sono anch’esse buone) perché, se non altro, concede al futuro una chance in più per non ripetere il passato e per non allinearsi alla dittatura degli interessi del presente. Forse essa è una condizione necessaria per il riformismo, almeno quello che una volta veniva considerato tale. Si potrebbe spiegare così l’importanza che alla frase di Keynes attribuì un riformista convinto come Federico Caffè e che risulta anche dal suo noto articolo del 1982 dedicato, appunto, alla solitudine del riformista.

Cosa c’entra, però, l’ingegner Soon con tutto questo? Anzitutto occorre presentarlo: Willie Soon è un ingegnere aerospaziale che lavora negli Stati Uniti presso l’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics di Cambridge; egli si è guadagnato da tempo una discreta notorietà sostenendo una tesi che, un po’ grossolanamente, può essere così riassunta: il surriscaldamento del pianeta e, quindi, il cambiamento climatico sono una “bufala” e, comunque, l’uomo, con i suoi stili di vita e le sue modalità di produzione, non c’entra nulla. La responsabilità, semmai ve ne fosse una, sarebbe del sole perché da qualche tempo avrebbe preso a lanciare nello spazio più energia di prima. La gran parte degli scienziati (il 97% secondo una stima del 2013) non condivide in alcun modo questa tesi e, al contrario, non ha dubbi sulla responsabilità dell’uomo; per questo motivo le affermazioni di Soon sono da tempo oggetto di critica e di polemiche.

Una loro chiara implicazione è che gli sforzi diretti a contrastare il cambiamento climatico sono male indirizzati, soprattutto non c’è alcun bisogno di sostituire le energie fossili con quelle rinnovabili. Una tesi di questo genere non può (come minimo) mancare di suscitare l’interesse di chi trae ingenti profitti dalle energie fossili e anche di chi non tollera le politiche ambientali dirette a fronteggiare il cambiamento climatico perché inammissibilmente limitative della libertà individuale (naturalmente quella della generazione presente).

Soon, da solo o con alcuni coautori, ha pubblicato questa sua tesi su varie riviste scientifiche e sembra che proprio un suo articolo del 2003 (scritto con Baliunas) abbia fornito all’allora presidente Bush il pretesto per censurare un rapporto dell’Environmental Protection Agency che conteneva messaggi piuttosto allarmanti sul cambiamento climatico. E’ anche probabile che Soon abbia contribuito a fare sì che ancora oggi, come risulta da un rapporto periodico della George Mason University, la metà degli americani ritenga che la causa della tendenza a crescere delle temperature medie non sia l’uomo.

La notizia di questi giorni riguarda il fatto che, in seguito a un’iniziativa presa da Greenpeace, è emerso senza ombra di dubbio che Soon riceveva lauti finanziamenti da imprese impegnate nella produzione di energia da fonti fossili e, soprattutto, che al momento di sottoporre alle riviste scientifiche i propri lavori non ha dichiarato questi finanziamenti, nascondendo così il suo conflitto di interessi. Tra queste riviste vi è il Journal of Atmospheric and Solar- Terrestrial Physics il cui editor ha minacciato di ritirare la pubblicazione dell’articolo di Soon ma, per quello che risulta, non ha spiegato perché una tesi apparentemente così poco solida sia stata pubblicata dalla sua rivista che pure gode di un Impact Factor di tutto rispetto (1,751). Le critiche di molti all’uso dell’IF delle riviste come criterio di valutazione della qualità delle pubblicazioni forse trovano qui un ulteriore motivo per rafforzarsi.

Tornando a Soon, dobbiamo dare conto del fatto che la sua vicenda ha generato la reazione di un buon numero di deputati democratici i quali vogliono ora garanzie che i vari scienziati ascoltati nelle audizioni che il Congresso americano ha dedicato al tema del cambiamento climatico non si trovassero nelle stesse condizioni di Soon. Il timore di quei deputati è di essere stati indotti, subdolamente e indirettamente, a prendere decisioni influenzate dagli interessi di chi teme che le idee facciano il proprio corso.

Soon, a onor del vero, si è difeso, dichiarando, già da tempo, che la sua ricerca non è stata in alcun modo influenzata dai cospicui finanziamenti ricevuti e che questi ultimi sono la conseguenza dell’apprezzamento per le sue ricerche indipendenti. Anche alcuni suoi coautori e estimatori hanno espresso simili convincimenti. Non possiamo nutrire certezze su come siano andate effettivamente le cose e, tutto sommato, non è poi così importante. Quel che conta è che questa vicenda fa considerare almeno probabile che gli interessi indirizzino le idee o, se si vuole essere più moderati, che certe idee trovino negli interessi che proteggono – normalmente i più robusti – solide gambe per camminare e eventualmente imporsi, come non sarebbe possibile se il contesto fosse più imparziale.

Del resto che la strategia di chi teme di essere danneggiato dalle idee possa essere – avendone i mezzi – quella di seminare il dubbio scientifico è stato sufficientemente provato (con riguardo, in particolare, al tabacco e proprio al cambiamento climatico) da Oreskes e Conway in un libro del 2010 (Merchants of Doubt). Naturalmente, tale strategia richiede che nel mondo delle idee vi siano intelletti pronti a seguire la strada che viene loro indicata o, volendo riprendere le parole con cui Caffè nel 1982 denunciava le pressioni (non materiali) alle quali era sottoposto il riformista, a fare “quello che si chiede a un pappagallo tenuto in gabbia, dal quale, con la guida di una bacchetta, si cerca di ottenere che scelga, con il suo becco, uno dei variopinti manifestini che si trovano in un apposito ripiano della gabbia”.

Questa disposizione degli intelletti rischia di creare nella sfera sacra della produzione di idee un ulteriore mercato nel quale, come si esprime Sandel nel suo Quello che i soldi non possono comprare (Feltrinelli 2013), le preferenze vengono soddisfatte senza che il mercato si interroghi sulle loro caratteristiche morali.

Essa rischia anche di indebolire la tesi di recente sostenuta da Shermer in un libro interessante nel cui titolo (The Moral Arc), riecheggia la bellissima frase che Martin Luther King pronunciò a Selma nel 1965, riprendendola a sua volta da un predicatore abolizionista del 19° secolo, Theodore Parker: “l’arco dell’universo morale è lungo ma tende verso la giustizia”. Secondo tale tesi la scienza e la ragione hanno condotto l’umanità a prendere decisioni che vanno, appunto, in direzione della verità, della giustizia e della libertà. Si potrebbe dire che Shermer, il quale considera un orizzonte temporale molto lungo, condivide sostanzialmente le tesi di Weber e di Keynes sull’autonomia delle idee. Tuttavia, la nicchia di mercato che rischia di aprirsi nel mondo dove le idee si producono potrebbe dare una diversa inclinazione a quell’arco e costringere a ripensare il nesso che Keynes e Weber videro tra idee e interessi.

Nell’epoca del crony capitalism questo rischio non è assente e la vicenda che ruota attorno a Soon illustra un’inquietante e per certi versi straordinaria possibilità, e cioè che i portatori di robusti interessi non si limitino a cercare di catturare i decisori politici ma si spingano oltre e, alimentando il dubbio scientifico o interferendo con la produzione di idee, costruiscano attorno alle decisioni che a loro interessano quel consenso di cui i politici non possono fare a meno.

Dunque, il rischio (almeno quello) c’è: nel crony capitalism le condizioni sembrano più favorevoli alla tesi marxiana dell’ineluttabile e inquietante predominio degli interessi. Ma i rischi esistono per essere contrastati.

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