La formazione delle politiche europee: il caso di Cop21

Corrado Fumagalli si occupa dei processi di decisione politica nell’Unione Europea e della diffusa percezione che essi limitno la partecipazione di movimenti dal basso. Dopo avere individuato le ragioni dalle quali dipende tale esclusione e le sue conseguenze, soprattutto in termini di impoverimento della qualità delle decisioni politiche, Fumagalli esamina gli effetti che questa esclusione ha avuto nella formazione delle posizioni dell’Europa nella Conferenza sul clima tenutasi a Parigi nel dicembre scorso.

Il processo decisionale adottato dalle istituzioni europee è stato criticato a più riprese. Brexit non ha fatto altro che ribadire la diffusa percezione di estraneità dei cittadini dalle modalità di funzionamento e dalle ragioni di un progetto politico sovranazionale. A ben vedere, questa batosta riflette una domanda di partecipazione mai appagata sul serio. Di qui la considerazione che l’Unione Europea sia percorsa da un difetto di democrazia: chi subisce i dispositivi dell’Unione ha ben poco ascendente su chi delibera (Vedi Bellamy and Kroger in The Journal of European Integration 2012, Simon Hix What’s wrong with the European Union and how to fix it 2008).

Il carattere distaccato della politica europea non è di per sé avverso alla domanda collettiva di riconoscimento politico. L’esistenza di istituzioni aliene dai gruppi di potere nazionali così come la moltiplicazione dei meccanismi di reciproco controllo tra i diversi livelli istituzionali potrebbe garantire la partecipazione di tutti gli attori coinvolti dall’implementazione di controverse politiche pubbliche. Se funzionante, un sistema di deleghe, deliberazione e veti così differenziato potrebbe favorire sia la circolazione di buone idee sia la possibilità di esprimere interessi altrimenti esclusi (Dehoussein Towards a New Executive Order in Europe? 2009).

Le difficoltà a fare breccia in un apparato decisionale estremamente intricato impediscono il compimento di questo sistema. Pratiche consolidate, abitudini e discorsi ostacolano il passaggio delle idee dalla periferia al centro (Helgadottir, The Journal of European Public Policy 2016).Una ramificata struttura internazionale e la consonanza di idee con rappresentanti ed esperti sembrano requisiti indispensabili per promuovere istanze locali a Bruxelles. Come se questo non bastasse, spesso si aggiungono ostacoli ben più informali: barriere linguistiche,un vocabolario specialistico, la scarsa conoscenza delle istituzioni europei e dei loro meccanismi, il disinteresse. Nonostante gli sforzi di inclusione e trasparenza, di fatto il processo decisionale seguito dagli organi europei si rivela accessibile a pochi:chi già si dà da fare dentro e fuori le istituzioni e chi ha assimilato condotte e linguaggi particolari (Roose, Die Europäisierung von Umweltorganisationen. Die Umweltbewegung auf dem Wegnach Brüssel. StudienzurSozialwissenschaft2003).

Attivisti, movimenti dal basso e movimenti civili senza una piattaforma internazionale sono spesso estromessi dal disegno delle politiche pubbliche a cui sono interessati, o che li riguardano. Tale esclusione minaccia la legittimità politica dell’Unione. Chi rimane fuori dal processo decisionale escogita vie alternative per far valere la propria posizione, oppure impegna idee e risorse sul fronte politico interno, in aperta opposizione alle posizioni di Bruxelles. Negli stati membri infatti si dimostra ben più semplice cooperare, combinare risorse, assimilare idee e negoziare compromessi.

Più di un’eco di questa esclusione si coglie nella retorica che racconta gli ultimi passaggi chiave dell’Unione. Quando chi rimane fuori dalla politica europea ritorna alla politica nazionale, si affievolisce l’effetto delle spinte verso un’Unione sempre più inclusiva. Allorché movimenti dal basso e politica popolare capitalizzano il proprio bagaglio di conoscenza ed esperienza a svantaggio delle politiche promosse dalla UE, è più che probabile che s’inasprisca il divario tra istituzioni europee e cittadini.  Siamo dunque di fronte a un vicolo cieco. Da un lato, prospettive eterodosse e prassi atipiche hanno scarsa risonanza, benché possano mobilitare un gran numero di persone. Dall’altro lato, articolare politiche pubbliche solo attraverso lo scambio di idee tra esperti limita non soltanto il processo di formulazione delle idee, ma anche l’evidenza a disposizione, con conseguenze negative per l’individuazione e il successo di soluzioni efficienti.

Sulla base di questo schema si può ripercorrere il processo di costruzione della posizione europea in occasione di COP 21, l’ultima conferenza sul clima tenutasi a Parigi nel dicembre 2015, e considerarlo espressione di un male comune. Come vedremo, nonostante un grande sforzo di inclusione e trasparenza, l’andamento della mediazione ha condotto all’esclusione di un ricco sapere periferico, poco affine alla maniera di Bruxelles. Di conseguenza, si è aggravato tanto il distacco tra politica nazionale e sovranazionale quanto la domanda di maggiore sovranità e rappresentanza.

La UE è un attore di primo piano nelle negoziazioni internazionali sul cambiamento climatico. Spesso Bruxelles ha sollecitato l’impegno verso obiettivi più ambiziosi e ha premuto per imporre rigorosi requisiti di trasparenza. Già prima della conferenza di Kyoto, il cambiamento climatico occupava una posizione di rilievo nell’agenda europea. Partiti politici, consulenti, esperti, uomini di scienza, gruppi di potere, organizzazioni e associazioni no-profit avevano iniziato a rafforzare la loro presenza su questo fronte. Di qui, l’impressione di un andamento discorsivo, plurale e più che mai aperto: le organizzazioni della società civile vigilavano sulle istituzioni, mentre imprenditori, consulenti e gruppi di pressione ispiravano le linee guida per la riduzione delle emissioni e il trasporto pubblico.

Negli ultimi anni la Commissione ha inoltre attivato consultazioni pubbliche affinché chiunque potesse contribuire alla formulazione di nuove politiche pubbliche. Dal canto suo, il Parlamento Europeo ha promosso eventi per riunire membri dei partiti politici, organizzazioni della società civile e funzionari.

Questo sforzo, anche se fruttuoso, ha penalizzato quei movimenti dal basso con una spiccata prospettiva nazionale (Muller and Walk in The Routledge Handbook on The Climate Change Movement 2013). Spesso la loro voce era rivolta a questioni locali o rientrava in una vasta e multiforme agenda politica. Ancora una volta, l’attivismo aveva una dimensione nazionale, se non regionale, e raggiungeva Bruxelles solo in seconda battuta.

Confrontato, per esempio, con la mobilitazione degli allevatori europei, l’attivismo ambientalista ripropone una caratteristica peculiare dei movimenti sociali europei: riescono a influenzare Bruxelles solo attraverso la mediazione del dibattito politico interno agli stati membri (Della Porta e Caiani Social Movements and Europeanizations 2009).

Alla fine, quando la Commissione fece circolare la prima posizione per COP 21 nel febbraio 2015, attivisti, movimenti civili, esperti e intellettuali, insieme alle istituzioni stesse di Bruxelles criticarono aspramente alcuni aspetti fondamentali del programma. In particolare, si richiedeva più trasparenza, più impegno per le migrazioni dettate dal cambiamento climatico, più meccanismi legali e politici per mobilitare risorse verso i paesi in via di sviluppo. Tuttavia queste proposte non furono accolte nella risoluzione finale, ratificata nel settembre 2015, pochi mesi prima della Conferenza.

Non passò molto tempo prima che si riattivassero i movimenti dal basso e la politica popolare. Questa volta da una posizione di vantaggio per mobilitare il sostegno politico. La risoluzione era cosa fatta, ma c’era tempo prima della Conferenza, sia per contrastare i termini della soluzione europea sia per attivare l’opinione pubblica. Mai forse, come in quel momento, questa strategia si è rivelata proficua. Le proteste raggiunsero il culmine quando migliaia di persone occuparono le strade di Parigi nei giorni della Conferenza. Al contempo Papa Francesco sollecitava un impegno autentico nei confronti del cambiamento climatico, e una coalizione guidata dalle isole Marshall insisteva affinché le trattative portassero a ‘obiettivi ancora più ambiziosi’.

Quella mobilitazione pose le basi per un cambiamento di rotta che, traendo vantaggio da un larghissimo consenso popolare, influenzò considerevolmente l’esito della Conferenza.

Questo risultato non rende tuttavia inutile una riflessione sui limiti del processo decisionale nell’Unione Europea, anche in un ambito, come quello del cambiamento climatico, considerato da molti plurale e partecipativo (Stevenson e Dryzek Democratizing Global Climate Governance 2014). Una volta ancora, infatti, si rileva un difetto di democrazia. L’esclusione di informazioni rilevanti dalle fasi di deliberazione e ratificazione porta a indirizzare un importante bagaglio conoscitivo direttamente verso il pubblico, in aperta antitesi con Bruxelles. Così facendo, la UE non trae vantaggio da un fondamentale e diverso insieme di idee ed esperienze. Questo significa che non vengono utilizzate tutte le risorse a disposizione, e che viene, in modo allarmante, erosa la sua legittimità. Se ripetuta sistematicamente, questa tendenza non può che radicalizzare la domanda di partecipazione, sovranità e rappresentanza.

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