La favola delle due bisacce e la questione del capitale umano

Francesco Ferrante applica la favola di Fedro sulle due bisacce al dibattito sulle cause dell’apparente bassa qualità del capitale umano nel nostro paese. Dopo avere spiegato perché tali cause riguardino sia la domanda sia l’offerta, Ferrante considera la tendenza a concentrarsi su quest’ultima soltanto una prova della perdurante validità della favola di Fedro: si guarda solo alla bisaccia che si ha davanti, quella che contiene i vizi degli altri.

Peras imposuit Iuppiter nobis duas: propriis repletam vitiis post tergum dedit, alienis ante pectus suspendit gravem. Hac re videre nostra mala non possumus; alii simul delinquunt, censores sumus” (“Giove ci ha imposto due bisacce: dietro la schiena c’è quella piena dei nostri difetti, appesa al petto c’è la pesante bisaccia dei vizi degli altri. Per questo non possiamo vedere i nostri difetti, ma facciamo i censori non appena gli altri sbagliano”).

Sono passati 21 secoli da quanto Fedro ha consegnato all’umanità la favola delle due bisacce, eppure la sua attualità non è scemata. Prendiamo il dibattito relativo alla qualità del capitale umano e al suo (mancato) contributo alla crescita del nostro paese. Quasi dieci anni fa Faini e Sapir hanno sostenuto che l’intrappolamento del paese in un sentiero di bassa crescita fosse dovuto a problemi riguardanti sia la domanda sia l’offerta di capitale umano, e recenti indagini confermano questa analisi.

Per dare soluzione al problema occorrerebbero interventi ad ampio spettro, secondo un approccio del tipo Big Push, in grado di incidere su entrambe le bisacce e di sfruttare così i benefici collegati alle complementarietà strategiche. Interventi limitati rischiano non soltanto di essere inefficaci ma anche di gravare su alcuni gruppi sociali, con la conseguenza che la propensione al corporativismo e alla difesa del particulare potrebbe costituire un insormontabile ostacolo politico alla loro attuazione. Eppure proprio questo sta accadendo da noi, sulla spinta della convinzione che i difetti stiano solo da un lato.
Il dibattito odierno è schiacciato, infatti, sui fattori di offerta, in base alla premessa che le diverse istituzioni formative producono capitale umano di scarsa qualità e non forniscono competenze di alto profilo ad un sistema produttivo pronto ad assorbirle e a valorizzarle.

Quest’atteggiamento rischia di illuderci che sarebbe sufficiente migliorare la qualità dell’offerta, che pur va migliorata, per riavviare il motore della crescita. Sfortunatamente, le cose non sono così semplici, in quanto un ampio segmento del nostro tessuto produttivo condivide alcune delle patologie che si riscontrano negli altri ambiti della vita sociale ed economica e che concorrono a spiegare l’intrappolamento: familismo, scarsa capacità di valorizzare il merito e di investire nel futuro. Tutto ciò spesso scaturisce proprio da inadeguati livelli di scolarizzazione della compagine imprenditoriale. Questo quadro non migliora se si guarda al livello di istruzione dei manager: secondi i dati Eurostat, nel 2012 il 27,7% di loro dichiarava di avere al più la scuola dell’obbligo, contro il 5,2% della Germania e l’11,1% della media europea a 27.

Questa caratterizzazione, unitamente ad altri tratti tipici della morfologia del tessuto imprenditoriale italiano, ha importanti ripercussioni sia sulla domanda di capitale umano espressa dal sistema produttivo sia sulla sua capacità di valorizzarlo.
Schivardi e Torrini (Questioni di Economia e Finanza, Banca d’Italia 2011) richiamano l’attenzione su un fenomeno che illustra in che modo i fattori di domanda possano svolgere un ruolo centrale: un imprenditore laureato, a parità di dimensione e settore di attività dell’impresa, assume il triplo di laureati rispetto a un imprenditore non laureato.

Altri studi mostrano in maniera inequivocabile che alla piccola dimensione e alla gestione non manageriale delle imprese, si associano, tipicamente, assetti organizzativi basati su uno scarso ricorso alla delega di funzioni e all’utilizzo di meccanismi retributivi di tipo incentivante, una minore capacità di valorizzare il capitale umano, minori performance innovative e un più basso grado di internazionalizzazione delle imprese. Secondo stime recenti, la quota di imprese a gestione familiare è in Italia del 66,3% contro il 35,5% della Spagna e il 28% della Germania dove, peraltro, la quota di imprese a controllo familiare è più alta che da noi (Bugamelli, Cannari, Lotti, e Magri, cit., 2012).

Le barriere che si frappongono ad una gestione efficiente delle imprese e alla valorizzazione del capitale hanno dunque origini prevalentemente culturali, del tutto speculari a quelle che stanno alla base delle difficoltà dei lavoratori ad accettare le conseguenze della globalizzazione, cioè minori livelli di protezioni.
La rilevanza di queste conclusioni va oltre il tema delle competenze, del reclutamento e della valorizzazione dei giovani, in particolare di quelli laureati. I risultati dell’indagine PIAAC dell’OECD (OECD, 2013) evidenziano come l’insoddisfacente dotazione di competenze di base della popolazione adulta italiana derivi anche dal fatto che queste competenze non vengono adeguatamente coltivate nel corso della vita lavorativa, anche attraverso la formazione.
Una conferma che la scarsa capacità del sistema di valorizzare il capitale umano costituisce una patologia strutturale e non congiunturale del paese è offerto dall’andamento della quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione. Pur partendo da valori inferiori alla media europea a 27 paesi, tra il 2004 e il 2012, essa è scesa di quasi due punti percentuali, in controtendenza rispetto al complesso dei paesi dell’Unione Europea, e nel 2012 il distacco dalla media era di ben sette punti percentuali. Questo comportamento è da mettere in relazione con la dinamica sfavorevole degli investimenti per addetto, che si sono ridotti, di nuovo in controtendenza rispetto alle maggiori economie europee, anch’esse colpite dalla crisi.

D’altro canto, l’idea secondo la quale in Italia l’offerta di capitale umano è povera e, in particolare, che mancherebbero laureati di qualità, è confutata dalla considerazione che siamo uno dei pochi paesi avanzati esportatore netto di laureati. Secondo la teoria economica, questo dovrebbe essere un chiaro segnale dell’opposto: ci si specializza dove si è più bravi…. Gli altri paesi avanzati, pur partendo da quote di laureati e di occupati con laurea decisamente superiori alle nostre, li importano dall’estero. I dati mostrano inoltre che l’Italia assorbe immigrati meno qualificati rispetto agli altri paesi coi quali si confronta sui mercati internazionali. E non si tratta certamente solo di una scelta degli immigrati.

C’è dunque da chiedersi: come mai le imprese degli altri paesi apprezzano i nostri laureati motivandone il trasferimento all’estero? Perché le nostre imprese non assumono in altri paesi i laureati di qualità che non trovano in Italia, così come fanno le concorrenti tedesche, olandesi o francesi? Perché preferiscono assumere immigrati poco qualificati?

Come ogni favola che si rispetti anche questa ha una sua morale: res sic stantibus, il miglioramento della qualità dell’offerta di capitale umano avrebbe effetti marginali sull’economia del paese se non si mette mano a serie politiche industriali e della ricerca volte a riqualificare il sistema produttivo. Quando si avanzano queste argomentazioni spesso si obietta che la struttura imprenditoriale è endogena. Bene, se è per questo anche le scelte di istruzione e l’offerta di capitale umano sono endogeni. E allora? Se si continua a guardare solo alla bisaccia che si ha sul petto il rischio, nel migliore dei casi, è di ingrossare con altri bravi laureati il già rigoglioso fenomeno del brain drain.

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