La disciplina del licenziamento e la tutela giuridica del lavoratore

Francesca Fontanarosa ricostruisce l’evoluzione normativa italiana della disciplina dei licenziamenti individuali, concentrandosi in particolare sulle modifiche dell’art.18 St. Lav. apportate dalla Legge n. 92/2012. Quindi esamina i principali provvedimenti adottati di recente con il Jobs Act, mettendo in risalto le implicazioni di un’ulteriore intervento sulla disciplina sanzionatoria dei licenziamenti, per l'impianto delle garanzie dei lavoratori.

L’atto del licenziamento con cui il datore di lavoro interrompe il rapporto d’impiego con un dipendente, può rappresentare un momento di “passaggio” decisivo nella vita lavorativa, e non solo, di un individuo. Per tale motivo, nel complesso degli strumenti giuridici di protezione sociale che lo Stato predispone nel caso in cui occorra un evento di disoccupazione (o inoccupazione), acquistano un’importanza cruciale le norme che tutelano il lavoratore nei confronti di un licenziamento illegittimo.

Le leggi che per prime hanno disciplinato la materia del licenziamento individuale sono la l. n. 604/1966 e la l. n. 300/1970. La prima ha fissato il principio secondo cui il licenziamento non sorretto da una giusta causa (ai sensi dell’art. 2119 c.c.) o da un giustificato motivo oggettivo o soggettivo (art. 3, l. n. 604/1966), è considerato illegittimo. La seconda, ha permesso che tale principio fosse reso effettivo sul piano sostanziale, prevedendo che il licenziamento sorretto da motivazioni illecite, desse luogo non solo al pagamento di un indennizzo economico, ma alla reintegrazione nel posto di lavoro, accompagnata dal versamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali non percepiti (art. 18, l. n. 300/1970). La c.d. “tutela reale” del posto di lavoro, se pure applicata limitatamente alle imprese con determinati requisiti dimensionali, permette dunque di superare il principio del risarcimento del danno (c.d. “tutela obbligatoria”) previsto dalla legge del ‘66, riconoscendo il valore costituzionale del lavoro, non solo come fonte di reddito, ma come fattore di socializzazione e di emancipazione della persona.

Tali leggi, emanate in un periodo storico contraddistinto da accese lotte politiche e sindacali, si pongono l’obiettivo di limitare abusi e ritorsioni perpetuate dai datori di lavoro nei confronti dei lavoratori (spesso culminanti nel licenziamento per la loro appartenenza politica o sindacale) e di realizzare un modello garantista di tutela del lavoro subordinato dipendente, che in quegli anni diventa progressivamente la forma di impiego maggiormente diffusa nella fabbrica di produzione di massa. Si tratta, tuttavia, di un modello che per la sua rigidità, mal si presta ad interpretare le richieste di flessibilità produttiva che le imprese avanzano, ritenendole necessarie per uscire dalla stagnazione economica degli anni ’70 e ’80. Così, di fronte alla profonda trasformazione nel sistema economico italiano ed europeo, i governi di quegli anni iniziano a promuovere una riforma del mercato del lavoro volta ad attuare una maggiore flessibilità nelle modalità di assunzione e di estinzione del rapporto di lavoro.

Anche sulla base delle indicazioni comunitarie in materia, negli anni ’90 si registrano, pertanto, i primi interventi per l’introduzione dei contratti di lavoro flessibili, e per la ridefinizione del sistema di garanzia costruito attorno al contratto di lavoro a tempo indeterminato. Tuttavia, se i provvedimenti sulla flessibilità in entrata trovano subito una larga diffusione, i tentativi di intervento sulla flessibilità in uscita restano quasi sempre lettera morta, sia per la mancata riforma del sistema di assicurazione contro il rischio di disoccupazione, che resta ancorato al modello contributivo-assicurativo, sia per l’opposizione dei sindacati, altamente rappresentativi di quell’offerta di lavoro impiegata con contratti di lavoro standard. L’unico intervento in materia è costituito dalla l. n. 108/1990, che estende l’ambito di applicazione della “tutela reale” a tutti i casi di licenziamento accertati come discriminatori o ritorsivi (art. 2, co. 3), indipendentemente dal requisito dimensionale dell’impresa.

La situazione cambia con la recessione seguita alla crisi economica e finanziaria del 2008. Le raccomandazioni europee, per tutto il decennio precedente, avevano continuato a promuovere politiche volte a coniugare una maggiore flessibilità nella regolazione dei contratti di lavoro con un sistema di sicurezza sociale universale, ma nella congiuntura economica negativa il mercato del lavoro italiano emerge in tutta la sua vulnerabilità. L’alto tasso di disoccupazione ed inoccupazione dovuto alle scarse occasioni di impiego, mette in evidenza la grave segmentazione sperimentata tra lavoratori “tipici” e “atipici” nell’accesso agli strumenti di tutela nel rapporto e nel mercato del lavoro. In un contesto sociale particolarmente critico, il legislatore decide quindi di intervenire riformando il mercato del lavoro anche relativamente alla disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, sulla base dell’assunto – invero mai dimostrato empiricamente – secondo cui rendere l’uscita dal mercato del lavoro normativamente ed economicamente conveniente, incentiverebbe i datori di lavoro ad assumere un numero maggiore di lavoratori.

Sotto questa prospettiva, la l. n. 92/2012 modifica l’art. 18 St. Lav., nella parte in cui disciplina il sistema sanzionatorio attivabile a seguito di un licenziamento illegittimo, introducendo due diversi regimi di tutela a seconda delle motivazioni addotte al licenziamento dal datore di lavoro. In questo modo, i regimi della tutela reale e obbligatoria si incrociano con le causali poste alla base del licenziamento, dando luogo a “sanzioni” che variano in base alla “gravità” del vizio del licenziamento, effettivamente accertato. Nel dettaglio, per quanto concerne il licenziamento discriminatorio, la legge prevede la reintegrazione del lavoratore, cui spetta la possibilità di richiedere la corresponsione di un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità di retribuzione. Così ancora, nel caso di un licenziamento disciplinare, il giudice può (non deve) ordinare la reintegrazione qualora accerti l’insussistenza del fatto contestato o che il “fatto rientra tra le condotte punibili con sanzioni non incidenti sulla continuità del rapporto di lavoro”; altresì, per il licenziamento economico, la reintegrazione può essere prevista soltanto se si accerti la “manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento”. In tutte le “altre ipotesi”, il giudice, pur riconoscendo l’illegittimità del licenziamento, non è tenuto ad applicare la “tutela reale”, ma ad imporre al datore di lavoro il pagamento di un’indennità risarcitoria, il cui importo varia da 12 a 24 mensilità, in relazione all’anzianità del lavoratore, al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, ecc. (art. 1, co. 42, lett. b) l. n. 92/2012).

In questi due anni di vigenza, la riforma così disegnata ha visto applicazioni giurisprudenziali controverse: i concetti di “manifesta insussistenza” e di “altre ipotesi” richiamati nel testo della legge hanno, infatti, dato luogo ad interpretazioni discordi, alternativamente pendenti per la tutela obbligatoria o per la tutela reale (vd. tra gli altri Trib. Milano ord. 20.11.2012 vs Trib. Roma ord. 18.4.2013). Del resto l’intervento sulla flessibilità in uscita, ivi contenuto, non sembra aver prodotto i risultati sperati in termini di aumento dell’occupazione.

Un nuovo progetto di riforma nel mercato del lavoro sembra quindi tornare al centro dell’agenda del governo in carica, che dopo essere intervenuto dal lato della flessibilità in entrata, di fatto stabilendo l’a-causalità nell’utilizzo del contratto a termine, con il d.l. n. 34/2014 (conv. nella l. n. 78/2014), pare ora orientato ad intervenire sulla flessibilità in uscita (d.d.l. A.S. 1428). In realtà, il criterio richiamato nella legge delega, nel prevedere un intervento di “abrogazione di norme, connesse con la costituzione e gestione del rapporto di lavoro”, sembra inserire la modifica dell’art. 18 St. Lav. in un più ampio disegno riformatore, volto ad introdurre il c.d. “contratto a tutele crescenti”. Tale contratto rappresenterebbe per i neoassunti la sola forma di impiego – se si esclude il contratto a termine – disponibile: un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, che potrebbe prevedere una fase di inserimento in cui il dipendente illegittimamente licenziato ha diritto alla sola tutela obbligatoria; tutela che “crescerebbe” con l’anzianità di servizio, fino a raggiungere – dopo un certo numero di anni – il diritto alla reintegrazione (ex art. 18 St. Lav., come mod. dalla l. n. 92/2012).

Potrebbe anche verificarsi, però, che l’adozione del contratto a tutele crescenti “sostituisca” tutti contratti a tempo indeterminato. In questo senso, la modifica della disciplina dei licenziamenti illegittimi riguarderebbe tutti i lavoratori, non solo i neoassunti, e determinerebbe un’ulteriore limitazione dell’applicazione della tutela reale, che resterebbe operante solo nei casi di licenziamento per motivi discriminatori e, in alcuni casi, disciplinari. Di conseguenza, si escluderebbero dalla tutela reale i casi di licenziamento per motivo economico-produttivo, che rappresenta ad oggi l’ipotesi più frequente. Tuttavia, rendere il licenziamento economico sempre possibile contro il pagamento di un’indennità risarcitoria, significherebbe eliminare dal sistema delle garanzie del rapporto di lavoro, l’elemento deterrente costituito dalla reintegrazione, unico a poter concretamente influire sulla scelta datoriale di “licenziare”, rendendola possibile solo nel caso in cui vi sia un’effettiva riduzione dell’attività produttiva. Se così non fosse, infatti, è ragionevole immaginare un aumento del ricorso al licenziamento, con conseguenze economico-sociali che impongono un profondo intervento di riforma del sistema di protezione e di assistenza sociale.

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