La crisi finanziaria globale, l’occupazione nei paesi in via di sviluppo e le disuguaglianze globali

Elisabetta Magnani si occupa degli effetti che la crisi finanziaria globale ha prodotto sull’occupazione e sulle condizioni del lavoro nei paesi in via di sviluppo e, anche per questa via, sulle disuguaglianze globali. Dopo aver sottolineato che la conoscenza di questi effetti è ancora largamente carente, Magnani individua alcuni canali attraverso i quali l’instabilità finanziaria può aggravare la vulnerabilità dei lavoratori più deboli dei paesi emergenti e ne sottolinea l’importanza per il disegno di politiche che possano contrastare questi effetti

Le crisi finanziarie  incidono sulla disuguaglianza a livello globale anche attraverso i loro effetti sul lavoro e, più specificamente, sul lavoro nei paesi in via di sviluppo e sulla sua composizione. Sfortunatamente, come hanno osservato anche Fukuda-Parr, Heintz e Seguino (in Feminist economics, 2013), troppo poco si conosce dei modi nei quali  le  crisi finanziarie  incidono sull’occupazione e su diverse forme di disuguaglianza (in particolare dei redditi, della ricchezza e di accesso a particolare mercati) eventualmente esasperando condizioni pre-esistenti di fragilità.  Si  comincia, però, a disporre di alcune utili evidenze empiriche. Ad esempio, l’International Labour Office (ILO/World Bank “Joint Synthesis Report, ILO/World Bank Inventory of Policy Responses to the Financial and Economic Crisis”, 2012), ha documentato che la crisi finanziaria globale (GFC) ha causato perdite drammatiche di occupazione nelle imprese asiatiche e che tali perdite hanno riguardato principalmente  le donne, i giovani e i lavoratori meno qualificati.

Più in generale, l’importanza del sistema  finanziario per le economie di paesi in via di sviluppo è spesso oggetto di dispute ma di fatto essa non è mai stata adeguatamente esaminata nei suoi molteplici aspetti. I mercati finanziari consentono la  diversificazione del rischio ma, come mostrano le crisi, essi sono responsabili anche della creazione del rischio e del suo amplificarsi.  D’altro canto, come evidenziato da Sziraczki ed altri  (2009) in un mondo in cui le esportazioni costituiscono una componente fondamentale della domanda finale per molti paesi a basso reddito (e questo non vale soltanto per l’ Asia), il crollo della domanda proveniente da paesi ricchi ha effetti devastanti sulla occupazione dei paesi in via di sviluppo. Tuttavia, le crisi finanziarie globali mettono in evidenza che c’è di più. Come ha mostrato la  GFC gli shock finanziari si trasmettono all’economia “reale” attraverso una varietà di meccanismi; in particolare, essi riducono la liquidità del sistema bancario con la conseguenza che il rischio si fa più acuto e i crediti concessi si contraggono. Non tutte le imprese, però, soffrono allo stesso modo di questa contrazione, infatti la struttura finanziaria e le possibilità di ottenere finanziamenti da parte  delle imprese dipendono dalla loro età, dalla loro dimensione, e anche dal genere dell’imprenditore (cfr. Oya e Hommes, Access to Credit among Micro, Small and Medium Enterprises).

In Asia, circa il 90% delle imprese sono piccole o medie. Il rapporto della Banca Mondiale Doing Business aiuta a comprendere cosa significa lavorare in una piccola o media impresa (PMI) in un paese in via di sviluppo. Le PMI creano molta occupazione, particolarmente per i lavoratori meno qualificati, che  in questi paesi sono in stragrande maggioranza donne e giovani. Inoltre, il fatto che la struttura manageriale di queste imprese sia più piatta (meno gerarchica)  di quella delle grandi imprese fa sì che i dipendenti svolgano spesso lavori multi-tasking  e questa pratica rappresenta  una forma di assicurazione tutta privata contro la disoccupazione. Ancora, la  flessibilità connessa alle loro dimensioni permette alle PMI di adattarsi più velocemente alle variabili condizioni del mercato e anche  di collaborare efficacemente con le imprese più grandi, per esempio quelle che si raggruppano nei keiretsu giapponesi. A questi fondati argomenti fanno spesso riferimento la  Banca Mondiale e i policy-makers per  sostenere che la politica dell’occupazione  deve basarsi principalmente  su un sistema di PMI. Tuttavia, queste imprese sono anche più vulnerabili rispetto alla volatilità dei mercati finanziari e lo sono in modo particolare quando fanno parte di sistemi globali di produzione.

In un mondo in cui la produzione avviene tramite catene e networks di imprese a livello globale, i lavoratori dei paesi ricchi sono legati a quelli dei paesi poveri  attraverso i processi logistici e di assemblaggi.  Siccome la catena di produzione è “lunga” e i vari nodi si articolano in networks di imprese, dove la competizione è sia  orizzontale (tra imprese allo stesso stadio di produzione) sia verticale (tra imprese che operano a diversi livelli della catena di produzione), è molto importante il modo in cui il rischio si ripartisce non soltanto tra imprese collocate  in punti diversi della catena ma anche all’interno delle imprese. In questo contesto non sorprende che le crisi finanziarie del centro si scarichino soprattutto sui lavoratori della “periferia” ed in particolare su quelli più deboli, occupati nelle  piccole e micro imprese che predominano negli anelli più bassi delle catene di produzione globali. In queste imprese il prezzo più alto  lo pagano spesso le donne, anche giovani,  impegnate  in lavori precari, saltuari, temporanei e perciò ad alto rischio. Il fatto che  il lavoro femminile sia concentrato in settori a basso contenuto tecnologico contribuisce a fare sì che i costi delle crisi finanziarie non siano equamente distribuiti tra i generi. Un ulteriore fattore di aggravamento è rappresentato dal passaggio di molte  PMI, durante la crisi,  dal settore formale dell’economia a quello informale: questo passaggio ha conseguenze prevedibili, ma spesso non-osservabili, e quindi non-misurabili, sulla sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici, sui loro salari e, più in generale,  sulle loro condizioni di lavoro.

Quindi in un mondo di generalizzate interdipendenze i collassi finanziari travolgono tutti ma, come ha  sottolineato anche  Stiglitz (in  International Labour Review,  2009)  il prezzo più alto spesso lo pagano i lavoratori e le lavoratrici dei paesi più poveri o emergenti dove mancano sistemi di sicurezza sociale e sono deboli o assenti i sindacati.

Uno dei problemi principali è come fare in modo che le PMI, così importanti per lo sviluppo economico, non siano pericolosamente esposte agli effetti devastanti delle crisi finanziarie. Per dare soluzione a questo problema, individuando le più opportune misure di policy, occorre una più completa conoscenza dei legami tra finanza e lavoro a livello di impresa nei in paesi in via di sviluppo. Solo in questo modo si potranno fronteggiare due delle sfide più grandi del nostro tempo: l’instabilità finanziaria globale e la necessità di creare milioni di posti di lavoro, particolarmente in paesi dove il capitale è scarso, ma lavoratori abbondano.

Sui rapporti tra finanza e lavoro, nel senso appena indicato, si possono avanzare alcune ipotesi e da esse possono trarsi indicazioni sugli strumenti  più appropriati per limitare i danni delle crisi finanziarie sul lavoro. Eccone tre.

Prima ipotesi: le strette creditizie abbassano i salari in PMI soggette a vincoli creditizi. Secondo questa  ipotesi, che è stata presa in considerazione in  alcuni studi teorici (C. Michelacci e V.  Quadrini in Journal of the European Economic Association, 2005), le PMI di fatto “prendono a prestito” dai loro dipendenti. Questo non è, in generale, sorprendente, soprattutto se si adotta un’ottica marxista.

Seconda ipotesi:  la dimensione delle imprese (e altre loro caratteristiche) incidono sulla divisione del rischio al loro interno.  Ellul, Pagano e Schivardi (in Working Paper, Indiana University, 2013) prendendo in considerazione  le PMI di 41 paesi cercano di stabilire come si suddivide il rischio, considerando il rischio specifico e non sistematico. Dai loro risultati emerge, in particolare,  che  nelle  PMI a gestione familiare il rischio di disoccupazione è minore ma sono più probabili i tagli salariali. In altri termini, la sicurezza del posto ha un “prezzo” che si aggira sul 5 percento del salario. Questa “privatizzazione” implicita della assicurazione del posto di lavoro dipende anche dalle caratteristiche delle istituzioni prevalenti nel mercato del lavoro: un minor sostegno pubblico alla disoccupazione aumenta il “prezzo” che i lavoratori sono disposti a pagare per la sicurezza del loro posto di lavoro. L’accenno alla sicurezza dell’impiego ci rimanda alla terza ipotesi.

Terza ipotesi: i vincoli finanziari hanno effetti sulla tipologia contrattuale prevalente nelle imprese e in particolare sulla diffusione di contratti con caratteristiche di precarietà. L’ipotesi è  che i contratti temporanei e atipici  siano più utilizzati soprattutto dalle imprese che , a parità di dimensione e di altre caratteristiche, hanno maggiori difficoltà di accesso  a finanziamenti esterni. Caggese e Cunat (in Economic Journal, 2008) hanno di recente sottoposto a verifica questa ipotesi, effettuando simulazioni con  parametri calibrati sui  paesi di area OCSE, e i loro risultati confermano l’ipotesi. I due autori osservano anche che  queste imprese si trovano di fronte a una sorta di dilemma. Da un lato, per avere un più facile accesso ai mercati creditizi  esse  dovrebbero accrescere la propria produttività  e, di fatto, ciò richiederebbe un investimento in lavoro permanente. Dall’altro,  esse hanno un’alta domanda di flessibilità che può essere  meglio soddisfatta  dai contratti temporanei.

Queste tre ipotesi e la conferma che esse sembrano ricevere ci aiutano a individuare meglio i nessi tra finanza e lavoro nei  paesi emergenti  e a individuare le politiche che possono dare proteggere  milioni di lavoratori e lavoratrici dai rischi dell’instabilità finanziaria. Ma molto resta ancora da fare. Il prossimo luglio Addis Ababa ospiterà il terzo convegno internazionale sulla “Finanza per lo Sviluppo” che è molto atteso.

Il voluminoso European Report on Development  illustra i risultati di uno studio finanziato dalla Unione Europea e da quattro stati membri (Finlandia, Francia, Germania e Lussemburgo) e anticipa alcuni temi che animeranno il convegno del prossimo luglio: (i) come mobilitare una pluralità di fonti finanziarie, internazionali e domestiche, private e pubbliche; (ii) come gestire al meglio le risorse finanziarie attivate a livello nazionale e sopranazionale per accelerare il raggiungimento di obiettivi coerenti con lo sviluppo sostenibile e (iii) ad alto valore sociale, soprattutto nell’ambito dell’istruzione e della salute in modo particolare; (iv) come creare lavoro per tutte le donne, anche giovani, che sopportano in modo esagerato il costo delle crisi finanziarie.

L’auspicio è che  il prossimo luglio ad Addis Abeba si facciano concreti passi avanti per dare soluzione allo squilibrio tra finanza e lavoro rimuovendo così una della cause principali delle  alte  disuguaglianze globali.

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