La crescita, il benessere e la bussola ingannevole

Antonia Carparelli, dopo avere ricordato perché si è deciso di includere le attività illegali nel calcolo del Pil, illustra alcuni paradossi ai quali questa decisione potrebbe condurre, soprattutto se il Pil continuasse a essere considerato un indicatore di benessere sociale. Carparelli suggerisce di affiancare rapidamente altri indicatori al Pil e di fare comunque un uso oculato di quest’ultimo, calcolandolo prima e dopo il computo delle attività illegali e prendendo il dato senza attività illegali come parametro di riferimento per le politiche.

Il recente annuncio, da parte dell’ISTAT, della revisione dei conti economici nazionali in vista del passaggio al nuovo sistema europeo di conti nazionali (SEC 2010) ha provocato un vivace dibattito.
Di questa complessa operazione (descritta nella scheda di Morales Sloop) l’aspetto che ha suscitato più polemiche è l’inclusione nel calcolo del PIL delle stime dei flussi derivanti da alcune attività illegali, ovvero il traffico di stupefacenti, la prostituzione, e il contrabbando di alcol e sigarette. Queste polemiche non sorprendono. Come nota l’Eurostat, “le questioni relative all’economia illegale o all’economia sommersa regolarmente ricevono un’attenzione (…) sproporzionata rispetto alla loro reale importanza per il sistema dei conti”.
Se, da un lato, è ingeneroso focalizzarsi su quest’unico aspetto, sorvolando sui miglioramenti derivanti dal passaggio al nuovo sistema contabile, dall’altro, sarebbe un errore liquidare con un’alzata di spalle gli interrogativi e talora l’indignazione degli osservatori “non specialisti” e dei comuni cittadini. Sarebbe un errore anche limitarsi a rispondere che “lo richiedono le norme europee”, alimentando, così, il risentimento antieuropeo e avvalorando l’immagine di tecnocrazie distanti dai valori e dalla sensibilità della maggioranza dei cittadini.
Il disagio che emerge da queste reazioni riflette un problema reale: la fondamentale e crescente inadeguatezza del PIL come indicatore per valutare la crescita, il progresso e il benessere economico e sociale, e come parametro-guida per le politiche pubbliche. Questo problema è dibattuto da molto tempo ed è stato al centro dei lavori della “Commissione per la misura della performance economica e del progresso sociale”, istituita nel 2008 dal presidente francese Sarkozy, più nota come “Commissione Stiglitz”, dal nome del suo presidente. Della Commissione facevano parte cinque Nobel dell’economia (Arrow, Kahneman, Heckman, Sen e lo stesso Stiglitz), oltre a studiosi ed esperti di altissimo livello e di varie discipline ed il suo compito era identificare i limiti del PIL come indicatore di performance economica e di progresso sociale – limiti che l’incipiente crisi aveva reso più evidenti – e di proporre indicatori alternativi.
Nel sommario che precede il rapporto finale  [1. Alla Commissione partecipava anche Enrico Giovannini, all’epoca “chief statistician” dell’OCSE, che ringrazio per gli utili commenti a una prima versione di questa nota] della Commissione si legge: “Una lezione importante che emerge dalla crisi è che coloro che cercano di guidare l’economia e le nostre società sono come piloti che cercano di seguire una direzione senza disporre di una bussola affidabile. Le decisioni che essi prendono (e quelle che prendiamo noi in quanto singoli cittadini) dipendono da ciò che misuriamo, dalla qualità delle nostre misure e da quanto queste misure sono comprensibili. Se la metrica sulla quale si basano le nostre azioni è sbagliata o è mal compresa, avanziamo quasi alla cieca. E per molti aspetti, abbiamo bisogno di una metrica migliore” [2. Report by the Stiglitz Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, Executive Summary, p.3; la traduzione dal testo originale in inglese è di chi scrive]. Veniva, di conseguenza, raccomandato di misurare più accuratamente la qualità, di spostare l’enfasi dalla produzione al benessere, di tenere in conto la multidimensionalità del benessere sociale e la sua sostenibilità.
Il lavoro della Commissione non è rimasto senza seguito, come dimostra l’attività di varie istituzioni internazionali e nazionali [3. Per un quadro d’insieme sulle iniziative intraprese si veda www.wikiprogress.org]. Ad esempio, la Commissione europea e Eurostat hanno proseguito l’iniziativa “Beyond GDP”, nata nel 2007. L’OCSE nel 2011 ha lanciato “Better Life”, da cui è scaturito un rapporto annuale (“How is life?”) e un indicatore (“Better Life Index”). Lo scorso anno l’ISTAT ha pubblicato con il CNEL il primo rapporto sul “Benessere equo e sostenibile in Italia”.
E tuttavia questo impegno non ha ancora messo disposizione dei responsabili politici un “bussola” affidabile e capace di mettere in discussione “l’egemonìa del PIL”. Il PIL continua a informare, in modo pervasivo, il comportamento degli agenti economici e i processi decisionali. La crescita del PIL è il dato più atteso. Sulla base del PIL decidiamo come va la nostra economia, facciamo confronti con gli altri paesi, misuriamo lo stato di salute delle finanze pubbliche e dei conti con l’estero. I contributi che i paesi europei versano al bilancio dell’Unione europea sono commisurati al PIL. E l’elenco potrebbe continuare.
Le ragioni delle recenti innovazioni si comprendono meglio ricordando che il PIL può essere stimato con tre metodi: il metodo della produzione o del valore aggiunto, che misura l’incremento di valore della produzione in ogni fase del processo produttivo; il metodo del reddito, che somma le remunerazioni dei fattori produttivi (salari, profitti, rendite e interessi); il metodo della spesa, che misura il PIL dal lato degli impieghi, addizionando consumi e investimenti. Le tre misurazioni, in un sistema di conti perfetto, dovrebbero coincidere; eventuali discrepanze segnalano errori o realtà che sfuggono alle rilevazioni statistico-contabili. In questo caso occorrono verifiche e stime delle “realtà sommerse” o “non osservate” che migliorino la qualità dei dati del PIL e rendano l’aggregato più rappresentativo di tutte le transazioni che si svolgono sui mercati, vecchi e nuovi. Poiché gli statistici hanno il compito di rappresentare l’economia di mercato per quello che è, e non per quello che vorremmo che fosse, ogni sforzo diretto ad assicurare esaustività e aderenza alla realtà è non soltanto indispensabile dal punto di vista conoscitivo ma anche pienamente coerente con il mandato (l’etica?) di chi ha la responsabilità di costruire statistiche.
Per lungo tempo e nella gran parte dei paesi, le attività vietate dalla legge sono rimaste escluse dalle stime degli istituti di statistica. Il passaggio al SEC 2010 segna il parziale superamento di questa pratica, secondo quanto già previsto dal Regolamento europeo del 1996 sul Sistema dei conti economici nazionali [4. Regolamento (CE) N. 2223/96 del Consiglio del 25 giugno 1996]. Eurostat ha anche indicato le realtà quantitativamente più importanti del multiforme universo dell’illegalità: produzione e commercio di stupefacenti, contrabbando di alcol e tabacco, prostituzione, gioco d’azzardo non autorizzato, riproduzione e commercio non autorizzato di materiale coperto da copyright. Si tratta di attività economicamente rilevanti, con un volume di affari che in molti casi è andato significativamente aumentando. D’altro canto, la crescita di queste attività è un indice di malessere, piuttosto che di benessere, delle nostre economie e delle nostre società.
Quello tra etica e mercato è un rapporto complesso. Le logiche di mercato, come ha mostrato la crisi, se lasciate a se stesse, possono eclissare norme morali e mettere a repentaglio la stabilità economica e la coesione sociale. Mercati che ripugnano i più elementari e universali principi etici, ancor prima di violare le legislazioni nazionali o le norme internazionali, sono una triste ma inoppugnabile realtà (basti pensare al traffico di esseri umani!) che resterebbe e crescerebbe anche se le statistiche la bandissero.
Torniamo così alla questione della bussola ingannevole e ai piloti che avanzano alla cieca. Se deve rappresentare nel modo più fedele ed esaustivo l’insieme delle attività di mercato, anche quelle che vorremmo cancellare, il PIL non può continuare ad essere la “stella polare” delle politiche economiche e delle politiche pubbliche in generale. Non soltanto per una questione di principio, ma anche per alcune implicazioni a dir poco sconcertanti. Ecco alcuni esempi.
Per cominciare, pensiamo alle conseguenze dell’inclusione dei proventi derivanti dal traffico di droga, prostituzione e contrabbando sulla dinamica del PIL. Se, nei paesi che le adottano, le politiche di contrasto di tali attività divenissero più efficaci l’impatto sul PIL sarebbe negativo. Dovremmo concluderne che la congiuntura economica sta peggiorando? O che il prodotto potenziale si sta riducendo? E, pensando ai vincoli europei di finanza pubblica, dovremmo esporre un tale comportamento “virtuoso” alle conseguenze di un deterioramento del rapporto deficit/Pil o debito/Pil? Oppure, nel caso opposto, dovremmo considerare positiva una riduzione di quei rapporti derivante da una crescita delle attività illegali? Problematico sarebbe anche il potenziale aumento dei contributi pubblici al bilancio dell’Unione europea a seguito di una rivalutazione del PIL “illegale”, non accompagnata, peraltro, da maggiori entrate fiscali, visto che le attività illecite non producono gettito.
Una risposta a questi interrogativi che invocasse il limitato impatto statistico dei cambiamenti sarebbe evasiva e metodologicamente poco rigorosa. Occorrono, invece, soluzioni che impediscano al pur necessario adeguamento del PIL di generare i paradossi di cui si è detto.
Una prima possibile soluzione è rendere pienamente trasparenti le stime delle attività illegali, fornendo il dato del PIL prima e dopo l’inclusione di tali attività. Idealmente si dovrebbe costruire un “conto satellite” delle attività illegali, a sottolinearne non soltanto la peculiarità e la “contestabilità” sotto il profilo dei metodi di stima, ma anche l’impatto “contro-intuitivo” sull’andamento del PIL. In questo modo, peraltro, diventerebbero visibili gli sforzi compiuti da un paese nel combattere l’illegalità. Non è chiaro se si vi siano margini per farlo ma, per le ragioni appena descritte, sarebbe auspicabile che si continuasse a usare il PIL al netto delle attività illegali come parametro di riferimento per le policy, compresi gli obiettivi di finanza pubblica.
Infine, oltre a impegnarsi perché il PIL sia un aggregato più rappresentativo di tutte le attività di mercato, la politica dovrebbe inviare un segnale forte sull’urgenza e la fattibilità del suo progressivo ridimensionamento quale indicatore di performance economica e di benessere. Bisognerebbe perciò dare slancio, vigore e visibilità alle iniziative in corso, a livello nazionale e internazionale, per direzionare l’ago della bussola “beyond GDP”.
“We measure what we value”: è il refrain che accompagna le riflessioni di tutti i grandi pensatori che hanno cercato di dipanare i temi complicatissimi della metrica in base alla quale valutiamo l’evoluzione e lo stato di salute delle nostre economie e delle nostre società. La conoscenza accurata e obiettiva di quello che sono diventate le nostre economie di mercato è sicuramente un valore. Orientare le politiche verso la crescita di mercati senza regole, o, peggio ancora, in aperta violazione delle regole, sarebbe un’evidente aberrazione.

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