La concorrenza e la disuguaglianza: osservazioni in margine alla Relazione annuale del Presidente dell’Antitrust

FraGRa prendono spunto da alcune affermazioni sul capitalismo clientelare, contenute nella Relazione presentata dal Presidente dell’Antitrust, Pitruzzella, per sostenere che oggi la lotta alle disuguaglianze non può essere condotta soltanto con le armi redistributive del Welfare State ma richiede interventi in grado di incidere sul funzionamento dei mercati e di accrescere la loro capacità di erodere, attraverso la concorrenza, le rendite che, in vario modo, concorrono a rendere più ampie e meno accettabili le disuguaglianze. Una ben disegnata politica per la concorrenza è, dunque, una parte importante di un’efficace strategia di lotta alle disuguaglianze.

Nella Relazione annuale presentata al Parlamento lo scorso 30 giugno dal Presidente dell’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, Giovanni Pitruzzella, sono contenute affermazioni sulle caratteristiche del capitalismo contemporaneo che meritano la massima attenzione.

Nelle parole di Pitruzzella, la crisi attuale, lungi dal potere essere interpretata come la fase di un normale ciclo economico, segnala la fine della “quadratura del cerchio”, ossia “dell’equilibrio tra democrazia, mercato e coesione sociale” che ha caratterizzato il periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Oggi, invece, trionfa un “modello di capitalismo fondato sulle relazioni tra alcuni grandi poteri economici, sul rapporto privilegiato con gli apparati pubblici, sulla protezione nei confronti dei concorrenti”, il quale “aggrava le diseguaglianze, rende la società chiusa, statica, poco aperta alla concorrenza e all’innovazione”, pregiudicando “quella particolare forma di eguaglianza che è l’eguaglianza delle opportunità”.

Uscire da questo stato richiede un ridisegno profondo dei mercati in funzione della promozione di quello che dovrebbe essere il loro tratto caratteristico: la concorrenza. Affermare ciò, si sottolinea nella Relazione, non significa in alcun modo accettare la visione di un mercato come “ordine spontaneo affidato al libero gioco della domanda e dell’offerta” in opposizione alla soddisfazione dei diritti. Al contrario, le nuove “quadrature” devono contemplare un contesto in cui “non solo il mercato è reso compatibile con i diritti”, ma il esso, con la sua efficienza, è pre-condizione per la realizzazione dei diritti stessi. Il tema è, nella sua più ampia accezione, quello del capitalismo clientelare, sul quale il Menabò si è già soffermato, e delle sue implicazioni per valori fondamentali quali la democrazia, i diritti sociali e la disuguaglianza. Il fatto che il Presidente dell’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato abbia dedicato parte della sua Relazione annuale a questo tema è sufficiente a dimostrare che il problema riguarda il funzionamento e la regolazione dei mercati e non soltanto, come si tende spesso a pensare, l’azione redistributiva del Welfare State.

Nella nostra lettura, le affermazioni di Pitruzzella hanno almeno tre importanti implicazioni.

Primo: oggi, il gioco di mercato è molto spesso espressione di un connubio perverso fra poteri privati e poteri pubblici. Ineguaglianze prodotte da un siffatto connubio non possono essere giustificate. Il problema, anche senza arrivare a parlare di minacce per la democrazia, riguarda la possibilità di giustificare le disuguaglianze economiche sulla base di un criterio ampiamente condiviso quale è quello meritocratico. Possiamo considerare meritevoli, coloro che risultano “vincitori” una gara dove essi stessi hanno fissato le regole (o, comunque, ne hanno influenzato profondamente la definizione), dove la possibilità di partecipare è circoscritta a chi condivide le stesse relazioni sociali e, dove, comunque, le disuguaglianze prodotte minano l’uguaglianza di opportunità di sviluppo delle abilità? Le risposte non paiono difficili.

Secondo: una concorrenza ben regolata gioca un ruolo cruciale nella necessaria ridefinizione del disegno istituzionale, grazie anche alla sua capacità di riduzione delle disuguaglianze. Il punto va sottolineato. Al posto dei tanto invocati trade off fra efficienza e uguaglianza, più concorrenza – opportunamente disegnata – potrebbe comportare anche più uguaglianza, dando luogo a complementarietà istituzionali virtuose fra mercato, democrazia e stato sociale.

La ragione di fondo è che la concorrenza, implicando la libertà di entrata, implica anche l’erosione del potere di fissare i prezzi e, dunque, delle rendite. Se le rendite vengono erose, si riducono le disuguaglianze di reddito. Il punto va sottolineato: le disuguaglianze estreme appaiono, in generale, incompatibili con mercati correttamente concorrenziali. In questi ultimi, per essere più precisi, potrebbero esservi disuguaglianze anche elevate dovute a innovazioni – di cui si approprierebbero nel breve periodo gli imprenditori e, presumibilmente, i lavoratori più qualificati – ma, appunto, le disuguaglianze sarebbero dovute a innovazioni e a investimenti in capitale umano e, comunque, nel medio periodo, sarebbero destinate a attenuarsi per l’effetto di erosione delle rendite dovuto ai nuovi entranti nel mercato.

Ciò giova al funzionamento sia della democrazia, sia dello stato sociale. Rispetto alla democrazia, le ragioni paiono auto-evidenti. Quando è minore la concentrazione delle risorse, è minore anche l’influenza dei più ricchi sul complessivo processo politico. Rispetto allo stato sociale, mercati più ugualitari, da un lato, facilitano le attività di redistribuzione che restano necessarie e, dall’altro, favoriscono la propensione alla redistribuzione.

A quest’ultimo riguardo, si confronti il contesto che ha dato luogo alle esperienze più di successo dello stato sociale con quello attuale. Anche senza idealizzarla, come invece spesso si fa, l’esperienza dei “trenta gloriosi” è stata resa possibile da un mercato che aiutava lo stato sociale, e dall’effetto di contenimento delle disuguaglianze esercitato dalla crescita. Oggi le disuguaglianze estreme, rendono non solo una fatica di Sisifo l’attività dello stato sociale, costretto a rincorrere una distribuzione sempre più disuguale, ma rendono tale fatica sempre più difficile da sopportare. Contrariamente a quanto talora sostenuto da chi ritiene l’indebolimento del welfare italiano la causa principale dell’ampliamento delle disuguaglianze di reddito nel nostro paese, va, infatti, ricordato che, fra i principali paesi OCSE, nel periodo 1985-2010 l’Italia è stato quello caratterizzato dal maggiore aumento della disuguaglianza dei redditi di mercato (prima quindi dell’intervento pubblico attraverso imposte e trasferimenti): il valore dell’indice di Gini è, infatti, cresciuto da 0,386 a 0,503.

Aumentando le disuguaglianze primarie, aumentano le distanza da colmare e, dunque, le risorse pubbliche che a tale attività dovrebbero essere destinate, mentre chi detiene le risorse ha spesso spiccato il volo staccandosi dal resto dei concittadini ed entrando in comunità di rischi sostanzialmente distinte, in cui gli svantaggiati sono stranieri sconosciuti.

Terza e ultima implicazione: non ci si può limitare a invocare la crescita senza occuparsi del disegno dei mercati o occupandosi di un unico mercato, quello del lavoro e peraltro, senza attenzione adeguata ai diritti. Tutte le degenerazioni e i costi economici, sociali e politici del capitalismo clientelare resterebbero intoccati. Ciò vale anche per le raccomandazioni spesso fatte in favore di un’altra via attraverso cui diminuire ex ante le disuguaglianze oggi esistenti, ossia, l’accrescimento dell’offerta di capitale umano qualificato. Migliorare il capitale umano è senz’altro importante e, come detto, potrebbe portare ulteriori benefici in contesti effettivamente concorrenziali, ma resta insufficiente se si ignora il funzionamento più complessivo del mercato e il divario, assai profondo, fra quello che fanno i mercati nella realtà di oggi e quello che potrebbero fare mercati caratterizzati da una concorrenza attenta ai diritti.

Chi adottasse una prospettiva di sinistra potrebbe certamente trovare problematici alcuni aspetti della Relazione di Pitruzzella: dal riferimento alla coesione, invece che alla giustizia sociale, come valore centrale, all’enfasi sulla massimizzazione del benessere dei consumatori senza tenere conto della sua compatibilità con quello dei lavoratori – dunque, in definitiva sul benessere tout court, visto che lavoratori e consumatori sono spessissimo la stessa persona.

Inoltre, nel ridisegno dei mercati occorrerebbe prestare speciale attenzione anche a numerosi altri aspetti: alla regolazione di un particolare mercato, quello della finanza, cui la Relazione, anche per ragioni comprensibili di divisione delle competenze, dedica pochissimo spazio; alla questione del governo democratico dell’impresa; al problema della distribuzione del lavoro, in un contesto economico in cui i rischi di disoccupazione strutturale sono evidenti e la demarcazione dei confini dei mercati rispetto ad altre forme non mercantili di produzione va preservata e valorizzata.

In questo contesto problematico, le affermazioni contenute nella Relazione del Presidente Pitruzzella costituiscono un prezioso invito a riflettere sui tanti costi del capitalismo clientelare e a darsi l’ambizioso ma indispensabile obiettivo di cercare di ristabilire una virtuosa complementarità fra concorrenza, democrazia e stato sociale.

Schede e storico autori