La concorrenza come contendibilità del privilegio

FraGRa si soffermano sui complessi rapporti tra concorrenza e disuguaglianza nei redditi e ricordano che una più intensa concorrenza può accrescere la dispersione salariale per effetto del maggiore rendimento che essa assicurerebbe al capitale umano. Per questo motivo la crescente disuguaglianza potrebbe essere considerata meritocratica. D’altro lato, però, la debole concorrenza favorisce formarsi di rendite – ben poco meritocratiche - nella parte alta della distribuzione. Gli autori ritengono che questa forma di aggravamento delle disuguaglianze sia divenuto più importante negli anni recenti.

La concorrenza ha fanatici supporters e inflessibili avversari. Per i primi essa è indispensabile per l’efficienza e per fare sì che il merito – oggetto di non facile definizione, occorre riconoscere – prevalga. Per i secondi essa sollecita alcuni tra i meno nobili sentimenti umani e costituisce una trappola nella quale restano imprigionati i più poveri, i più sfortunati, una trappola che inevitabilmente finisce per ampliare le disuguaglianze.

Sui rapporti tra concorrenza (soprattutto la concorrenza ideale, alla quale si riferisce anche Grillo in questo numero del Menabò ) e efficienza, si è scritto molto, di certo abbastanza per poter concludere che i fanatici supporters devono superare parecchi ostacoli per non vedere il loro entusiasmo affondare dietro una delle molte delusioni che la concorrenza (quella del mondo reale) spesso procura. Meno si è scritto sul rapporto tra concorrenza e merito, da un lato, e tra concorrenza e disuguaglianza dei redditi, dall’altro. Soprattutto, molto poco si è riflettuto sulla possibilità che la concorrenza possa essere disegnata in modo da ottenere due risultati che appaiono molto desiderabili in base a giudizi di valore solidi e largamente condivisi: contenere le disuguaglianze, da un lato, e fare in modo che esse riflettano il più possibile il merito, anche se – come si è già detto – definire il merito non è un’operazione semplice.

Naturalmente, la concorrenza può essere diversamente intesa e definita. Alcuni dei suoi fieri antagonisti la concepiscono quasi esclusivamente come un diabolico strumento per permettere agli ultimi di trascinare i penultimi verso il basso. Questa possibilità esiste ed essa fa sì che a una maggiore concorrenza corrisponda un ampliamento delle disuguaglianze, almeno tra coloro che percepiscono un reddito da lavoro.

Alcuni studi documentano, infatti, un tendenziale peggioramento della dispersione salariale al crescere della pressione concorrenziale alla quale è sottoposta l’impresa o il settore nel quale operano i lavoratori. Più precisamente, l’idea, confermata da alcune verifiche empiriche per il Regno Unito e l’Italia, è che al crescere della pressione competitiva i profitti delle imprese diverrebbero più sensibili ai costi del lavoro sostenuti e, dunque, per aumentare i profitti, non potendo più usufruire di rendite e vantaggi non competitivi, crescerebbe la domanda di lavoratori più qualificati e ciò aggraverebbe i divari fra lavoratori più e meno qualificati. In aggiunta, la crescita della concorrenza nei mercati dei prodotti potrebbe indurre una serie di meccanismi che portano ad ampliare la dispersione salariale, quali investimenti in nuove tecnologie, modifiche organizzative, fino alla riduzione del potere di contrattazione dei sindacati.

Questa disuguaglianza può dunque essere interpretata, e così è stato fatto, come la conseguenza delle più alte retribuzioni che, in condizioni di concorrenza (interna e internazionale), i lavoratori meglio formati riescono a ottenere, marcando una distanza maggiore rispetto ai lavoratori meno qualificati, le cui retribuzioni rischiano invece di diminuire. Si tratterebbe, quindi, di un premio crescente al capitale umano. La disuguaglianza che scaturisce da quel premio si potrebbe difendere come determinata da meccanismi meritocratici: sarebbe così se, senza andare troppo per il sottile e trascurando che non necessariamente vi è il merito alla base dell’acquisizione delle skills che il mercato premia, si considerasse il possesso di migliori abilità e capacità una manifestazione del merito individuale.

Dunque, la concorrenza sembra produrre disuguaglianze crescenti anche se apparentemente meritocratiche. I suoi avversari sembrano avere qualche punto a proprio favore. Naturalmente una valutazione più completa degli effetti distributivi della concorrenza dovrebbe tenere conto anche del suo impatto sui prezzi dei beni consumati e del beneficio che ne traggono individui che percepiscono redditi diversi. Questo è uno dei punti trattati da Pezzoli e Tonazzi in questo stesso numero del Menabò .

Ma a noi pare che vi sia un altro punto di grande importanza che rimanda, appunto, alla concezione che si ha della concorrenza. Si tratta della possibilità che essa eroda i redditi più alti, soprattutto quelli che derivano, in un modo o nell’altro dal godimento delle rendite. Riferirsi a questa possibilità vuol dire considerare che la concorrenza consiste essenzialmente nel rendere contendibile il privilegio, nel creare le condizioni perché sia agevole “sfidare” chi gode delle posizioni migliori.

Così concepita, la concorrenza non è vera e piena se esistono protezioni (o vantaggi), di qualsivoglia natura, in qualsiasi fase del processo che determina le condizioni dalle quali dipende il reddito (quello da lavoro, in primo luogo) che si potrà ottenere. Dunque, per esemplificare, i mercati nei quali si vendono i propri “servizi” devono essere aperti, così come deve essere aperto a tutti l’accesso alle conoscenze e alle competenze da cui dipendono i redditi. Se si tengono assieme tutti questi aspetti il legame tra concorrenza, disuguaglianze e merito diviene più evidente.

Diversamente, la concorrenza a cui più di frequente si fa riferimento e che più spesso viene invocata è quella che ha l’effetto di peggiorare la posizione dei penultimi o degli ultimi. E questo effetto si è chiaramente manifestato negli ultimi decenni anche e soprattutto laddove il disegno dei mercati del lavoro e, in parte, di quelli dei prodotti è stato modificato per renderlo più coerente con una “certa” idea di concorrenza.

Ne è prova anche la tendenziale riduzione della quota di reddito nazionale appropriata dai lavoratori che, a seguito della stagnazione delle retribuzioni medie e basse, si è manifestata in quasi tutti i paesi avanzati. Tra l’altro, queste evoluzioni della distribuzione funzionale del reddito aggravano le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi tra individui e famiglie. Infatti è provato che quando la quota di reddito che va al lavoro si contrae a vantaggio di quella che va al capitale, la disuguaglianza nella distribuzione personale si aggrava. La principale ragione è facile da individuare: il capitale è molto concentrato, cosicché quando i profitti crescono come quota del reddito, distribuendosi approssimativamente in modo proporzionale al capitale di cui si è proprietari, le distanze di reddito tra chi possiede molto capitale e chi ne possiede poco o niente affatto, crescono.

Ma, tornando alla concezione della concorrenza come “contendibilità del privilegio”, appare indiscutibile che sia proprio la mancanza di questa concorrenza la causa principale della diffusa presenza di molte posizioni “protette” cui corrisponde il godimento di rendite (anche e soprattutto da lavoro), spesso stratosferiche. Pertanto, se si guarda alla complessiva scala dei redditi, si può attribuire al difetto di concorrenza la responsabilità di contribuire alle disuguaglianze per i suoi effetti di rafforzamento della concentrazione dei redditi al top.

Per restare nell’ambito dei redditi da lavoro, si pensi ai super-redditi dei manager i quali sono determinati troppo spesso da processi che sono ben poco concorrenziali per una varietà di ragioni: perché riflettono la loro crescente “forza contrattuale” all’interno delle imprese; perché si giustificano con i risultati conseguiti che, anche quando sono rilevanti, non assicurano, però, che altri non avrebbero potuto fare altrettanto o perfino meglio; perché, soprattutto, troppi e troppo numerosi sono i meccanismi che permettono di far perdurare nel tempo i privilegi di cui si gode, indipendentemente dal fatto che i meriti che li avessero giustificati siano ancora presenti. Si pensi al caso del manager di un’impresa innovativa che si trasforma in monopolista o al rilievo che può assumere un fenomeno distintivo della nostra epoca, la notorietà, nell’assicurare benefici duraturi che sopravvivono alle capacità che possono averli inizialmente giustificati.

In effetti, la notorietà può essere un ostacolo alla vera concorrenza e alla contendibilità di cui si è detto. Eppure per molti essa è, al contrario, la prova che il sistema è concorrenziale, anzi profondamente concorrenziale: in fondo se si è noti vuol dire che un “popolo” di liberi consumatori ha scelto i migliori tra i molti concorrenti. Questa è, ad esempio, l’assunzione di base della cosiddetta teoria delle superstar che è familiare agli economisti e che finisce per considerare i super-redditi da lavoro come il premio per chi ha vinto una agguerritissima gara concorrenziale. Ma non è così semplice, se non altro perché la competizione per la notorietà non è affatto la stessa cosa della concorrenza come contendibilità.

Proprio perché non lo è essa, così come altre vecchie e nuove barriere, favorisce il formarsi di quelle strabilianti e ben poco meritocratiche disuguaglianze nei redditi che i dati recenti rilevano con riferimento ad un grande numero di paesi.

Debellare le forme nelle quali si concretizza la protezione, nemica della contendibilità dei privilegi, può essere essenziale per contrastare le disuguaglianze, soprattutto quelle estreme. Si tratta di forme spesso subdole che si distaccano dalle tradizionali barriere all’entrata nei mercati. Ad esse dovrebbe guardare la politica per la concorrenza soprattutto se ad ispirarla è non soltanto la ricerca, spesso delusa, dell’efficienza, ma anche il tentativo di fare in modo che i privilegi che si creano nella società siano più contendibili e, dunque, ostacolino meno l’affermazione del merito e il contenimento delle disuguaglianze.

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