La Cina e il suo futuro: il nuovo Piano Quinquennale

G2BC esaminano il 13* Piano Quinquennale Cinese, approvato lo scorso Marzo, che intendefar progredire la Cina verso un modello di crescita sostenibile e con un sano sistema di welfare, trasformandolo in 'un paese in cui il cielo è azzurro, la terra è verde e l'acqua scorre pulita". Gli autori si chiedono se questi ambiziosi obiettivi siano realizzabili e si concentrano in particolare su quelli sulla povertà e sul welfare, valutandoli alla luce di quanto è stato già fatto e anche del ruolo che potrà avere la nuova charity law.

Il “Piano Quinquennale sullo Sviluppo Economico e Sociale Nazionale della Repubblica Popolare Cinese” è il  documento con il quale il governo rende noti, ogni cinque anni, gli obiettivi di crescita e produzione del paese. La redazione dei Piani Quinquennali ha avuto inizio nel 1953 con Mao Tse-Tung e l’ultimo piano, approvatolo scorso 16 Marzo dall’Assemblea del Popolo, è il tredicesimo della serie. La funzione di questi documenti è mutata nel tempo: mentre i primi piani venivano seguiti ed applicati dai governi in maniera rigorosa, quelli più recenti hanno più che altro il ruolo di linee guida.

A partire dal 10° Piano, il primo del ventunesimo secolo, i documenti di programmazione quinquennale hanno reso progressivamente più evidente la volontà del governo di avviare un percorso di conversione dell’economia cinese a un modello ispirato al libero mercato. Tuttavia, nonostante le ambizioni, gli sforzi compiuti fino ad oggi non sembrano ancora sufficienti: il Parlamento Europeo ha recentemente negato alla Cina il riconoscimento dello status di economia di mercato, impedendole di accedere a una serie di vantaggi. Verosimilmente, questa decisione confermerà le autorità cinesi nella loro volontà di passare da un modello di crescita basato sull’export e su una produzione industriale ad alto impatto ambientale ad un nuovo modello centrato sui consumi interni e sullo sviluppo del settore terziario.

Il XIII Piano quinquennale con la sua promessa di una politica di sviluppo “innovativa, coordinata, green, aperta e condivisa” sembra andare proprio in questa direzione. Il corposo testo, pubblicato solo in lingua cinese nonostante l’enfasi posta di recente sull’apertura e l’integrazione, è suddiviso in 20 capitoli che toccano 4 macro aree e corrispondono ad altrettanti temi di sviluppo. In linea con i precedenti, il piano dedica molto spazio alla sostenibilità economica, al benessere dei cittadini, alla riduzione delle disuguaglianze, all’ambiente e all’utilizzo delle risorse naturali (può essere utile, sotto diversi aspetti, dare uno sguardo a questo video di presentazione del piano). La sezione “benessere della popolazione” presenta una serie di obiettivi ambiziosi, tra cui spicca l’azzeramento della povertà assoluta entro il 2020. In controtendenza con le odierne restrizioni nella fruizione dei contenuti web (anche nel 2015 la Cina è ultima nella classifica sulla libertà di accesso alla rete), il programma fissa l’obiettivo di garantire l’accesso a Internet su rete fissa al 70% della popolazione, a fronte del 40% attualmente coperto.

I target fissati dal piano in ambito economico per il quinquennio 2016-2020 prevedono una crescita media reale del PIL del 6,5% l’anno, un aumento della produttività del lavoro della stessa percentuale, un incremento degli investimenti per la ricerca dal 2,1 al 2,5% del PIL e del numero di brevetti da 6 a 12 ogni 10 mila persone, entro il 2020. Un ulteriore obiettivo è la creazione di almeno 50 milioni di nuovi posti di lavoro urbani. Il Programma pone  l’accento sulla necessità di un“Nuovo Normale”, cioè su una crescita moderata ma sostenibile, che punti a una trasformazione qualitativa del sistema produttivo, a una correzione degli squilibri tra zone urbane e rurali, a una maggior cura dell’ambiente, all’eliminazione della povertà.

In un paese con una marcata disuguaglianza tra zone urbane e zone rurali (e di alta disuguaglianza complessiva nei redditi: l’indice di Gini nel 2010 era pari al 47%) il focus sull’urbanizzazione risulta estremamente importante. La disuguaglianza tra le due aree è talmente marcata che la Cina può essere considerata la prima superpotenza povera della storia, con città relativamente prospere e sovrappopolate e campagne piene di individui che vivono al di sotto della soglia di povertà assoluta (pari ad 1,03 dollari al giorno per persona). Per valutare questa differenza basta considerare che i dati ufficiali contano 70 milioni di poveri, di cui circa 50  nelle zone rurali (un recente studio pubblicato sul China Economic Review ipotizza però che questi dati sottostimino enormemente il fenomeno:il numero di poveri rurali sarebbe infatti 5 volte più elevato e i poveri urbani sarebbero il doppio di quanto ufficialmente riportato). Nello specifico, il programma punta a sollevare dalla povertà ogni anno 5 milioni di persone, migliorando la loro condizione abitativa, ristrutturando le bidonville, e fornendo loro una rete di trasporti all’avanguardia.

Per quanto riguarda la situazione ambientale, la Cina si trova in una situazione decisamente critica anche a causa della modalità di specificazione dei target, che sono sempre stati indicati come riduzioni percentuali per unità di PIL (ad esempio il Dodicesimo Piano prevedeva una riduzione del 3,5% delle emissioni di CO2 per unità di Prodotto). In un paese come la Cina, con un livello di crescita molto elevato negli anni recenti, questo ha significato in realtà un incremento del livello totale di emissioni di CO2. Il problema è che la Cina continua con questa strategia, e i nuovi target di riduzione dell’inquinamento sono piuttosto modesti: si prevede una riduzione del consumo d’acqua, d’energia e di emissioni di CO2 pari, rispettivamente, al 23%, 15% e 18% nell’arco del quinquennio.

La completa eliminazione della povertà è sicuramente l’obiettivo più ambizioso del nuovo piano che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe accompagnarsi anche a una riduzione della disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Il segretario del Partito Comunista Cinese Xi Jinping nel suo discorso di presentazione del piano, ha proposto le seguenti misure: l’incremento del 43%(da 7,5 a circa 11 miliardi di dollari) della spesa del governo centrale destinata a chi vive al di sotto della sotto la soglia di povertà assoluta; l’aumento dell’8% e del 5%dei sussidi per necessità di sussistenza destinati, rispettivamente, agli abitanti delle aree rurali e urbane. Infine il premier Li Keqiang ha recentemente annunciato l’intenzione di favorire lo sviluppo del settore turistico anche come strumento di contrasto alla povertà, ponendosi l’obiettivo di ridurre i poveri di 12 milioni grazie all’incremento del PIL e all’aumento dei posti di lavoro che ne deriverà.

In accompagnamento al Piano,lo scorso 16 Marzo il Governo ha anche approvato la Charity Law, che, seppur diretta a favorire l’intervento privato filantropico piuttosto che un intervento pubblico diretto,è vista come uno strumento utile per raggiungere gli ambiziosi obiettivi prefissati stabiliti nel Piano. Per gli estensori, tale legge dovrebbe definire un contesto giuridico in grado di favorire il contributo che i privati possono  dare allo sviluppo qualitativo del paese.  L’intervento del Governo si è reso necessario in quanto l’ultima legge regolatrice del settore, la Public Welfare Donation Law, risaliva al 1999, ovvero a un periodo in cui le caratteristiche economiche e sociali della Repubblica Popolare Cinese erano profondamente diverse da quelle attuali.

La necessità di riformare giuridicamente l’organizzazione e l’azione degli enti no profit è nata anche da questioni legate ad abusi, appropriazioni indebite e corruzione nella gestione dei fondi raccolti che negli ultimi anni  hanno spinto la Cina nelle  posizioni di coda del World Giving Index.La legge amplia le categorie idonee ad essere considerate charitableactivity,utilizzando come criterio principale il contrasto della povertà.Il cuore della riforma poggia tuttavia sull’accountability e l’efficienza delle organizzazioni no profit: tra le altre cose viene abbandonato l’obbligo di un doppio controllo pubblico e favorita l’autoregolamentazione degli enti no profit. Inoltre, per incentivare le donazioni, la legge prevede un sistema di sgravi fiscali e la rimozione dell’obbligo dell’associazione unica, riconoscendo la possibilità che più organizzazioni no profit si occupino dello stesso problema nello stesso territorio, e consentendo la creazione di associazioni di categoria.

Tuttavia, la Charity Law presenta anche aspetti problematici: se da una parte la legge rappresenta un avanzamento importante nel contrasto alla corruzione e una base per migliorare la fornitura di trasferimenti di sicurezza sociale, dall’altra essa lascia aperta la possibilità  che le autorità intervengano contro le ONG, potendo arrivare anche alla chiusura delle attività, qualora queste mettano in pericolo la sicurezza nazionale e l’interesse pubblico. La preoccupazione nasce dal fatto che  dalla combinazione di una sommaria definizione di sicurezza nazionale e di un Governo meticoloso nei suoi interventi possa produrre non un’incisiva redistribuzione ma  un controllo più stretto sull’attività dei cittadini.

La questione su come introdurre un avanzato sistema di welfare state si interseca, inevitabilmente, con la “ rivoluzione legislativa” dello scorso Ottobre, ovvero con la concessione alle famiglie di avere  due figli, che modificherà profondamente il quadro demografico nei prossimi decenni e avrà, appunto, ripercussioni sul welfare. Da una parte l’aumento della popolazione potrebbe rendere difficoltoso il raggiungimento degli obiettivi del Piano, soprattutto quello di riduzione della povertà. Dall’altra parte, la politica dei due figli dovrebbe contrastare l’invecchiamento della popolazione, consentendo alla Cina di poter contare, nel lungo periodo, su un sistema di welfare familiare di cui non aveva mai goduto: sarà il lavoro di due fratelli a mantenere genitori e nonni, in assenza di un welfare state efficace. I risultati del XIII Piano sono dunque più incerti del solito, e sarà meno scontato che i target prefissati vengano raggiunti, o addirittura superati, come è successo in precedenza.

Dal punto di vista economico-politico, c’è poi da chiedersi come il Governo reagirà al rifiuto del Parlamento Europeo di concedere alla Cina la denominazione di Economia di Mercato. Il Programma, infatti, pone tra gli obiettivi centrali il rafforzamento del commercio estero secondo regole definite “internazionali, eque, razionali e trasparenti”. “Open è l’unico modo di sviluppo del paese”, sostiene il documento. Nello specifico, l’obiettivo è puntare su marchi di qualità e ad alto valore innovativo, piuttosto che su merci la cui etichetta “Made in China” è un segnale di scarsa qualità. L’Europa con la recente decisione ha mostrato di ritenere questa riconversione ancora tutta da compiersi.

* Ringraziamo Sara Pilia, dottoranda all’Istituto Italiano di Studi Orientali ed esperta della Cina contemporanea, per il suo prezioso contributo nella traduzione e interpretazione del Piano

 

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