Jobs Act tra evidenze empiriche e false verità

Pasquale Tridico valuta l’impatto del Jobs Act sull’occupazione. Dalla sua analisi emerge che nel 2016 i contratti a tempo indeterminato si sono ridotti rispetto al 2014 e che, dopo il picco di assunzioni - dovuto agli sgravi contributivi- con contratti a tutele crescenti del 2015, sono in forte crescita le assunzioni a termine. Tutto ciò, secondo Tridico, conferma che non sono le norme a creare occupazione e segnala che l’Italia ha rafforzato il suo modello di “Flex-insecurity”, aggiungendo col Jobs Act flessibilità in uscita alla massiccia flessibilità in entrata già presente.

L’obiettivo di questo articolo è quello di presentare alcuni dati che aiutino a valutare quale sia stato l’impatto del Jobs act sulla crescita dell’occupazione nel biennio 2015-2016, con un approccio di natura descrittiva. Ci concentriamo, in particolare, sul fulcro centrale della riforma del mercato del lavoro, ovvero l’introduzione del Contratto a Tutele Crescenti (CTC).

I dati presi in considerazione sono quelli periodicamente distribuiti dall’INPS, aggiornati al 10 gennaio 2017, e riguardano le variazioni assolute dei flussi lavoro occupazionali. Prima di passare a descrivere le evidenze che emergono dai dati INPS, va ricordato che, anziché dati di flusso, l’ISTAT rileva periodicamente i saldi occupazionali, ovvero le variazioni assolute degli stock. I dati provvisori di questi saldi, riferiti ai soli lavoratori dipendenti di ogni settore presentano variazioni più contenute di quelle fornite dall’INPS e riportano una variazione assoluta nel 2015 rispetto al 2014 di 209.000 dipendenti, di cui 108.000 con contratto a tempo indeterminato e 102.000 a termine.

Passiamo dunque a presentare i dati sui flussi occupazionali rilevati dall’INPS. Nella Figura 1 sono riportati in blu i nuovi rapporti di lavoro (senza considerare le cessazioni) a tempo indeterminato attivati nel settore privato nel 2014, nel 2015 e nel 2016 (bisogna chiarire che solo dal 7 marzo 2015 i contratti a tempo indeterminato vengono stipulati con il nuovo regime “a tutele crescenti” introdotto dal Jobs Act, mentre quelli del periodo precedente si riferiscono al vecchio contratto a tempo indeterminato). Se, da una parte, si registra un aumento del 41% nel 2015 rispetto all’anno precedente, dall’altra fra il 2016 e il 2015 il numero di attivazioni “a tutele crescenti” si riduce del 32%. Addirittura, nonostante gli sgravi contributivi ancora attivi nel 2016 (seppur in misura ridotta rispetto al 2016), il numero di CTC attivati nel 2016 (1,14 milioni) risulta inferiore a quello dei contratti a tempo indeterminato del 2014 (1,19 milioni). Da qui discende chiaramente una prima evidenza: si riducono i contratti a tempo indeterminato nel 2016 (CTC) rispetto al 2014 (ultimo anno del vecchio regime), nonostante, dopo il Jobs Act, si tratti di contratti a minore protezione.

Figura 1: Nuovi rapporti di lavoro 2014-2016

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Fonte: INPS osservatorio sul precariato

La seconda evidenza del Jobs Act si evince anch’essa semplicemente dalla figura 1: le assunzioni a termine, cioè tutti quei contratti che – se fosse stato vero che l’introduzione del CTC avrebbe favorito la convergenza verso una forma contrattuale unica o, quantomeno, fortemente prevalente – sarebbero dovuti scomparire con l’introduzione del Jobs Act, risultano invece in evidente crescita: l’INPS registra 3,14 milioni contratti a termine attivati nel 2014; 3,23 milioni nel 2015 e ben 3,45 milioni nel 2016. Questo vuol dire in percentuale che, fatto 100 il numero di nuove attivazioni totali settore privato, la quota di attivazioni mediante CTC è risultata del 22% nel 2016, mentre nel 2014 la quota di attivazioni mediante il vecchio contratto a tempo indeterminato era del 24%. Le altre percentuali sono riportate nella tabella 1, dalla quale si evince chiaramente che le assunzioni a termine, dopo un calo dovuto essenzialmente alla decontribuzione piena degli oneri a carico dei datori per le nuove assunzioni a tutele crescenti avvenute nel corso del 2015, risultano in forte aumento nel 2016 e rappresentano la netta maggioranza (il 65%) delle nuove assunzioni nel mercato del lavoro italiano.

Tabella 1: Quota di contratti attivati nel 2014-2016

 

Schermata 03-2457827 alle 22.50.48Fonte: INPS osservatorio sul precariato

La terza evidenza riguarda la variazione netta di lavori a tempo indeterminato (CTC) al netto delle cessazioni, includendo anche fra i nuovi contratti le trasformazioni in CTC di contratti già esistenti (come le attivazioni a tempo indeterminato/tutele crescenti a seguito di un contratto a termine o da apprendista): dopo un incremento nel 2015 di oltre 660.000, nel 2016 la variazione netta dei contratti “stabili” scende drasticamente a sole 65.989 unità. Senza includere le trasformazioni, il dato del 2016 è addirittura negativo, con una riduzione di 294.834 unità, ed è simile a quello del 2014 pre-Jobs Act. La terza evidenza è, dunque, che nel 2016 il lavoro a tempo indeterminato (CTC) non è aumentato, ma è calato rispetto al 2015 ed è sostanzialmente allo stesso livello del 2014 (anzi di poco al di sotto) quando il Jobs Act non esisteva (risulta, quindi, inferiore al livello del “vecchio” contratto a tempo indeterminato).

 Tabella 2: Nuovi Rapporti di Lavoro a tempo indeterminato

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Fonte: INPS osservatorio sul precariato

Per effettuare un bilancio completo degli effetti occupazionali del Jobs Act, bisogna valutare i dati finora presentati alla luce della decontribuzione. L’introduzione del CTC si è infatti accompagnata a cospicue misure di esonero della contribuzione a carico dei datori: per i contratti a tempo indeterminato attivati nel corso del 2015 (CTC dal 7 marzo 2015) le imprese sono state esonerate dal pagamento dei contributi previdenziali – fino a un massimale di 8060 euro annui – per 36 mesi, mentre sui neo-assunti con CTC nel 2016 lo sgravio ha durata biennale e importo pari al 40% di quello concesso nel 2015 (con massimale annuo di 3250 euro). L’INPS registra 491.782 unità di lavoro che beneficiano dello sgravio nel 2016 (sono escluse le trasformazioni in CTC da rapporti di apprendistato che non possono beneficiare dell’esonero contributivo), per un costo sul bilancio pubblico di circa 2,5 miliardi di euro (che andrebbero aggiunti ai circa 23 miliardi stimati da Raitano e Fana sul Menabò con riferimento agli sgravi del 2015). A fronte di una variazione netta di occupati stabili (CTC) di soli 65.989 unità nel 2016, il costo di 2,5 miliardi di euro sembra veramente eccessivo, dato che corrisponde ad una spesa media per occupato stabile di circa 37000 mila euro.

Dal quadro finora delineato, sembra dunque discendere una verità cruciale, forse la più importante: l’occupazione non viene creata da norme ma da investimenti.

Prendendo spunto da questa verità possiamo entrare nel vero dibattito che dovrebbe riguardare l’occupazione e il mercato del lavoro: la domanda di lavoro è una domanda “derivata”, dalla domanda aggregata; se non cresce quest’ultima (fatta di investimenti, spesa pubblica e consumi oltre che di esportazioni) non può crescere l’occupazione. Tuttavia, ad oggi gli investimenti privati sono fortemente rallentati da aspettative negative da parte delle imprese ed i consumi sono rallentati da alti livelli di disoccupazione e dai bassi livelli salariali di coloro che lavorano. Inoltre gli investimenti pubblici sono ostacolati o impediti dalle regole europee e dai vincoli stringenti della recente austerità. Ne consegue che l’occupazione non cresce, con o senza il Jobs Act. L’Italia ha circa 3 milioni di disoccupati, quasi il 12%, con un tasso di occupazione pari al 57% (con circa 22,8 milioni di persone che lavorano), e queste cifre sono rimaste abbastanza stabili dalla recessione del 2012, mentre nell’UE il tasso di disoccupazione medio è dell’8,5% e il tasso di occupazione al 70%.

Infine, dovremmo aggiungere una osservazione riguardo al modello che l’Italia ha deciso di adottare con il Jobs Act. Secondo alcuni esperti questa riforma avrebbe finalmente introdotto in Italia il tanto agognato modello di “Flexicurity” che ha reso famosi di recente i paesi scandinavi. Ci sembra però che questo sia veramente lontano dalla verità. Al contrario, ed è questa un’altra verità: l’Italia proprio con il Jobs Act ha rafforzato il suo modello di “Flex-insecurity”, e il fenomeno dell’esplosione dell’utilizzo dei Voucher, ne è una rappresentazione plastica efficace (si veda la figura 2). Questa esplosione è stata resa possibile da una parte dall’innalzamento del limite economico a 7000 euro netti (9333 euro lordi) e dall’altra dalla possibilità oggi di poter accedere ai voucher, all’interno dei limiti economici dei compensi, prescindendo dalla tipologia della attività svolta e, soprattutto, dal vincolo di insubordinazione e di occasionalità proprio del lavoro accessorio nella sua definizione iniziale risalente al 2003. In sostanza, in base all’evoluzione della normativa a cui il Jobs Act ha contribuito in modo determinante, i voucher possono essere utilizzati in tutti i settori di attività e da tutte le categorie di prestatori.

Figura 2: Voucher venduti 2014-2016

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Fonte: INPS osservatorio sul precariato

Dopo le massicce dosi di flessibilità del lavoro in entrata indotte nei due decenni scorsi tramite le numerose riforme che introdussero nuove forme contrattuali atipiche (Legge 196 del 1997, Legge 30 del 2003, Riforma Fornero del 2012, e il processo di continua deregolamentazione dell’uso dei voucher, culminato con il Jobs Act), la riforma del 2015 ha liberalizzato anche la flessibilità in uscita, rendendo possibile il licenziamento illegittimo attraverso una semplice sanzione monetaria tabellare prestabilita (il contratto a tutele crescenti dovrebbe in realtà ed a rigore chiamarsi “contratto che permette alle imprese di licenziare illegittimamente con una sanzione moderatamente crescente”). La Flexicurity avrebbe richiesto, piuttosto che l’introduzione di un contratto che consenta il licenziamento illegittimo (cosa inesistente nei principali paesi Europei come la Francia o la Germania, o i paesi scandinavi dove pure esistono forti sicurezze di reddito), l’introduzione di una maggiore protezione di welfare e di reddito a tutela di disoccupati e persone in cerca di prima occupazione.

Nello specifico, e negli anni della crisi, lo sforzo si sarebbe dovuto concentrare nella creazione di uno strumento universale di sostegno al reddito che andasse oltre l’estensione della NASPI (che viene concessa ai soli ex lavoratori dipendenti ed ha durata limitata); in questo quadro le due nuove misure introdotte dal Jobs Act, la Dis-Coll (a tutela dei collaboratori parasubordinati) e la Asdi (a tutela dei disoccupati di lungo periodo), si sono rivelate solamente annunci, ovvero misure limitate e temporanee, non ri-finanziate negli anni successivi. Al contrario, la creazione di uno strumento universale di sostegno al reddito – che avrebbe richiesto uno sforzo finanziario non superiore a quello, dimostratosi inefficace, della decontribuzione – avrebbe, da una parte, evitato l’esplosione di quelle sacche di povertà, anche fra i lavoratori, che l’ISTAT ha spesso richiamato, e, dall’altra, avrebbe contenuto la spirale recessiva da domanda che il nostro paese ha attraversato in questi ultimi anni.

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