Invertire il declino italiano: il ruolo delle istituzioni

Gilberto Seravalli si interroga sul ruolo che le istituzioni dovrebbero avere per rianimare un’economia stagnante e sostiene che alla diffusa ricetta “più concorrenza, meno conflitto, più capacità di comando” un’importante letteratura suggerisce di sostituire quella che prevede “più confronto anche conflittuale tra modi di vedere e più sperimentalismo per adottare soluzioni che funzionano davvero”. Il modo in cui Venezia affrontò tra il XIV e il XVII secolo il problema della laguna è, secondo Seravalli, un buon esempio di applicazione di questa ricetta

Premessa. Il declino dell’economia italiana dura ormai da vent’anni e dipende dalla caduta della produttività totale dei fattori, cioè dalla mancanza di efficienza e di innovazione. Vi è un’idea, molto diffusa accompagnata da vari tentativi di messa in pratica, secondo la quale per interrompere e invertire il declino è necessario che l’azione delle istituzioni segua due direzioni: fare regole tali da accrescere l’anonima competizione tra gli agenti (specie tra i lavoratori) e comunicare il racconto “possiamo farcela”. Da questa idea consegue un corollario: occorre abolire o tacitare il conflitto, considerato un deleterio confronto tra conservazione e innovazione, tra i pessimisti di mestiere e quelli che hanno il coraggio di darsi da fare.
Si può concordare con la parte di questa formula che fa riferimento alle relazioni tra gli agenti e all’elaborazione istituzionale di senso, ma non con quella che raccomanda l’anonima competizione e stigmatizza il conflitto. In realtà, la formula dovrebbe essere un’altra: valorizzazione del conflitto e sperimentalismo ben valutato. Questa seconda formula, per esempio, avrebbe sconsigliato di introdurre alcune delle norme contenute nel così detto Jobs Act, perché la loro sperimentazione in molti paesi sta dando effetti diversi da quelli dati per sicuri. Perfino in un recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale si legge che la produttività totale dei fattori aumenta impiegando lavoro più qualificato e nuove tecnologie, e investendo di più in ricerca, mentre non vi sono effetti significativi dalla de-regolazione del mercato del lavoro. D’altro canto, numerose esperienze confermano che l’occupazione è favorita dalla contrattazione nazionale e non da quella individuale.
Tornando alla visione di cui si è detto, dobbiamo occuparci, vista la loro importanza, delle istituzioni. Queste ultime possono essere considerate come sistemi di regole sociali (non semplicemente regole) che permettono le interazioni tra gli agenti legati da forme di mutua interdipendenza, interazioni che a loro volta influiscono sulle istituzioni. Questa definizione rende necessario approfondire come si possa conciliare il fatto che, mentre agenti e istituzioni interagiscono, gli stessi agenti e i loro comportamenti non sono completamente determinati dalle istituzioni così come le istituzioni non sono completamente determinate dagli agenti. A questo fine, le istituzioni in atto si potrebbero intendere come modi di pensare consolidati, comprensivi di razionalità ed emozioni, il che integra la definizione di “narrative dotate di senso”, dove il senso si riferisce al destino comune. In tal modo l’interazione tra agenti e istituzioni può essere vista come capace di modificare le narrative (e le regole sociali) se il cambiamento serve al destino comune, e ciò vuol dire che per funzionare davvero le istituzioni devono convincere non semplicemente imporsi. La narrativa è proprio questo: un racconto in cui le cause e gli effetti sono palesi e convincenti e che ha per oggetto una storia che ci riguarda in modo fondamentale, che parla del nostro destino.
L’innovazione. Una minaccia al destino comune può mettere in moto un cambiamento delle istituzioni, così come una minaccia alla sopravvivenza o al benessere del singolo agente può modificare le sue routines. Ma, poichè questo cambiamento può venire solo dalle interazioni degli agenti tra loro e degli agenti con le istituzioni attraverso narrative, esso non ha esiti predefiniti: può non avvenire, può essere distruttivo, può essere generativo. David Lane and Robert Maxfield (in “Complexity Perspectives in Innovation and Social Change”. Springer, 2009), hanno individuato quattro condizioni cruciali affinché le relazioni siano generative: (1) piani allineati, (2) eterogeneità, (3) permissioni, (4) mutuo riconoscimento nell’utilizzazione di opportunità.
Per “necessità di piani allineati” s’intende che gli agenti devono essere orientati e devono agire nella stessa direzione. I piani non sono allineati quando alcuni “remano contro”. Si tratta della prima condizione, molto comunemente riconosciuta come un ostacolo all’innovazione eretto dai conservatori.
La “eterogeneità” implica che gli agenti coinvolti abbiano competenze e risorse differenti, confrontando e combinando le quali potranno nascere nuove competenze e potranno essere mobilitate nuove risorse. Le relazioni non saranno generative quando risorse potenziali sono sotto il controllo di pochi e quando manca la pluralità delle competenze. In questi casi l’innovazione non è possibile perché non c’è comparazione e confronto tra differenti modi di vedere e si confermeranno quelli consolidati. Il conflitto tra innovatori lungi dall’essere un ostacolo è, dunque, essenziale.
Vi è, poi, una terza condizione, che impone non soltanto l’eterogeneità, ma anche l’agibilità per tutti. Per “permissioni” s’intende, infatti, che le relazioni siano basate sulla libertà e capacità di espressione dei propri modi di vedere, escludendo quindi che per ragioni di diritto o di fatto siano solo alcuni ad esprimersi.
Infine la quarta condizione è cruciale e particolarmente difficile. Per “mutuo riconoscimento nell’utilizzazione di opportunità” s’intende che gli agenti abbiano non soltanto interessi comuni ed esprimano differenti modi di vedere, ma posseggano anche la capacità di riconoscere nel diverso una risorsa essenziale e abbiano fiducia nella possibilità che il confronto, anche conflittuale, conduca a buoni risultati. D’altra parte questa fiducia deve essere fondata e quindi basata su sperimentazioni che permettano di riconoscere che cosa funzioni e che cosa non funzioni. Questa condizione è molto esigente: da sola può spiegare perché l’innovazione sia carente nonostante la retorica e le buone intenzioni e perché le “buone pratiche” di altri non servono. L’accento è posto sulle condizioni organizzative, le quali richiedono non accordi tra gli innovatori (contratto) né un deus ex machina, ma “contratto e leadership” cioè un assetto organizzativo difficile da realizzare, specialmente quando si oscilla tra un normativismo cieco (ideologico) e la soluzione dell’“uomo solo al comando”, come avviene oggi in Italia.
Un esempio: la laguna di Venezia. Un esempio pertinente per capire quanto le istituzioni possono esprimersi in un racconto e quanto il conflitto può essere generativo, ci è offerto dal modo in cui Venezia, tra il XIV e il XVIII secolo, ha affrontato un problema solo apparentemente di bene comune e di bene pubblico: la laguna e le opere per la sua difesa. Si è trattato, in realtà, di innovazione continua, e spesso radicale, in quanto la laguna era (ed è) sì un bene comune, ma per nulla dato, ed era sì anche un insieme di beni pubblici, ma per nulla agevolmente disegnabili.
Come spiega Piero Bevilacqua (in Venezia e le acque, Donzelli 1998), la formazione e riformazione della laguna, tendenzialmente sempre più verso Est, procedeva con fasi tutt’altro che regolari durante le quali potevano manifestarsi forze d’interramento ma anche d’invasione da parte del mare. Questo processo continuò anche dopo che la città fu formata e fu stabilita una piattaforma immobile per le sue attività. Venezia era costantemente minacciata dal lato del mare e dal lato dell’apporto dei fiumi, a cui si aggiungeva un terzo processo, ancor meno prevedibile, di incremento del livello stesso del mare. Naturalmente, anche le attività umane costituivano un problema, ma in quel contesto questa non era che una delle minacce al futuro della laguna, cioè di una risorsa cruciale, ma dai contorni e dai caratteri incerti ed effettivamente indefinibili.
Tale radicale incertezza dava luogo (allora come ancora oggi) a “partiti e fazioni”, a conflitti tra differenti visioni circa il miglior modo di condurre il processo innovativo, che costituivano una dimensione sostanziale della storia della Repubblica. Questi conflitti di “visioni” si intrecciavano ai conflitti di interessi e di identità e ne erano alimentati. I conflitti di interessi nascevano dal costante contrasto tra le molteplici attività che avevano bisogno di terra, le altrettanto diversificate attività che avevano bisogno di acqua e anche quelle che necessitavano di terra e di acqua (come le saline).
Non si possono, però, trascurare i conflitti di identità, molto evidenti, tra corporazioni (confraternite, fraglie, arti), tra le tante etnie e religioni, tra abitanti della città e della terraferma. Tutto questo non si può inquadrare in un processo di routine manutentiva come è risultato chiaro in molti momenti e in diverse circostanze e come è del tutto evidente rispetto a una grande innovazione radicale: la deviazione del corso dei fiumi operato nell’entroterra per condurli al mare in luoghi distanti dalla laguna.
A questa realizzazione si giunse soltanto dopo la profonda revisione di un canone consolidato (scavare continuamente i canali) e accettando un conflitto che fu aspro all’interno delle classi dirigenti, delle fazioni, corporazioni, etnie, e tra Venezia e la terraferma. Molti esperti, e tra i maggiori, raccomandavano cautela. D’altra parte una soluzione di compromesso era pur possibile: limitarsi a intensificare il controllo che già da tempo la Serenissima faceva sui disboscamenti e sulle difese a monte in modo da ridurre l’apporto dei fiumi. Ma invece di imboccare questa strada di compromesso si affrontò a viso aperto il tema del bando dei fiumi che vedeva fieramente opposti i favorevoli e i contrari. Dopo un lungo e attento esame dei pareri, delle perizie, degli studi, fu presa la decisione più rischiosa, costosa e impegnativa, ma che oggi tutti considerano la migliore che si potesse adottare: nel 1840, sotto la dominazione austriaca, il Brenta fu riammesso in laguna, a Chioggia, dopo una rotta rovinosa; l’interramento che provocò questa decisione nei decenni seguenti fu tale che nel 1896 fu necessario provvedere di nuovo alla sua deviazione, quella che esiste e resiste ancora oggi.
Questa soluzione innovativa, maturata nel mezzo di conflitti di visioni, di interessi e di identità, è stata resa possibile da diverse condizioni. Innanzitutto, da un’imponente e variegatissima invenzione di magistrature e regolamenti, continuamente aggiornati sulla base dell’esperienza che si veniva facendo; in secondo luogo dalla costruzione tenace e insistita del senso di destino comune e della superiorità, unicità e giustizia del governo della Repubblica, che dava a tutti – forti e deboli, ricchi e poveri, maggioranze e minoranze – uguale dignità e uguale responsabilità.
E’ probabile che se fosse mancata una forte leadership, le idee consolidate avrebbero spinto al mantenimento dei codici interpretativi esistenti, che a loro volta avrebbero confermato la narrativa tradizionale. L’innovazione venne da nuove interpretazioni a partire da posizioni che erano in conflitto. Nello stesso tempo, per evitare esiti distruttivi, il senso di destino comune doveva essere sempre alimentato. Erano esigenze contraddittorie che non potevano venire soddisfatte dagli attori senza supporti istituzionali e politici. La legge e la correttezza del governo dovevano provvedere, curando la propria autorevolezza e praticando la giustizia.
Dopo la “Serrata” del 1297, il potere politico a Venezia era affidato a un numero ristretto di famiglie che se lo tramandavano. Nel sedicesimo secolo erano 2500 i membri del Gran Consiglio tra i quali erano nominati tutti quelli che dovevano assumere cariche pubbliche. Ma «continua e puntigliosa fino alla macchinazione fu la ricerca […] delle norme […] per evitare che […] il potere diventasse personale […], che le cariche durassero troppo a lungo, che le logiche familiari prendessero il sopravvento su quelle generali e pubbliche» (Bevilacqua 1998, p. 105). E tutto contribuiva al mito della Serenissima, non formale retorica, ma sapiente sostanziale sigillo alla capacità di collaborare confliggendo, legittimato dalla concreta continua pratica di buongoverno, ogni giorno sotto gli occhi di tutti.

* Questo articolo si basa su due miei più ampi lavori: An Introduction to Place-Based Development Economics and Policy, Springer, 2015 e Storie di acque, in “La storia, le trasformazioni: Piero Bevilacqua e la critica del presente e una Lectio Magistralis di Piero Bevilacqua” a cura di L. D’Antone e M. Petrusewicz, Donzelli, 2015.

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