Il talento e i suoi profeti

Maurizio Franzini prendendo spunto da alcune recentissime notizie su una delle misure che il governo intenderebbe inserire nel cosiddetto “studentact”, riflette sul fenomeno della caccia ai talenti che sembra farsi sempre più intensa. Franzini, dopo avere ricordato l’origine del termine e l’influenza che sulla sua odierna accezione ha avuto l’evangelica “parabola dei talenti”, richiama alcuni episodi che testimoniano dell’intensificarsi di questa caccia e manifesta i propri dubbi sugli esiti ai quali potrà condurre.

Quella del talento è una storia affascinante e piuttosto misteriosa, almeno per un non esperto come me. Il talento del quale parlo non è incorporato in un essere umano né è – secondo altra accezione – un essere umano esso stesso. E’ la parola “talento” che ha una storia affascinante.  Secondo alcuni deriva dal greco “talanton” che era il piatto della bilancia,  secondo altri era un modo per indicare il peso che un uomo portava a dosso. Certamente divenne un’unità di misura del peso in Grecia – peraltro variabile da un luogo all’altro, e forse in questo c’è qualcosa di profetico – e poi una moneta che circolava oltre che in Grecia anche in Palestina ai tempi di Gesù. Per questo motivo assunse un ruolo da protagonista nella parabola evangelica di Matteo (appunto la parabola dei talenti) che di certo è responsabile del significato (più o meno preciso) che oggi attribuiamo a quella parola. Ai talenti accertati, a quelli che aspirano ad esserlo, a quelli rassegnati a non esserlo e soprattutto  a quelli che di talenti vanno a caccia potrebbe essere utile ricordare, nel caso  non lo sapessero, cosa capita nella parabola di Matteo.

Un signore, prima di partire, chiamò i suoi tre servi e consegnò loro i suoi beni, secondo le loro capacità. A uno diede 5 talenti, a un altro 2 e all’ultimo 1. I primi due trovarono il modo di far fruttare quanto ricevettero raddoppiandone il valore. Il terzo, invece, fece una buca nel terreno e vi nascose il talento che gli era stato assegnato. Quando l’uomo tornò, i primi due lo informarono di come avessero capitalizzato i suoi talenti e il signore li premiò. Il terzo, invece, che non portò al padrone nulla di più di quello che da lui aveva ricevuto,  venne duramente biasimato.Secondo  una delle versioni della parabola, il padrone disse “Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti.  Perché a chiunque ha sarà  dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.  E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.”

Un signore così spietato, che secondo altre versioni lamenta anche il fatto di non avere ricevuto interessi sul suo capitale, non sembra di certo un modello di cristianesimo. In realtà una  diversa interpretazione è che il padrone si sia irritato per l’idea che il terzo servo mostrò di avere di lui,  quella di un uomo duro e ingiusto,  e punendolo volle punire anche la mancanza di fiducia.

Staccandosi da questa parabola la parola “talento” ha assunto il significato che conosciamo, un significato –  in verità – ambiguo quanto lo è la parabola di Matteo: il talento è il dono (generoso) che riceviamo o l’abilità (tutta nostra) di valorizzare ciò che abbiamo? Chissà se questa ambiguità sarebbe sorta se  nella buca fossero finiti i 5 talenti del primo servo invece che il misero unico talento del terzo. Ma è andata  così e il talento è l’una e l’altra cosa e  premiarlo, senza distinguere tra di esse, crea problemi, almeno a quanti vorrebbero una società capace, appunto, di distinguere i doni dai meriti individuali e che rischiano di essere un gruppo sempre più esiguo, una sorta di nostalgica minoranza.

Il talento – inteso non come specifiche capacità ma proprio come individuo – è oggetto di una caccia sempre più serrata e sempre più precoce. Ciò di cui si va a caccia è, per dirla in  breve, un individuo che si ritiene abbia un’elevata probabilità di successo (o almeno così si dichiara) negli ambiti in cui operano i vari cacciatori. Che quella elevata probabilità dipenda dal dono o dai meriti conta davvero poco, anzi niente. Né è al di sopra di ogni dubbio il criterio in base al quale si stabilisce che quella probabilità è elevata.

Facciamo qualche esempio.  Le scuole – intendo le scuole medie, non le università – sembrano in numero crescente orientate a andare la caccia ai talenti in un’area nella quale sembrava impensabile che tale caccia potesse essere praticata: quella dell’età in cui la diversità originaria di doni (naturalmente collegata anche  alla situazione familiare) non ha ancora potuto essere compensata dalle differenze di merito. Dunque, di fatto si va alla ricerca di chi ha ricevuto più doni e questo dovrebbe non piacere a chi abbia il dono di capire che la giustizia sociale non si realizza  così. Certamente una società deve assegnare i compiti più “alti” ai più bravi e deve anche (con giudizio) remunerarli di più, ma discriminare precocemente chi ha ricevuto meno doni e necessita di più tempo per costruire la propria bravura appare decisamente inaccettabile.

Non molto tempo fa le cronache hanno riportato la notizia che una scuola di calcio aveva comunicato direttamente al bambino, con tanto di lettera formale, che non c’era più spazio per lui e doveva rinunciare, almeno in quella scuola, a giocare a pallone.  Si disse che il problema era l’eccesso di iscrizioni; sarà certamente vero, ma sarà anche vero che  quel bambino è stato sacrificato a qualche presunto talento. Naturalmente la scuola, se privata e orientata a “produrre” calciatori da piazzare sul mercato, ha diritto di selezionare chi vuole, ma una società giusta dovrebbe trovare il modo per evitare ai bambini questa forma di violenza (che è particolarmente maligna se si tratta di espellere chi è già dentro e non semplicemente di non selezionare chi è fuori). I modi per farlo non mancano e non mi soffermo su questo.

Se esiste la caccia al talento vuol dire che esiste un incentivo a coltivare questa pratica. Non è difficile immaginare quale possa essere questo incentivo nei casi ricordati: accrescere la propria reputazione di scuola “eccellente” (ed ecco un altro termine che meriterebbe un esame) o, se questo è possibile, fare profitti piazzando al termine del percorso formativo i talenti (che però dovevano essere almeno un po’ già tali prima di entrare nella scuola) sul mercato –  un mercato che paga sempre di più i talenti, anche se talvolta viene il dubbio che tra i talenti vi sia qualcuno che è tale solo perché viene pagato di più.

Ma la caccia ai talenti deve avere anche altre motivazioni, talvolta difficili da individuare. In difficoltà di questo tipo mi sono imbattuto proprio recentissimamente leggendo una notizia che è, in fondo, la ragione di questo Contrappunto. La notizia riguarda ciò che il governo si proporrebbe di fare con quello che già viene chiamato (anche la fantasia semantica richiede talento!)  “student act”.  Si programmerebbe, infatti, un intervento diretto a individuare 500 studenti meritevoli (cioè di talento) a cui pagare, indipendentemente dalle condizioni economiche della famiglia, gli studi e a cui offrire l’accesso a canali formativi privilegiati. Dalle confuse notizie disponibili al momento in cui scrivo, non è possibile desumere se il provvedimento riguarderà gli studenti già iscritti all’università o quelli delle scuole superiori, per aiutarli negli studi universitari. La differenza non sarebbe di poco conto, ma indipendentemente da essa urgono diverse domande. Alcune sono ovvie: come si accerta  che siamo in presenza di un talento, e chi lo accerta? Perché dare premi economici a chi non avrebbe difficoltà a finanziare i propri percorsi formativi riducendo la possibilità di aiutare  chi non riuscirebbe a finanziarsi e magari potrebbe poi rivelarsi, anche lui, un talento?

Altre domande forse sono meno ovvie. Ad esempio questa: perché dovrebbe essere compito del governo facilitare e incentivare la selezione dei talenti? Verrebbe da dire che il suo compito dovrebbe essere quello di ampliare il più possibile il bacino nel quale si formano i talenti, se vogliamo continuare a chiamarli così,  adottando misure che non penalizzino chi ha avuto meno doni e  lasciando ad altre istituzioni il compito di selezionarli.  Magari curando anche che gli incentivi dei selezionatori siano coerenti il più possibile con l’efficienza e l’equità piuttosto che con il vantaggio soltanto di alcuni, talenti o cacciatori di talenti. Se questo non accade di certo un motivo ci sarà. Sarebbe utile conoscerlo e, soprattutto, farsi spiegare perché quel motivo sarebbe da preferire a quello che sostiene la diversa scelta che ho appena richiamato.

Sappiamo che misure come quella a cui sembra pensare il governo non faticheranno a trovare consenso. Spiacerebbe però se a manifestare quel consenso fossero  anche coloro che si schierano a favore dell’eguaglianza delle opportunità, degli uguali punti di partenza e lo fanno con particolare determinazione quando serve per  dire che la disuguaglianza nelle opportunità, non quella nei redditi e nelle ricchezze, è il vero problema.

Una volta Gore Vidal ebbe a dire che oggi non avere talento non basta più. Sì, sembra proprio che  per riprendere la marcia verso l’ancien regime occorra anche una speciale forma di leggerezza.

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