Il populismo tra malessere economico e disagio culturale

Debora Di Gioacchino, nel quarto articolo, si interroga sulle cause del populismo. Dopo avere ricordato le difficoltà a definire il fenomeno e la tesi secondo cui esso può essere sia di destra sia di sinistra, Di Gioacchino analizza un recente lavoro empirico la cui principale conclusione è che il populismo, contrariamente a una diffusa tesi, nasce più che dal disagio economico, dalla difesa di valori culturali che per molti sarebbero in pericolo. Di Gioacchino conclude interrogandosi su quali politiche possono fare fronte a questa causa di populismo.

Non passa giorno che non si faccia riferimento al populismo per spiegare fenomeni che sono molto diversi tra loro o per definire l’atteggiamento e le caratteristiche di partiti, movimenti e contesti politici anch’essi molto spesso profondamente diversi tra loro. In realtà, la questione di cosa sia e in cosa consista effettivamente il populismo è aperta, anzi apertissima.

Gli elementi a cui si fa più frequentemente riferimento per caratterizzarlo sembrano essere il sentimento anti-establishment, l’autoritarismo e il nazionalismo. La filosofia populista esalterebbe le virtù della “gente comune” in opposizione alle élite (in cui rientrano non solo i politici, ma anche i rappresentanti dei poteri economici e finanziari e gli intellettuali) viste come corrotte e disoneste.

Il popolo è concepito come un’entità collettiva caratterizzata da condizioni comuni o da un condiviso sistema di valori. Gli interessi del popolo (“noi”) si contrappongono a quelli degli altri (“loro”) esasperando il conflitto e banalizzando la molteplicità degli interessi in conflitto. Per le sue composite caratteristiche a molti il populismo appare non riconducibile alla distinzione tra destra e sinistra ed è considerato compatibile con entrambe. Cruciale è, al riguardo, l’elemento di volta in volta considerato unificante: se è l’identità culturale, etnica e religiosa, allora il populismo sarà “di destra” e prenderà forme razziste e nazionaliste; se invece è la condizione economica dei meno abbienti, allora il populismo sarà solidaristico e “di sinistra”.

Più precisamente, secondo alcuni (ad esempio N. Urbinati “Il populismo come confine estremo della democrazia rappresentativa. Risposta a McCormick e a Del Savio e Mameli”, MicroMega, 2014) il populismo rappresenta una modalità di opposizione alla democrazia rappresentativa che auspica una gestione diretta del governo da parte del popolo, anziché in nome del popolo ed è intollerante rispetto alle “lentezze” derivanti dalla separazione dei poteri e ai “controlli e contrappesi” istituzionali. Secondo altri, (McCormick, “Sulla distinzione fra democrazia e populismo”, MicroMega 2014; Del Savio e Mameli , “Il populismo è democratico: Machiavelli e gli appetiti delle élite”, MicroMega 2014) il populismo sarebbe, invece, una reazione disperata, necessaria per rendere gli attuali sistemi elettorali rappresentativi più genuinamente democratici.

In questa lettura – che rimanda anche ai Discorsi di Machiavelli – il populismo sarebbe quindi la reazione del popolo contro le ristrette oligarchie che controllano in maniera diretta il potere economico, finanziario e politico e i cui interessi sono molto spesso lontani da quelli della stragrande maggioranza della popolazione.

Le diverse concezioni del populismo nascono, dunque, anche dalle differenze nell’individuazione delle sue cause di fondo. Secondo l’opinione prevalente alla radice del populismo vi sono le difficoltà economiche di strati sempre più ampi della popolazione (il cosiddetto declino delle classi medie, in particolare). Secondo un’altra opinione, invece, il fenomeno avrebbe cause di carattere culturale. Più precisamente, si tratterebbe di una reazione diretta a difendere e riaffermare valori messi in pericolo dall’evoluzione delle politiche e della società.

Questa contrapposizione tra cause economiche e culturali nella spiegazione di comportamenti collettivi e di rilevanti scelte di policy non è nuova. Ad essa ha, ad esempio, fatto riferimento molti anni fa J.E. Roemer (“Why the poor do not expropriate the rich: an old argument in new garb”, Journal of Public Economics, 1998) per spiegare “perché i poveri non espropriano i ricchi”. Il motivo sarebbe legato all’attenzione riservata alla dimensione valoriale nella competizione elettorale che distoglierebbe l’attenzione dal conflitto economico.

Per iniziare a fare un po’ di chiarezza in tutta questa complessa materia è molto utile un recente lavoro di R.F. Inglehart e P. Norris (“Trump, Brexit, and the Rise of Populism: Economic Have-Nots and Cultural Backlash”, HKS Faculty Research Working Paper Series n. 16-026 2016). L’analisi di Inglehart e Norris fornisce spunti interessanti per ragionare sul populismo e sul suo diffondersi in Europa e nel mondo; in particolare, esso ha il pregio di discutere teoricamente e documentare empiricamente l’esistenza di varie forme di populismo e di indagare le cause che portano gli individui a dare sostegno politico a partiti populisti.

A proposito della natura del populismo, Inglehart e Norris argomentano – in linea con le opinioni già richiamate – che il populismo non è un’esclusiva dei movimenti e partiti di destra, piuttosto sarebbe una dimensione ortogonale a quella tradizionale destra/sinistra. Nella loro concezione, la dimensione “orizzontale” destra/sinistra si riferisce prevalentemente all’aspetto economico e, in definitiva, alla contrapposizione Stato/mercato. Nella dimensione “verticale” all’estremo opposto del populismo, gli autori collocano quello che chiamano il “cosmopolitismo liberale”, caratterizzato dai valori propri di una democrazia pluralista cosmopolita (multilateralismo, multiculturalismo) e liberale (rispetto delle differenze e dei diritti delle minoranze, rifiuto dell’autoritarismo e separazione dei poteri).

Seguendo questa classificazione, si possono individuare quattro tipologie di partiti (destra-populista, destra-cosmopolita, sinistra-populista e sinistra-cosmopolita). Avvalendosi del parere degli esperti, desunto dalla Chapel Hill Expert Survey (2014), gli autori identificano la posizione di 268 partiti politici in 31 paesi europei e, sulla base di questa classificazione, mostrano che negli ultimi decenni, nelle società occidentali, il supporto politico ai partiti populisti, di destra o di sinistra, è aumentato. Questa tendenza può essere considerata il risultato di una interazione tra la domanda che viene dagli elettori, l’offerta da parte dei partiti e le regole istituzionali che governano il “gioco” politico.

Con riferimento alla contrapposizione tra spiegazione economica e culturale, nella ricerca delle cause del populismo dal lato dell’offerta Inglehart e Norris analizzano i programmi elettorali dei partiti politici europei. Da tale analisi emergerebbe una crescente enfasi su argomenti non direttamente economici quali l’immigrazione, il terrorismo, le unioni civili, l’aborto, i diritti etc. La dimensione culturale sembra dunque essere diventata maggiormente importante nei programmi dei partiti, probabilmente per effetto di una crescente polarizzazione nella società determinata dai valori, che si sovrappone a quella derivante dalle classi sociali, dalle disuguaglianze economiche e dalle politiche redistributive.

Dal lato della domanda, le cause prese in considerazione sono – di nuovo – quella economica e quella culturale che, per la verità, non sono necessariamente concorrenti e, anzi, potrebbero essere complementari nella spiegazione del fenomeno. Nella spiegazione economica, come si è già detto, la domanda di populismo riflette l’aumento di insicurezza economica derivante dalle crescenti disuguaglianze nelle società post-industriali e dalla incapacità dei partiti di sinistra ad elaborare risposte adeguate. Nella spiegazione culturale la domanda di populismo nasce come reazione culturale al diffondersi di atteggiamenti progressisti favorevoli ai diritti sociali (i diritti delle donne, dei gay, delle minoranze, degli immigrati e delle generazioni future). Secondo questa interpretazione, la domanda di populismo viene da coloro che si sentono minacciati dall’erosione dei “valori tradizionali”.

Secondo gli autori, dall’analisi comparata delle capacità esplicative dei due “modelli”, emergerebbe che la tesi della reazione culturale contro il cambiamento dei valori sociali è maggiormente in grado di spiegare la domanda di populismo. Infatti, l’esame delle preferenze di voto contenute nella European Social Survey (2002-2014) suggerisce che nonostante la disoccupazione sia il principale fattore socio-economico correlato al supporto politico a partiti populisti, alcuni fattori socio-demografici quali età, genere, istruzione e religiosità, in combinazione con valori culturali quali un atteggiamento ostile verso l’immigrazione, la sfiducia nei governi, l’ autoritarismo etc. sembrano in grado di spiegare meglio il supporto ai partiti populisti.

Questo risultato merita ulteriori approfondimenti anche per individuare le ragioni per le quali molti individui (soprattutto uomini, anziani, persone meno istruite e più religiose) si sentono minacciati dai valori progressisti e, per difendersi, si rifugiano nel populismo.

In ogni caso, la rilevanza che i valori sembrano avere nella spiegazione del fenomeno pone diverse questioni rilevanti, una delle quali riguarda direttamente le politiche da adottare. Se il populismo avesse cause soltanto economiche la risposta sarebbe chiara ed è quella invocata di frequente e con grande forza: ridurre le disuguaglianze economiche e politiche, combattere la povertà e assicurare alle generazioni successive un benessere non inferiore a quello delle precedenti. Si tratta di ricette non prive di ostacoli ma sufficientemente chiare e che comunque andrebbero applicate indipendentemente dai loro effetti sul populismo.

Non altrettanto può dirsi per le cause culturali del populismo. Come si può correggere, in un regime democratico, la tendenza ad affermarsi di valori culturali favorevoli al populismo? Viene in mente l’educazione che dovrebbe riguardare soprattutto le generazioni più giovani. Ma il successo di un progetto educativo di questo tipo è tutto da dimostrare e, d’altro canto, è forte il dubbio che potrebbe non essere sufficiente.

In conclusione, se le cose stanno come sostengono Inglehart e Norris vi è materia su cui riflettere a fondo per difendere il futuro della democrazia.

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