Il Partito nella Rete. Prove tecniche di connessione alla partecipazione pulviscolare

Cristopher Cepernich si chiede come Internet stia trasformando le organizzazioni politiche e le forme di partecipazione e sottolinea che la Network Society da un lato obbliga i partiti a ripensarsi in termini di re-intermediazione nelle relazioni con i cittadini e a rinunciare al monopolio della politica istituzionale e, dall’altro, lungi dall’essere la causa della crisi dei partiti, offre a questi ultimi la possibilità di uscire dal loro attuale stato di debolezza, come mostrano varie esperienze, a iniziare da quella di Obama nelle elezioni del 2008

Nel dibattito politologico sulla crisi dei partiti si tende a trascurare l’impatto del web e, più in generale, della digitalizzazione che invece hanno trasformato radicalmente le organizzazioni e le relazioni sociali e politiche. Il fraintendimento di fondo è che Internet sia un semplice medium al pari della tv, della stampa e della radio e così se ne circoscrivono maldestramente le implicazioni al campo esclusivo della comunicazione politica.

Quando Bernard Manin sosteneva – e altri dopo di lui, anche tra i partecipanti al dibattito sulla crisi dei partiti – che la mediatizzazione avrebbe prodotto una nuova élite di esperti comunicatori, i quali avrebbero sostituito l’attivista politico e il burocrate di partito, faceva riferimento ad una fase dello sviluppo dei sistemi politici e delle relazioni media-politica che non è quella attuale. La democrazia del pubblico come il governo dell’esperto dei media era da intendersi come il prodotto della mediatizzazione avanzata.

Il fatto nuovo è l’affermazione dei social network (come Facebook e Twitter) i quali prefigurano l’apertura di una fase successiva a quella della mediatizzazione e della democrazia del pubblico. Ma quale “pubblico”, al tempo di Internet? Quel sostantivo declinato al singolare spiazza come un video fuori sincrono. Il crollo degli ascolti dei talk show di informazione politica in tv è l’indicatore più chiaro della crisi del paradigma della mediatizzazione; le miriadi di micro-comunità interpretative che producono, diffondono e costruiscono senso nell’ambiente web, che praticano l’attivismo da tastiera e inventano forme creative di partecipazione offline, lo sono di una fase diversa, già oltre lo statu nascendi: quella, appunto, delle reti sociali e del digitale,  che, con Andrew Chadwick (autore dell’influente The Hybrid Media System: Politics and Power, 2013), chiamiamo degli ecosistemi mediali ibridi e – per estensione – con Ilvo Diamanti, della democrazia ibrida.

Il punto chiave, in questa prospettiva, è che nel breve periodo Internet ha prodotto i suoi effetti più rilevanti non già sul piano comunicativo, bensì su quello organizzativo. L’indiscutibile centralità assunta oggi dalla Rete ha significato, soprattutto nel campo politico, forme nuove di organizzazione, di mobilitazione, di partecipazione e quindi di azione collettiva. Dunque l’inedito scenario della disintermediazione delle relazioni tra partiti e cittadini obbliga i primi a ripensare la loro struttura e le loro funzioni. Magari anche a rispolverarne di vecchie e trascurate, come quella della socializzazione politica. Li obbliga a fare i conti con la progettazione della re-intermediazione di quelle relazioni. È plausibile ipotizzare che le condizioni di ibridazione mediale e politica non siano tanto una causa della crisi dei partiti che, se mai esistesse come tale, avrebbe origini più profonde, quanto piuttosto un’opportunità per andare oltre. Esse sarebbero, semmai, il prerequisito funzionale di una prevedibile evoluzione.

Nella Network Society, infatti, i partiti non sono più l’attore monopolista della politica istituzionalizzata. Il web, in tutte le sue evoluzioni tecnologiche, connette e attiva oggi intorno ai partiti reti sociali che la struttura classica del partito non riuscirebbe ad intercettare e mobilitare. Ancora Andrew Chadwick, in un saggio lungimirante pubblicato nel 2007 su “Political Communication”, rimarcava questo punto: all’interno degli ecosistemi ibridi i repertori dell’azione collettiva tipici di attori politici diversi (partiti, gruppi di interesse, movimenti sociali) si integrano e ridefiniscono forme tutte nuove di organizzazione e partecipazione politica. Il processo si è manifestato prima e con maggiore evidenza negli Stati Uniti, ma in seguito lo si è osservato in tutti i contesti democratici a mediatizzazione avanzata.

Lo spartiacque, come è noto, è segnato dalla campagna elettorale di Barack Obama per le Presidenziali 2008. Qui “campagna digitale” ha significato un cambio di paradigma: la strategia di campagna non è incentrata sul candidato, bensì intorno al candidato. Come sui social network, al centro c’è l’utente. Infatti un social network, My.BarackObama.com, è stato lo strumento che ha consentito di mobilitare 15 milioni di attivisti da tutte le parti del mondo, di strutturare 15.000 gruppi di azione locali attivi sul territorio e di realizzare oltre 200.000 eventi. Di bussare a milioni di porte per incontri faccia-a-faccia. La piattaforma, creata dall’allora ventiquattrenne Chris Hughes, già tra i fondatori di Facebook, ha costituito l’infrastruttura organizzativa di una campagna elettorale fondata sulla auto-organizzazione e sulla partecipazione attiva offline dei sostenitori democratici. Mike Moffo, Deputy National Field Director della campagna Obama 2008, con il quale abbiamo organizzato cicli di conferenze in Italia negli ultimi mesi, ha ribadito il valore di quella storica campagna: i media restano il più potente veicolo di comunicazione elettorale; il web, che non è un medium, è il più potente strumento per l’organizzazione dell’azione offline. Il modello di campaining introdotto da Obama, fondato sulla mobilitazione porta-a-porta organizzata attraverso il networking, ha peraltro registrato casi di successo anche nel contesto europeo: Guillaume Liégey, Arthur Muller e Vincent Pons raccontano nel bel volume Porte à porte. Reconquérir la démocratie sur le terrain le loro 5 milioni di porte in 4 mesi per la campagna di François Hollande alle Presidenziali francesi del 2012. Lo stesso modello, con gli aggiustamenti del caso, è stato adottato dal Labour Party per le elezioni generali del maggio prossimo nel Regno Unito.

L’esperienza di Obama nel 2008 e quelle che l’hanno seguita dimostrano, dunque, che i network non sviliscono né limitano le forme tradizionali dell’organizzazione politica. Al contrario, possono essere uno straordinario fattore di empowerment. Ciò non accade  solo nel contesto, evidentemente peculiare, di una campagna elettorale. La principale preoccupazione posta da Obama nell’immediato dopo elezione, infatti, è stata come sfruttare quell’immenso capitale relazionale accumulato con il campaigning per supportare l’azione di governo,  specie intorno a issue critiche e controverse  come la riforma del sistema sanitario. Nasce con questo obiettivo la community Organizing for America (OfA). Pur volendo evitare giudizi tranchant, l’opinione diffusa è che la sfida della presidenza digitale sia stata vinta solo a metà. D’altra parte, è certo più facile accendere entusiasmi nel contesto drammatizzante ed effervescente di una campagna elettorale che nella fase oscura del processo decisionale.

La questione centrale, però, è quale tipo di relazione questi network, che sono organizzazioni senza struttura, debbano e possano stabilire con gli attori strutturati che agiscono all’interno del quadro politico: fatalmente il partito e il leader. La questione non è di semplice soluzione, se è vero che OfA, nata nel 2009 come un progetto del National Committee dei Democratici, è stata rifondata dopo la rielezione di Obama nel 2012 con la denominazione di Organizing for Action a supporto diretto del Presidente. Memorialistica per appassionati, cronache giornalistiche e ricche rassegne scientifiche hanno testimoniato e spiegato l’integrazione mancata tra OfA e Partito Democratico, che sono rimaste entità a compartimenti stagni, differenti e diffidenti l’una nei riguardi dell’altra. Ad oggi, stante il riconoscimento del valore aggiunto che i network senza struttura indubitabilmente portano all’azione dei partiti, più o meno deboli a seconda del contesto considerato, non pare siano disponibili soluzioni codificate per garantire equilibri tra le parti, né negli stati Uniti, né altrove. Il Tea Party sembra mostrare, da questo punto di vista, un ulteriore progresso nella strutturazione delle relazioni con i Repubblicani, ma per giudizi ragionati è più prudente aspettare anche per questo la prova del governo.

In Italia sono emerse due esperienze significative nate sulla scia del modello Obama per mobilitare e attivare partecipazione politica per ma fuori dal partito. La prima è stata la Fabbrica di Nichi, ideata da Vendola in occasione della campagna 2010 per la rielezione a Presidente della Regione Puglia, ma incagliatasi ancora alla prova fatale del governo. Oggi invece il caso più caldo è quello della Leopolda di Matteo Renzi. La geografia delle criticità emerge qui con chiarezza altrettanto esemplare che nei casi precedenti: da un lato, il network contribuisce al rafforzamento della leadership, che inevitabilmente contribuisce al rafforzamento del partito; dall’altro, il partito riceve quello come un corpo estraneo; pertanto o se ne isola, o lo rigetta apertamente, relegandolo ad attributo esclusivo personale del leader.

A dispetto delle tentazioni, sarebbe fuorviante, però, a questo punto, ricondurre la questione al solito dibattito sui pro e sui contro della leaderizzazione dei partiti o., peggio, sulla degenerazione patologica rappresentata dal partito personale, sia quello aziendalistico alla Berlusconi sia quello del centralismo tecnologico di ispirazione leninista di Grillo e Casaleggio. L’argomento che qui si intende sostenere è che i partiti, in virtù della loro indispensabilità, ma anche di una incrinata centralità nei riguardi del leader, dovranno – se non altro per convenienza – sviluppare modalità di connessione con le molteplici forme inedite di organizzazione della partecipazione, senza pretendere di volerle controllare direttamente, negandone così la stessa ragione di esistere. In questo quadro, un partito che sappia connettersi e fare comunità con forme di partecipazione non organizzata alternativa a quella tradizionale (la militanza) costituirebbe il più naturale contrappeso alla figura del leader monarca. Fatto salvo che la rilevanza del leader, in tempi di mediatizzazione avanzata, resta comunque una scorciatoia cognitiva non rinunciabile. Nei Paesi anglosassoni, peraltro, i partiti agiscono all’interno delle traiettorie innovative qui richiamate senza per questo consumare psicodrammi che evochino scenari catastrofici sulla fine della politica.

In conclusione, nella Società delle Reti discutere il presente ed il futuro dei partiti, avendo ad oggetto eminentemente i partiti stessi, rischia di limitare il dibattito e di riprodurlo secondo modalità autoreferenziali. Appare come un inganno prospettico, dunque, l’arrovellarsi intorno allo stato solido o liquido della materia-partito. La realtà impone piuttosto di sollevare lo sguardo dall’oggetto in sé e allargare i confini della riflessione al vasto arcipelago delle forme di organizzazione politica non strutturate che la Società delle Reti ha già prodotto. La sfida contemporanea alla quale i partiti non possono sottrarsi è su come relazionarsi con esse, ma soprattutto sulla qualità delle relazioni che sapranno instaurare.

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