Il nuovo Titolo V della Costituzione nelle intenzioni del riformatore

Giorgia Crisafi analizza le modifiche che la Riforma costituzionale apporterebbe al Titolo V della Costituzione se il referendum del 4 dicembre avesse esito positivo. Crisafi sintetizza le principali novità della corrente revisione, dalla soppressione delle Province alla ri-centralizzazione del potere legislativo, dai nuovi principi in materia di autonomia finanziaria degli enti locali alla previsione, infine, di meccanismi sanzionatori degli organi di governo regionali e locali in caso di grave dissesto finanziario dell’ente.

Come è noto, la legge di riforma costituzionale approvata in seconda lettura e in attesa di referendum, prevede modifiche, tra le altre, al Titolo V della Costituzione. Con questa scheda si mira ad evidenziare le più rilevanti novità che la revisione apporterebbe all’impianto costituzionale delle autonomie, qualora la consultazione popolare prevista per il prossimo 4 dicembre dovesse avere esito positivo.

Il primo effetto della corrente riforma del Titolo V sembrerebbe essere la “soppressione” delle Province, dal momento che il modificato testo dell’art. 114 riporta la cassazione del riferimento testuale a tale ente. A tale proposito si ritiene che qualora la revisione dovesse superare il vaglio popolare, le Province verrebbero meramente “decostituzionalizzate” (A. Lucarelli, Le autonomie locali e la riforma Renzi-Boschi: effetti immediati, in Federalismi.it, 4/2016, 1) e non si produrrebbe effettivamente la loro totale eliminazione dall’ordinamento giuridico. Ciò a ben vedere dipenderebbe da una essenziale ragione di ordine sistematico, infatti, ai sensi della l. n. 56/2014 (Legge Delrio) le Città Metropolitane, definite “enti territoriali di area vasta”, dovrebbero costituire gli enti intermedi tra Comune e Regione, di fatto sostituendosi alle Province, per le città di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. Ma Quid iuris per gli altri Comuni non rientranti nella cosiddetta area vasta metropolitana? Per essi, presumibilmente, al soppresso ente Provincia si dovrebbe “sostituire un ente nuovo, anch’esso però intermedio tra il livello comunale e quello regionale, cui affidare i compiti amministrativi che i Comuni non possano svolgere direttamente in modo adeguato” (E. Rossi, Una Costituzione migliore?, Pisa University Press, 2016, 190).

La riforma, poi, diversamente dall’iniziale intenzione del Governo promotore, manterrebbe ferma la distinzione tra Regioni ordinarie e Regioni a statuto speciale. In tale direzione, verrebbe conservata la possibilità di ampliare le forme di autonomia delle Regioni a statuto ordinario, con qualche variazione rispetto al modello oggi vigente. Le modifiche all’art. 116, c.3, riguardano essenzialmente due aspetti.

In primo luogo, sembra ampliato lo spettro delle materie per le quali potrebbe realizzarsi l’estensione delle forme di autonomia. Infatti, alle materie già attualmente attribuite alle Regioni a statuto speciale ricomprese nell’elenco di cui al c.3 dell’art. 116 verrebbero aggiunte: le politiche sociali, le politiche attive del lavoro, l’istruzione e la formazione professionale, la tutela e la valorizzazione dei beni paesaggistici, le attività culturali e il turismo.

In secondo luogo, ferma la procedura da seguire per l’attribuzione di tali forme aggiuntive di autonomia (intesa tra lo Stato e la Regione interessata; legge dello Stato), la riforma introdurrebbe, quale condizione perché si possa procedere all’accrescimento della sfera di autonomia, che la Regione interessata sia “in condizioni di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”.

Nell’insieme, se si ha riguardo all’art. 117, ed in particolare al 2 comma, emerge in modo evidente l’intento “neocentralista” della riforma.

Come è noto, l’attuale modello di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, frutto delle scelte riformiste di decentramento del 2001, prevede l’attribuzione di materie “nominate” alla competenza esclusiva statale (dell’art. 117, c.2, Cost.), un elenco di materie di legislazione concorrente (dell’art. 117, c.3, Cost.) e una competenza regionale residuale (dell’art. 117, c.4, Cost.), comprensiva di tutte le materie non espressamente previste nei commi precedenti.

Per contro, la riforma corrente si caratterizza per un sensibile incremento dell’elenco di materie attribuite alla competenza esclusiva del legislatore statale, con una allocazione presso i centri decisionali centrali della stragrande maggioranza degli ambiti materiali. La ratio ispiratrice di tale operazione di ri-centralizzazione, sarebbe quella di ridurre il contenzioso tra Stato e Regioni innanzi alla Corte costituzionale, che avrebbe come conseguenza anche la soppressione della categoria delle materie di competenza concorrente, con l’abrogazione dell’art. 117, c.3. Unico temperamento parrebbe essere costituito dalle formule che circoscriverebbero la competenza statale alle “disposizioni generali e comuni”. Formule, queste, che verosimilmente riproporrebbero “sul piano interpretativo quanto già reso problematico dall’endiadi «principi fondamentali e norme di dettaglio» che ha caratterizzato la stagione giurisprudenziale sulla potestà concorrente” (S. Lieto, Rilievi sulla ripartizione della potestà legislativa nella revisione costituzionale in itinere, in Federalismi.it, 5/2016, 5).

Per quel che concerne gli ambiti di competenza regionale, la legge di riforma prevede un elenco di materie e, in chiusura, una clausola “residuale” che attribuirebbe alle regioni “ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato”. Proprio in considerazione dell’inserimento di tale clausola, si ritiene che l’elenco precedente dovrebbe “ritenersi meramente esemplificativo” e che “nella remota ipotesi di una materia non rientrante né nell’elenco di cui al primo comma né in quello contenuto nel terzo, essa debba considerarsi attribuita alla potestà legislativa regionale” (E. Rossi, cit., 182).

Con riguardo all’elenco di materie attribuite alla competenza legislativa regionale può osservarsi che se, da un lato, esso si presenta abbastanza esteso, dall’altro, l’applicazione di alcune di tali previsioni risulta assai arduo. Basti pensare alla potestà legislativa in materia di “rappresentanza delle minoranze linguistiche”, che sembra essere in aperto contrasto con la previsione di cui al riformato art. 70, ai sensi del quale “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le […] leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche”, o ancora alla potestà legislativa in materia di “promozione dello sviluppo economico locale” e di “organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese”, limitata all’ambito regionale, che “per non apparire inutile e tautologica” (E. Rossi, cit. 184), sembrerebbe presupporre una corrispondente competenza statale, invece inesistente nell’elenco di cui al riformando c. 2 dello stesso articolo 117.

La riforma introdurrebbe, inoltre, una “clausola di salvaguardia”, per la quale “su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Si noti che il riferimento all’interesse nazionale potrebbe apparire come una riproposizione della clausola di cui all’art. 117, c.1, precedente alla riforma del Titolo V del 2001, che recitava: “la Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni”. Tuttavia la previsione di cui all’attuale riforma sembrerebbe discostarsi dalla Carta del 1947, dal momento che nell’originaria previsione “l’interesse nazionale operava come limite (di merito) della legislazione regionale, mentre con la nuova formulazione il principio di unità giuridica o economica e l’interesse nazionale operano come base giuridica per l’intervento legislativo dello Stato in un campo materiale in via di principio affidato alla regione e in genere contraddistinto positivamente dall’interesse regionale o locale” (S. Mangiameli, Il Titolo V della Costituzione alla luce della giurisprudenza costituzionale e delle prospettive di riforma, in Rivista AIC, 2/2016, 35).

In conseguenza di tale nuova ripartizione del potere legislativo, verrebbe modificata la potestà regolamentare, nel senso che questa spetterebbe  “allo Stato e alle Regioni secondo le rispettive competenze legislative”. Sarebbe in ogni caso salva, come già prevede il testo vigente, “la facoltà dello Stato di delegare alle Regioni l’esercizio di tale potestà nelle materie di competenza legislativa esclusiva”. Inoltre i Comuni e le Città metropolitane manterrebbero potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, nel rispetto, però si precisa, “della legge statale o regionale”.

Per quel che concerne, invece, le risorse finanziarie degli enti locali, il riformulato art. 119 prevede che le risorse autonome degli enti locali e territoriali, ovvero tributi ed entrate proprie, vengano stabilite e applicate non solo in armonia con la Costituzione, così confermando la previsione attuale, ma, altresì, secondo quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, laddove, invece, il testo attualmente vigente impone di seguire genericamente i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

Inoltre sono introdotti i concetti di costo e di fabbisogno standard quali indicatori di riferimento per il finanziamento efficiente delle pubbliche funzioni.

Infine, è riformulato il potere sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni e delle autonomie locali, di cui all’art. 120. In particolare, lo Stato potrebbe sostituirsi non più soltanto agli organi delle Regioni, delle Città metropolitane e dei Comuni, ma anche agli organi delle Province autonome di Trento e Bolzano. Da un punto di vista procedimentale, il Governo potrebbe esercitare tale potere esclusivamente una volta acquisito il parere del Senato, obbligatorio ma non anche vincolante (come ritiene E. Rossi, cit., 197), da rendersi entro quindici giorni dalla richiesta. Inoltre, la legge dovrebbe stabilire i casi “di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dall’esercizio delle rispettive funzioni quando è stato accertato lo stato di grave dissesto finanziario dell’ente”, con ciò, sembrerebbe, “costituzionalizzando” l’istituto del c.d. “fallimento politico”, attualmente previsto a livello di legislazione ordinaria dal d.lgs n. 149/2011.

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