Il futuro del lavoro ai tempi del determinismo tecnologico

Ersilia Vaudo Scarpetta e Davide Giardino presentano un resoconto del Policy Forum sul Futuro del Lavoro organizzato dall'OCSE a Parigi il 14 gennaio. Ricordata la rilevanza del problema, gli autori presentano le principali tesi sull’impatto della digitalizzazione sul lavoro e sottolineano che, sebbene il dibattito non sia nuovo, il Forum ha messo in luce le maggiori criticità del rapporto tra lavoro e digitalizzazione e ha tracciato una prospettiva, nella quale è cruciale la capacità delle istituzioni di preparare il lavoratore del futuro al lavoro che verrà.

Il futuro non è scritto nelle stelle, e servono politiche del mercato del lavoro a prova di futuro”. Così Angel Gurría, Segretario Generale dell’OCSE ha aperto il Policy Forum on the Future of Work, organizzato dall’OCSE a Parigi il 14 gennaio. L’incontro, che ha preceduto di un giorno la riunione ministeriale dell’OCSE sul lavoro e l’occupazione – alla quale hanno preso parte i ministri del lavoro di quarantacinque paesi – ha fatto registrare l’adesione di oltre quattrocento partecipanti, prevalentemente ministri, policy-makers, esperti e giornalisti specializzati.

Tale partecipazione non sorprende. Il tema del lavoro resta al cuore dei dibattiti politici. Se i valori assoluti confermano la persistenza del problema – in molti dei paesi OCSE le proiezioni sulla disoccupazione a fine 2017, sebbene in calo sono ancora ben superiori ai valori pre-crisi – sono i dati sulle giovani generazioni che amplificano la tensione. Qualunque sia la prospettiva scelta, i fatti sono allarmanti. La proporzione di giovani tra i 15 e i 29 anni che non ha un lavoro e non è in formazione – è del 16.5% (ed in Italia sale fino al 26.2%). E nel frattempo il mondo cambia. Nei prossimi dieci anni, secondo la Banca Mondiale, più di un miliardo di giovani si affaccerà sul mercato del lavoro e solo il 40% troverà lavoro su posti che esistono oggi.

Sono essenzialmente tre i fattori strutturali che stanno trasformando l’organizzazione del lavoro, ridisegnando le competenze necessarie: la globalizzazione, le dinamiche demografiche e i cambiamenti tecnologici. La digitalizzazione in particolare.

Quali saranno gli effetti dell’inarrestabile e travolgente impatto della rivoluzione digitale sul futuro del mondo del lavoro? E cosa dobbiamo aspettarci dalle nuove dinamiche sostenute dalla economia sociale (sharing economy), l’economia on-demand o gig economy e le piattaforme dedicate, in termini di occupazione e domanda di competenze?

Il dibattito non è nuovo e le opinioni si moltiplicano, oscillando tra predizioni catastrofiche e candido ottimismo. L’evento dell’OCSE ha avuto il merito di riuscire a mettere in luce le maggiori criticità del binomio lavoro e digitalizzazione soprattutto di aver tracciato una prospettiva: l’accelerazione nello sviluppo delle tecnologie digitali è certamente un problema serio, e con conseguenze inerentemente disruptive rispetto al mercato del lavoro che conosciamo, ma le opportunità di impiego che emergeranno bilanceranno un saldo che non sarà necessariamente negativo.

La quarta rivoluzione industriale, significa computer sempre più potenti, Big data, la penetrazione di Internet in tutti i settori dell’economia, intelligenza artificiale, the internet of things e le piattaforme di lavoro cooperativo. I tempi di questa rivoluzione, come sottolineano Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson, sono estremamente rapidi, a traiettoria esponenziale. Le nuove tecnologie incalzano, indifferenti allo stravolgimento che impongono alla composizione e dimensione dei posti di lavoro e agli effetti sulla manodopera, che non riesce a seguire con le sue dinamiche di aggiustamento decisamente più lente. Il risultato di queste diverse velocità è una proporzione sempre più alta di capitale umano che viene sostituito dalle macchine in tutte quelle attività che l’intelligenza artificiale permette di automatizzare. E, elemento nuovo, questa sostituzione ormai penetra anche nei posti di lavoro ad alto contenuto cognitivo, quindi tipicamente “umani”.

Quali sono gli effetti? Le proiezioni dell’impatto della quarta rivoluzione industriale sul mercato del lavoro e l’analisi delle conseguenze non trova gli economisti allineati. Catastrofiche sono le previsioni del Wef , cosi come gli scenari quelle di due economisti di Oxford, Frey and Osborne, che sostengono che gli Stati Uniti, nei prossimi ventanni, perderanno ill 47% dei posti di lavoro proprio a causa dell’automazione. Più cauto è il punto di vista di Enrico Moretti, che rispetto all’effetto distruttivo dell’arrivo dei robot, e in un certo senso dice, attenzione! per ogni posto di lavoro creato dall’industria hi-tech, ci sono cinque posti in più , di natura complementare, che si aggiungono nel settore dei servizi.

E l’OCSE come se lo immagina il futuro? Più o meno cosi. Le professioni esistenti si adatteranno gradualmente alla adozione di nuove tecnologie. L’organizzazione del lavoro diventerà più ”orizzontale” grazie alla flessibilità offerta da Internet. Ma il messaggio è semplice. La digitilazzazione non avrà necessariamente le conseguenze rovinose previste da McAfee e Brynjolfsson. Tuttavia, assisteremo inevitabilmente ad un cambiamento della struttura del mercato, che si tradurrà soprattutto in crescente diseguaglianza tra tipologie di lavoro, e quindi, inter alia, in termini di remunerazione, protezione sociale e prospettive di carriera.

Osserviamo da vicino gli effetti gia in corso. Nei paesi OCSE, durante il periodo 1995/98-2010, la domanda di lavoro per professioni a qualificazione “media”, caratterizzati da un certo livello di ripetitività, è diminuita del 19%. Al contrario, le professioni che richiedono grandi conoscenze tecniche e professionalità specifiche – competenze cosiddette “astratte”- sono aumentate di circa il 21%. Interessante è osservare che un aumento pur debole della domanda, circa il 7%, si è anche verificato per le attività manuali non ripetitive, quali per esempio quelle che caratterizzano l’artigianato.

Se si guarda all’Italia, sullo stesso periodo, mentre da un lato la diminuzione di domanda delle attività ripetitive è in linea con la media OCSE, l’aumento di domanda per le attività “astratte” a qualificazione elevata è stata impressionante, intorno al 35%, quasi il doppio dell’aumento registrato in Germania, più del triplo dell’aumento in Olanda, e comunque svettando anche su Spagna, Francia, Svezia e UK.

Il progresso tecnologico e i collegamenti della globalizzazione rimescolano di continuo le carte del futuro e i cambiamenti nella struttura occupazionale saranno radicali. L’analisi fatta dall’OCSE sulle tipologie di posti lavoro negli ultimi vent’anni mostra chiaramente questa netta polarizzazione della domanda per posizioni che richiedono forti competenze interpersonali e creative, rispetto ai lavori ripetitivi e poco immaginativi quali servizi legati all’alimentazione e alla sicurezza. Negli Stati uniti per esempio solo due attività non hanno subito l’impatto della tecnologia: i lavapiatti e gli assistenti ai lavori di cucina (anche se gli chefs robot sono certamente dietro l’angolo).

Globalmente, nei paesi OCSE, più della metà della popolazione adulta non ha le competenze necessarie per poter svolgere delle semplici attività di risoluzione di problemi in un ambiente a forte contenuto tecnologico.

Philippe Aghion, il primo ad intervenire nel dibattito del policy forum, osserva subito come “la rivoluzione digitale abbia aumentato la diseguaglianza tra lavoratori qualificati e non qualificati. Stanno sparendo i posti di lavoro con competenze medie”. Si chiede a questo punto come gestire questa situazione e rileva, quindi, che se da un lato “la digitalizzazione elimina alcuni posti di lavoro, d’altra parte crea maggiore informazione e crea nuovi posti di lavoro basati sulla reputazione individuale”. Stiamo assistendo, in definitiva, a un processo nel quale si distruggono vecchie categorie e se ne creano delle nuove. Tuttavia, questa “distruzione creativa”, come la definisce Aghion, ha bisogno di una policy ben definita alle spalle.

Particolarmente interessante l’intervento di Giuseppe Recchi, , Presidente di Telecom Italia,  sulle strategie messe in atto da Telecom per trasformare in opportunità l’effetto disruptive della digitalizzazione. I lavoratori le cui competenze diventano diciamo obsolete a causa dell’automazione, hanno la possibilità di utilizzare una parte del tempo del lavoro per acquisire nuove capacità. Allo stesso tempo, si è proceduto a far “rientrare” attività che nel passato erano state outsourced, ottimizzando così l’uso delle risorse umane.

La rivoluzione digitale sta anche cambiando, non solo il “cosa” ma anche il “come” si lavora. Si può godere di una più grande flessibilità e approfittare, in molti casi, dei vantaggi del telelavoro e di attività freelancing. Ed è proprio questo che ha permesso il fiorire dell’economia “gig”, “on-demand”, “sharing”, “peer-to-peer” o le piattaforme collaborative come Airbnb, Uber, BlaBla car e molte altre. Il problema è che, sebbene ancora su piccole scale, queste piattaforme sollevano questioni importanti quali per esempio i diritti del lavoro e l’ accesso alla protezione sociale e mettono in discussione alcuni dei principi fondamentali delle politiche del mercato del lavoro, quali i concetti di salario minimo, di orari di lavoro statutari, e sussidi di disoccupazione.

Questo aspetto del dibattito è emerso in tutta la sua estremizzazione nel confronto tra Philip Jennings, Presidente della federazione internazionale dei sindacati del settore servizi, e David Plouffe di UBER, quint’essenza della sharing economy. Il sindacalista, dopo aver costatato un livello d’insicurezza senza precedenti nel mondo del lavoro, ha sarcasticamente notato quanto i lavoratori siano diventati, ben più che flessibili, addirittura dei contorsionisti.

“C’è stato un ottimismo eccessivo nei confronti della digitalizzazione, ma ormai il treno è entrato nel tunnel!” ha constatato Jennings concedendosi poi un affondo verso David Plouffe – stratega di Uber, anche noto per aver gestito la campagna elettorale di Obama nel 2008, domandandogli: “che rapporto stabilite voi con i lavoratori? O meglio, esiste un qualche forma di rapporto?” Su questa provocazione David Plouffe, ha sottolineato l’inadeguatezza della domanda in quanto UBER non si considera un datore di lavoro, ma una piattaforma che offre la possibilità di guadagno “a la carte” e in piena autonomia – 40% degli impiegati Uber sono/erano disoccupati e considerano questa una opportunità complementare, transitoria, e non sostituiva alla ricerca di lavoro, in quanto legata al bisogno di denaro nell’immediato. Inutile dire che la risposta non ha certo convinto il sindacalista ne il suo timore di una spirale dell’abbandono e dell’irresponsabilità nei confronti dei lavoratori.

Il dilemma è concreto. Possono cavarsela Uber, Airbnb, etc..con la formula “non siamo datori di lavoro”? Se le nuove piattaforme dell’economia on-demand hanno avuto il merito di creare milioni di posti di lavoro, la frammentazione del mercato rischia di creare una situazione critica, trasferendo i rischi sociali sulle spalle dei lavoratori. “È importante definire uno standard minimo di protezione sociale che copra i lavoratori in caso di malattia o perdita di lavoro” spiega Stefano Scarpetta, direttore per l’occupazione, il lavoro e gli affari sociali dell’OCSE, “ma una parte del rischio deve essere assunta dalle piattaforme stesse”.

Un ulteriore elemento dell’equazione è capire come effettivamente si possa superare l’inceppamento nel funzionamento della cinghia di trasmissione fra il mondo dell’istruzione a quello del lavoro. È mai possibile – come ha sottolineato Recchi – che ci siano tantissimi giovani laureati in Italia senza lavoro e altrettanti posti vacanti su cui le imprese non trovano personale qualificato? Questo è uno dei passi cruciali.

Qualcosa nel meccanismo scuola-lavoro si è definitivamente rotto sotto il peso della digitalizzazione. Se si vuole che questa rivoluzione digitale del mondo del lavoro possa rappresentare una grande, anzi enorme, opportunità, i governi, dunque, le istituzioni dell’istruzione devono essere in grado di comprendere e accompagnare questo cambiamento trasmettendo ai futuri lavoratori le competenze che questo nuovo mercato richiede. In altre parole, occorre preparare i lavoratori ai mestieri del futuro. “Le macchine stanno mettendo a rischio un certo numero di professioni anche qualificate“ ha spiegato Scarpetta “ come per esempio quella dei traduttori. Ci sono però molte professioni ad alta intensità creativa e sociale, esposte a dinamiche complesse e aleatorie dove la domanda di lavoro resterà elevata”. Anche le capacità dell’artigiano e dell’artista sembrano per ora ancora a prova di robot. “non sappiamo con certezza quali saranno i mestieri del futuro ma sappiamo che gli STEM, scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, restano investimenti sicuri”.

Sembra chiaro, in definitiva, che questi mutamenti dei paradigmi del mercato del lavoro siano incisivi e richiedano il supporto delle istituzioni, a più riprese invocato da alcuni dei relatori. “Storicamente il progresso tecnologico”, ha osservato il Professor Noam della Columbia University, “ha portato esuberi nel breve periodo ma benefici nel lungo.”

I dubbi e le perplessità nei confronti di questo nuovo assetto del mercato del lavoro sembrano ragionevoli. Internet, in una certa misura, ha rappresentato nelle decadi precedenti una soluzione e non un problema. Adesso è parte del problema. “La perdita dei posti di lavoro è avvenuta nella parte intermedia della distribuzione tra le professioni con mansioni di routine più facilmente automatizzabili. È vero che ci sono nuove opportunità che la tecnologia ci conferisce, ma non tutti siamo Mark Zuckerberg” ha concluso Noam. Sembra che proprio il gradino più basso della scala e quello in mezzo stiano subendo in maniera più significativa i cambiamenti della digitalizzazione. Il lavoratore del futuro, animula vagula, se abbandonato a se stesso, rischia di essere tagliato fuori dai meccanismi inclusivi del mercato e utilizzare questo mondo digitalizzato in fieri come un palliativo. E nessuno vuole che questo accada.

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