Il Fiscal Compact: quando la tecnocrazia va contro la matematica

Civil Servant muove dalla considerazione che molto si è discusso della ragionevolezza e dell’accettabilità delle regole europee sui deficit e i debiti pubblici e ben poco della concreta possibilità che le connessioni esistenti tra gli obiettivi oggetto delle due regole impediscano di raggiungerli entrambi. Civil Servant sostiene, invece, che il debito dipende quasi meccanicamente dal deficit e, quindi, che per raggiungere entrambi gli obiettivi sono necessari ulteriori strumenti di politica economica

Semplificando al massimo, le famigerate regole fiscali europee prevedono che ogni anno il rapporto debito/ Pil diminuisca di un dato ammontare (precisamente, 1/20 della differenza tra quel rapporto e l’obiettivo finale del 60%) e che il deficit complessivo non superi il 3% del Pil. In realtà le regole sono infinitamente più complesse, perché tengono conto anche delle fasi cicliche e delle condizioni di partenza dei diversi paesi (vedi il contributo critico di Artoni sul Menabò ), ma il cardine della politica fiscale europea resta il rispetto del doppio target su debito e deficit.

Si è molto discusso, e per ottime ragioni, dell’accettabilità di questi obiettivi mentre ben poco si è detto sulla possibilità che a impedire il loro raggiungimento simultaneo possano essere proprio le connessioni che sussistono tra di essi. Infatti, il livello del debito dipende quasi meccanicamente da quello del deficit e quindi, una volta deciso quest’ultimo, non è possibile regolare a piacere anche il debito, a meno di disporre di qualche altro strumento di politica economica che agisca su almeno uno dei due obiettivi. Se questo strumento non esiste (o non può essere utilizzato), allora non resta che accontentarsi di raggiungere un onorevole compromesso tra i due obiettivi.

La dinamica del rapporto debito/Pil dipende da almeno tre fattori: il costo del debito, il tasso di crescita del Pil a prezzi correnti e l’incidenza del deficit sul Pil. Esiste inoltre una posta particolare, ossia il saldo dei cosiddetti stock flow adjustment, che fa variare il debito ma non il deficit; si tratta, però, di una voce sostanzialmente marginale, che comprende i proventi delle privatizzazioni e alcuni cavilli contabili, difficilmente sfruttabili in modo continuativo. Al netto di questa posta, il rapporto debito/Pil è pari al valore dell’anno precedente, aumentato del peso degli interessi e del deficit corrente, il tutto “deflazionato” per la variazione del Pil nominale. Una formula matematica abbastanza semplice lega dunque i due pilastri delle regole europee. Purtroppo il costo del finanziamento del debito pubblico non dipende più dai governi nazionali (se mai ciò è accaduto) e la variazione del Pil nominale discende dal  tasso di inflazione deciso fondamentalmente dalla BCE a Francoforte, dalla dinamica reale – che risente, a sua volta, di fattori “strutturali” che si modificano solo molto lentamente – ed eventualmente dall’ammontare del deficit pubblico. Il risultato è che ai governi nazionali resta quasi solo il deficit di bilancio per regolare la dinamica del debito sovrano.

E qui cominciano i problemi: perché, una volta rispettata la regola del deficit, i governi devono accontentarsi della dinamica del debito che ne risulta e, viceversa, una volta deciso il ritmo di riduzione del debito non possono fare altro che riportare i deficit entro certi limiti. In condizioni “normali” le possibili combinazioni di debito e deficit sono tali da rispettare entrambi i criteri fissati dalle regole europee, ma è stato largamente dimostrato (dalla teoria e purtroppo anche dalla pratica) che in paesi fortemente indebitati e durante una recessione prolungata solo un adeguato deficit pubblico, di gran lunga maggiore del 3% del Pil, può ricondurre il debito ad una dinamica accettabile. In questi casi, perfino i tecnici della Commissione Europea e del Fondo Monetario hanno dovuto riconoscere che le politiche di austerità rischiano di essere controproducenti (self-defeating) (vedi il contributo di Boussard e altri  della Commissione Europea  e il noto articolo di Blanchard per il Fondo Monetario ).

Consideriamo un paese con un rapporto tra debito e Pil del 130%; in questo caso tutto andrebbe liscio se il tasso di crescita del Pil nominale superasse di 3 punti percentuali il costo del debito: infatti, il semplice pareggio di bilancio assicurerebbe il rispetto di entrambi i target europei. Se invece quello stesso paese non crescesse e pagasse il 4% di interessi sul debito sovrano sarebbero guai: il pareggio di bilancio farebbe salire inevitabilmente il debito al 135,2% del Pil, mancando clamorosamente l’obiettivo europeo che prevede invece una riduzione di 3,5 punti percentuali. Nelle condizioni descritte, solo un avanzo monstre dell’8,7% consentirebbe il rispetto dei target europei. Ma le cose non sono così semplici, perché, anche solo per motivi contabili, un avanzo di bilancio riduce quasi dello stesso ammontare il Pil. Quindi un surplus dell’ordine del 9% farebbe sprofondare il paese in una terribile recessione, con effetti nefasti anche sul rapporto debito/Pil, che balzerebbe al 138,6%. Invece è facile verificare che questo rapporto scenderebbe al ritmo richiesto solo con un deficit pari al 32,8% del Pil, che però è del tutto improponibile anche per un governo ultrakeynesiano. Ma queste sono le dure leggi dell’aritmetica, che sono perfino più inflessibili del Fiscal Compact.

Tutto questo è una banale conseguenza della “regola di Tinbergen”, dal nome del premio Nobel per l’economia olandese che l’ha formulata una sessantina di anni fa, che in realtà deriva da un principio noto da secoli in fisica:[1. L’equivalente “popolare” della regola di Tinbergen è il principio secondo il quale, disponendo di una sola botte di vino, non è possibile conservarla piena e, allo stesso tempo, far ubriacare la consorte. Questa “regola” è riportata già nel nono capitolo de “I Viceré”, scritto nel 1894 da Federico De Roberto, che quindi meriterebbe la primogenitura su Tinbergen.] se non si controlla un numero adeguato di “forze” indipendenti, non è materialmente possibile portare un sistema economico o fisico verso uno stato definito da altrettante dimensioni. Ad esempio, per guidare un’auto su un piano sono sufficienti il volante e un motore, mentre per pilotare un aereo nello spazio a 3 dimensioni servono anche i timoni di profondità. Se poi si pretende anche di rispettare una determinata tabella di marcia, per controllare anche la dimensione temporale, allora sia all’auto che all’aereo serve un quarto strumento, ossia un regolatore di velocità. Quindi, se si pretende di rispettare a tutti i costi il tetto del 3% del deficit senza adottare politiche di sviluppo non ci si può meravigliare se la domanda aggregata cresce meno del dovuto, gonfiando il rapporto tra debito e Pil invece di ridurlo. Di recente, è successo in Grecia, dove il Fondo Monetario ha dovuto ammettere che si era “sbagliato” sull’entità della reazione del Pil alle politiche di bilancio restrittive (vedi l’imbarazzante autocritica del Fondo Monetario ), e in Italia, dove tra il 2011 e il 2013 i vari governi hanno portato il debito dal 116,4% al 127,9% del Pil senza chiedere nemmeno scusa.

A questo dilemma “fisico” la tecnocrazia europea e mondiale sembra rispondere promovendo le mitiche riforme strutturali, che dovrebbero fornire ai governi lo strumento mancante per perseguire contemporaneamente il consolidamento dei bilanci e uno sviluppo soddisfacente. Anche in questo caso, tuttavia, i conti non tornano, perché si pretende di raggiungere tre target (su debito, deficit e Pil) utilizzando solo due leve: il saldo di bilancio e gli effetti delle riforme sul Pil che, tra l’altro, sono tutt’altro che certi (come ha segnalato anche Gabriele sul Menabò ).

Visto che in economia, a differenza della fisica, la rincorsa tra il numero degli obiettivi desiderabili e quello degli strumenti disponibili potrebbe continuare all’infinito, un approccio più razionale (e meno ideologico) suggerirebbe di fissare delle semplici griglie di possibilità, che escludano le combinazioni di risultati palesemente inaccettabili (p. es.: alta inflazione, basso sviluppo e debito alle stelle) ma non drammatizzino l’eventuale sforamento di singole soglie critiche. Ad esempio, negli anni sessanta Okun propose una misura del successo delle politiche economiche (il “misery index”) costruito sommando il tasso di disoccupazione e quello d’inflazione. Più di recente Barro ha aggiunto all’indice di Okun il tasso d’interesse e dell’output gap (ossia la differenza percentuale tra Pil effettivo e potenziale). Agli inizi degli anni novanta, cioè proprio quando si edificava il castello delle regole europee, Taylor ha proposto una regola per fissare il tasso d’interesse in base all’inflazione, alla media del divario tra inflazione effettiva e il suo valore desiderato (o “tollerato”) e dell’output gap. Più o meno contemporaneamente, anche McCallum ha elaborato una “regola del pollice” per determinate l’offerta di moneta in base alla dinamica del Pil e dell’inflazione.

Si tratta ovviamente di regole assolutamente empiriche, soggette a molte obiezioni; tuttavia, esse hanno il pregio di riconoscere che, in un mondo complesso, le politiche economiche non possono prefiggersi target fissi, ma solo un compromesso decente tra obiettivi contrastanti. Tutto il contrario delle regole europee. Insomma le buone pratiche in questo campo non mancano, ma Okun, Barro, Taylor e McCallum, sebbene avessero orientamenti teorici e politici molto diversi tra loro, erano persone pragmatiche e non burocrati europei.

Un atteggiamento meno ideologico al problema del consolidamento dei bilanci pubblici avrebbe suggerito di adottare la logica dell’approccio flessibile alla fissazione degli obiettivi di politica economica, perseguendo la minimizzazione di un indicatore costruito sommando (o, comunque, tenendo simultaneamente conto di) output gap, eccesso d’inflazione, disoccupazione, deficit su Pil e distanza tra debito effettivo e desiderato, lasciando la libertà ai singoli governi di scegliere tra diverse combinazioni. Invece si è preferito sfidare perfino la logica matematica, adottando regole che possono essere incompatibili tra loro, per poi “correggerle” con meccanismi complessi e poco trasparenti, che tengono conto solo indirettamente delle conseguenze del consolidamento fiscale su inflazione, prodotto potenziale e disoccupazione. La toppa è risultata peggiore del buco. Ma i governi europei, invece di riconoscere le incongruenze matematiche degli accordi che hanno sottoscritto, si limitano a discettare timidamente di flessibilità nell’applicazione di regole … che invece sono semplicemente inapplicabili.

Schede e storico autori