Il contrasto del caporalato nell’ordinamento giuridico italiano: quali prospettive per la legge n. 199 del 29 ottobre 2016

Francesca Fontanarosa esamina la legge n. 199 del 2016 in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro e del riallineamento retributivo nel settore agricolo. Dopo avere illustrato l’evoluzione normativa in materia di “caporalato”, Fontanarossa mette in evidenza i profili più innovativi della legge, richiama gli strumenti di sostegno e tutela per i lavoratori vittime di caporalato, e sottolinea l’importanza del coordinamento tra le istituzioni coinvolte nel contrasto della disgregazione sociale.

Il 29 ottobre scorso il Parlamento ha approvato con un’ampia maggioranza la legge recante “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”. Una legge che è considerata fondamentale per arginare il fenomeno del caporalato e lo sfruttamento lavorativo subito soprattutto dai lavoratori migranti nelle campagne italiane.

Il caporalato, inteso come intermediazione illecita tra lavoratore e datore di lavoro, era in realtà una pratica già conosciuta nel mercato del lavoro italiano, tanto da costituire l’oggetto di una famosa indagine parlamentare sulle condizioni di lavoro (Commissione Rubinacci, 1959); tuttavia, nonostante gli interventi legislativi che da lì in seguito si sono susseguiti, lo sfruttamento dello stato di bisogno dei lavoratori ha continuato a caratterizzare l’organizzazione del lavoro soprattutto bracciantile, rappresentando ancora oggi la modalità principalmente utilizzata da alcune aziende per il reclutamento di manodopera stagionale.

Il caporalato sembra, infatti, costituire un elemento quasi strutturale dell’organizzazione del lavoro di alcuni settori produttivi, un “servizio” che l’economia informale fornisce alle imprese per mantenere basso il costo del lavoro, oltre che per controllare e disciplinare la forza lavoro, utilizzando a tal fine proprio quelle categorie di prestatori dotati di minore capacità e forza contrattuale e, in quanto tali, facilmente sottoponibili a condizioni di sfruttamento. Questa pratica prevede che sia il caporale a ingaggiare per conto dei datori di lavoro la manodopera: recluta giornalmente i lavoratori di una certa zona, li conduce sul luogo di lavoro sorvegliandone l’attività (per 8-12 ore al giorno) e stabilisce il loro compenso (spesso 2-3 euro all’ora), trattenendo per sé una cospicua parte come “tariffa” per il trasporto e l’alloggio (in genere, casolari abbandonati dove i braccianti vivono in condizioni igieniche degradanti, cfr. Amnesty International, Exploited labour: Migrant workers in Italy’s agricultural sector, 2012). A trarre profitti illegittimamente dallo sfruttamento lavorativo sono, quindi, gli imprenditori agricoli e i caporali che possono in questo modo beneficiare di manodopera a basso costo, praticando un vero e proprio dumping sociale, grazie al lavoro nero e sottopagato dei braccianti, costretti a lavorare sotto continua minaccia, intimidazioni, ricatti e violenza.

Anche solo da questa analisi preliminare, è facile formarsi il convincimento che il “caporalato” di fatto racchiude diverse fattispecie di illecito: all’elusione contributivo-previdenziale ed alla violazione delle norme in materia di lavoro (somministrazione, orario e riposo, sicurezza e igiene sul luogo di lavoro), non di rado si somma lo sfruttamento lavorativo, la tratta degli esseri umani, la violenza. Ne consegue un’evidente e indubbia difficoltà da parte dell’ordinamento giuridico, di predisporre un impianto normativo in grado di “inquadrare” un fenomeno complesso, che ha altresì dimostrato di sapersi “rigenerare” nel tempo.

Il caporalato è stato originariamente ricompreso nelle fattispecie dell’intermediazione illecita di cui alle leggi 264/1949 e 1369/1960; e, per i casi più gravi, nei reati di cui agli artt. 600, 601, 602 e 603 c.p. Le prime disposizioni censuravano l’interposizione e somministrazione di lavoro condotta al di fuori degli uffici pubblici, e l’utilizzo di contratti di “pseudo-appalti” volti a nascondere la fornitura di manodopera. Le seconde, si preoccupavano di sanzionare le fattispecie -anche “di fatto”- del mantenimento in schiavitù o servitù, della tratta di persone, dell’acquisto e alienazione di schiavi, del plagio. Per molti anni, la tutela del lavoratore vittima di caporalato è stata rimessa all’opera dell’interprete, con risultati evidentemente insufficienti in termini di contrasto del fenomeno. Le disposizioni richiamate (in seguito modificate dalla l. 196/1997 e dal d.lgs. 276/2003) si limitavano, infatti, a sanzionare solo due aspetti estremi ed opposti – se pur rilevanti – dell’attività dei caporali, ovvero il reclutamento illecito della manodopera e lo sfruttamento perpetuato a danno dei lavoratori, lasciando senza copertura giuridica quelle situazioni ricomprese all’interno dei due estremi: la violenza, la minaccia e lo sfruttamento dello stato di bisogno dei lavoratori che, per contro, si verificavano con sempre più frequenza in alcuni settori produttivi, complice il dilagare della crisi economica del 2008 e l’intensificarsi dei flussi migratori (Istat, Audizione Camera dei Deputati, 2010).

Con la finalità di adeguare le fattispecie del codice penale al fenomeno del caporalato, il d.l. 138/2011 ha introdotto due nuove disposizioni (artt. 603-bis e 603-ter c.p.) che mirano a punire il delitto di “intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro”. Le disposizioni sanzionano “chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa, caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori” (art. 603-bis c.p.).

L’introduzione di una simile fattispecie delittuosa ha sicuramente contribuito a colmare il vuoto legislativo relativo al caporalato; tuttavia, anche in questo caso, la sua azione repressiva si è dimostrata nel tempo di portata ridotta. Tra i profili più critici della disposizione rilevano, in particolare, la mancanza di sanzioni per il datore di lavoro utilizzatore, soggetto attivo nella fattispecie di reato, e la totale assenza di tutela e sostegno per i lavoratori vittime di caporalato. Si può, dunque, ritenere che nonostante l’intervento legislativo del 2011, il sistema del caporalato è rimasto in piedi per l’impossibilità delle norme di incidere sulle cause, invero complesse, alla base del fenomeno, attuando una serie di incentivi e disincentivi che sanzionino i comportamenti illeciti di tutti i soggetti coinvolti e sostengano le imprese regolari e le vittime che denunciano i loro aguzzini. Non sorprende pertanto che anche i recenti studi sui crimini del settore agroalimentare e sul caporalato (IV Rapporto sui crimini agroalimentari, Eurispes; 3° Rapporto Agromafie e caporalato, Osservatorio Placido Rizzotto, FLAI-Cgil, 2016), abbiano restituito un’immagine preoccupante della diffusione di questo fenomeno nel mercato del lavoro nazionale. È proprio la gravità della situazione, ampiamente documentata, ad aver posto con urgenza il tema di un nuovo intervento del legislatore con l’obiettivo di risolvere le inefficienze delle precedenti misure e le contraddizioni che hanno reso difficoltoso il ricorso all’autorità giudiziaria per denunciare i casi di sfruttamento lavorativo.

La legge approvata di recente sembra andare in questa direzione laddove agisce con una strategia di ampio respiro su diversi aspetti del fenomeno criminale, garantendo al contempo la tutela del lavoratore, specie se immigrato.

La prima novità è rappresentata dai “nuovi” artt. 603-bis1 e 603-bis2 c.p. concernenti l’estensione delle sanzioni al datore di lavoro che assume o impiega manodopera anche mediante l’intermediazione del caporale, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno. In questo modo, a rilevare giuridicamente non è più solo il caporale che assume comportamenti violenti o intimidatori, spesso difficili da provare, ma anche le azioni che prescindono da questi atti (la corresponsione di retribuzioni difformi dai ccnl nazionali o territoriali, stipulati dai s.m.r.; la violazione delle norme sull’orario di lavoro, riposo, ferie, e igiene e sicurezza sul lavoro) e che sono imputabili direttamente al datore di lavoro. Questa disposizione, assieme alla previsione di un’attenuante in caso di collaborazione con l’autorità giudiziaria, potrebbe effettivamente rendere più facile applicare la norma nei processi per riduzione in schiavitù, incentivando gli imputati a collaborare con l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti. Sempre con riferimento agli strumenti repressivi, è da considerarsi positivo l’inserimento del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro tra i reati per i quali è disposta la confisca obbligatoria. Una simile misura, infatti, appare particolarmente efficace nel contrastare le attività criminali organizzate, poiché sottrae all’autore del crimine la disponibilità delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato (il prezzo, il prodotto o il profitto stesso).

Per quanto concerne gli strumenti di sostegno e tutela per i lavoratori vittime di caporalato, la legge introduce il controllo giudiziario (in luogo del sequestro) dell’azienda presso cui è stato commesso il reato, al fine di tutelare i livelli occupazionali e il valore economico aziendale. È altresì previsto un indennizzo per le vittime, finanziato dal “Fondo anti-tratta” (cui sono destinati i proventi delle confische) e l’adozione di un piano di interventi per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori stagionali. In questo senso, alcune iniziative sono state già avanzate, per fornire ai lavoratori stranieri stagionali informazioni sulla prevenzione sanitaria e sui servizi ai quali gli stessi possono accedere sul territorio, come il trasporto pubblico gratuito per raggiungere i luoghi di lavoro. Si deve inoltre evidenziare il consolidamento della “Rete del lavoro agricolo di qualità” (d.l. 91/2014): un elenco delle imprese agricole in regola con le disposizioni in materia di lavoro e previdenza, che dovrebbe agire orientando l’attività di vigilanza nei confronti delle imprese non appartenenti. Al riguardo, sono disposti monitoraggi costanti trimestrali anche accedendo ai dati disponibili presso il Ministero del lavoro e l’INPS, relativi all’instaurazione, trasformazione e cessazione dei rapporti di lavoro, dell’andamento del mercato del lavoro agricolo.

In via conclusiva, si può ritenere che il caporalato rappresenta una prassi che nel tempo si è consolidata “grazie” anche alle inefficienze del sistema pubblico (dei trasporti, del collocamento, delle ispezioni, ecc.) e alla vulnerabilità sociale di una parte crescente della forza lavoro. È dunque, necessario che la disciplina legale oltre ad agire sulla repressione del caporalato, agisca sul “contesto” giuridico economico e sociale in cui lo stesso si sostanzia. Gran parte dell’efficacia della novella legislativa dipenderà, pertanto, proprio dal suo coordinamento con le norme in materia di immigrazione e mercato del lavoro, e dall’azione di tutte le istituzioni (sindacati, associazioni di categoria, ecc.) nel contrasto della disgregazione sociale.

Schede e storico autori