Idee e politiche per la disuguaglianza: appunti sul Festival di Trento

Leonardo Bianchi e Stefano Filauro dedicano la loro scheda alla sintetica presentazione di alcune delle idee e delle proposte sulla disuguaglianze presentate al recente Festival dell’Economia di Trento da alcuni dei più autorevoli studiosi del tema. In particolare esaminano le tesi di Rodrik sulla distribuzione del reddito a livello globale e quelle di Autor sulle possibili ripercussioni delle nuove tecnologie e sintetizzano le proposte politiche avanzate da Stiglitz e Atkinson per contenere le disuguaglianze e promuovere la mobilità sociale

Lo stato attuale delle disuguaglianze, le possibili ripercussioni sulla mobilità sociale e le politiche per farvi fronte sono state i temi centrali del Festival dell’Economia di Trento 2015. Nei cinque giorni della sua durata, ospiti nazionali e internazionali hanno dato vita a 93 affollati eventi pubblici nel corso dei quali molti hanno presentato le loro più aggiornate ricerche sul tema. Praticamente tutti gli aspetti della disuguaglianza sono stati toccati: dalla sua dimensione etico-normativa ai problemi che la sua misurazione pone, dalle tendenze storiche di lungo periodo alle probabili evoluzioni future, dalle sue cause di fondo alle politiche e alle riforme che possono contrastarla. Particolare attenzione è stata riservata al tema della mobilità sociale e al suo tendenziale indebolimento che non risparmierebbe neanche gli Stati Uniti, che appaiono sempre meno come “la Terra delle opportunità”. Tutti i relatori hanno però sottolineato che le attuali tendenze non sono inevitabili: le politiche contano, come mostrano le differenze a livello nazionale e persino a livello regionale.

In questa scheda presenteremo sinteticamente le tesi principali sostenuti da alcuni dei più autorevoli economisti intervenuti a Trento.

Dani Rodrik si è occupato delle dinamiche che governano la distribuzione dei redditi individuali su scala globale di fatto estendendo a quel livello l’analisi di Piketty che è stata ampiamente discussa nel Menabò n.8/2014.

In particolare, egli si è concentrato sul paradosso degli attuali Stati Nazione occidentali, i quali, stimolando una crescita sostenuta delle loro economie hanno finito per generare maggiori disparità globali. Ciò è avvenuto soprattutto nell’ultimo secolo.

Scomponendo la disuguaglianza globale in disuguaglianza interna ai paesi e disuguaglianza tra paesi, Rodrik ha mostrato come le disparità di reddito tra gli individui del pianeta siano più che raddoppiate negli ultimi 150 anni soprattutto a causa della disuguaglianza fra paesi, essendo rimasta relativamente costante (a circa 1/3 del totale) la disuguaglianza interna.

Dunque, la scomposizione effettuata da Rodrik porta alla conclusione che le disuguaglianze globali si sono ampliate a causa soprattutto dei diversi tassi di crescita di paesi sviluppati e in via di sviluppo, verificatisi nel secolo passato. Va però sottolineato che l’inversione avvenuta a partire dagli anni ‘90 per cui alcuni paesi in via di sviluppo ora crescono più velocemente ha contribuito a ridurre la disuguaglianza tra paesi. Dunque, se le traiettorie nazionali di crescita economica del passato allargavano le disparità globali negli ultimi decenni, grazie soprattutto alle straordinarie performance di Cina e India, ora le riducono. Va, però, ricordato che tutto ciò è avvenuto a discapito delle fasce medio basse dei Paesi sviluppati che hanno sperimentato un deterioramento della loro condizione economica.

Rodrik ha osservato che la globalizzazione che abbiamo conosciuto di recente associa alla libertà di movimento dei capitali e delle merci una bassa mobilità del fattore lavoro. La domanda che egli si è posto, e alla quale ha cercato di dare risposta con un esercizio piuttosto “eroico”, è: cosa accadrebbe alla disuguaglianza se il fattore lavoro godesse di un’analoga mobilità? Secondo Rodrik, un movimento dell’ordine di 60 milioni di lavoratori dai Paesi in via di sviluppo a quelli sviluppati permetterebbe una riduzione drastica delle disparità globali sebbene gli effetti su coesione sociale e fornitura di beni pubblici, anche a causa dell’alta eterogeneità linguistico-culturale prodotta, non sarebbero facilmente prevedibili. Anche alla luce di questo risultato Rodrik ha concluso chiedendosi se gli stati nazionali – che con le loro politiche di crescita hanno aggravato nel lungo periodo le disuguaglianze globali – potranno prendere misure che, favorendo la mobilità del lavoro senza però snaturare le proprie istituzioni democratiche e le proprie tradizioni culturali, contribuiscano a ridurre quelle disuguaglianze.

David Autor invece si è concentrato sul cosiddetto paradosso di Polanyi, secondo cui l’uomo conosce tacitamente il mondo a lui circostante molto di più di quanto lo comprenda esplicitamente, e si è interrogato sui potenziali effetti che la tecnologia avrà sul mercato del lavoro. Dunque la sua attenzione è stata rivolta ai salari, piuttosto che ai redditi.

Secondo Autor la tecnologia, soprattutto quella più recente, ha avuto effetti sull’occupazione diversi a seconda del grado di creatività e di ripetitività della mansione svolta. Più in dettaglio, le innovazioni tecnologiche si sarebbero rivelate molto complementari ai lavori che richiedono creatività e capacità astratta di risoluzione problemi, come ad esempio quello dei manager e dei medici; mediamente complementari ai lavori manuali che richiedono adattabilità interpersonale, è ad esempio il caso camionisti e infermieri, mentre hanno finito per spiazzare e sostituire i lavori routinari e procedurali, come quelli delle segretarie e dei lavoratori alla catena di montaggio.

Se caratterizziamo queste tre categorie di occupazioni come lavori a salario alto, basso e medio, se ne evince che la tecnologia recente, spiazzando i lavori routinari, ha inciso sull’occupazione dei settori a salario medio esacerbando le attuali disuguaglianze salariali.

Autor non sembra, però, pessimista sul futuro del mercato del lavoro; riferendosi a esperienze storiche egli ha sostenuto che se alcune figure professionali sono rese obsolete dalle innovazioni altre resisteranno perché non tutto il lavoro umano può essere sostituito dalle macchine. È qui che entra in gioco il paradosso di Polanyi. In base ad esso i processi di automazione non potranno sostituire in toto le attività umane, soprattutto quelle di cui l’uomo non ha conoscenza esplicita; per cui, per quanto sviluppate possano essere le macchine, esse richiederanno sempre attività umane complementari, come il buon senso, la creatività o l’adattabilità. In quest’ottica, per esempio, il settore dei servizi alla persona potrebbe rioccupare o riassorbire parte della disoccupazione indotta dalla tecnologia.

In ragione di queste osservazioni Autor ha invocato un duplice intervento dello Stato: di contenimento delle disuguaglianze salariali create dall’automazione e di stimolo e indirizzo della futura ricerca tecnologica, eventualmente con incentivi all’innovazione tecnologica di carattere complementare piuttosto che sostitutivo. In conclusione, Autor ha ammesso che, se l’innovazione robotica dovesse spiazzare più lavoro di quanto se ne possa riassorbire, si creerebbe un problema di redistribuzione tra “vincitori” e “sconfitti” della tecnologia.

Joseph Stiglitz ha osservato che se l’aumento delle disuguaglianze è diffuso nei Paesi dell’area Ocse le differenze a livello nazionale sono significative e ciò mostra che le scelte politiche incidono sui livelli di disuguaglianza e di mobilità sociale. Le politiche alle quali Stiglitz fa riferimento coprono un ampio spettro: da quelle fiscali a quelle monetarie a quelle che definiscono la struttura istituzionale.

Stiglitz ha anche sostenuto che le disuguaglianze non sono unidimensionali, e ciò significa, tra l’altro, porre al centro del dibattito la questione dell’accesso di tutti ai diritti fondamentali oltre che della garanzia di un livello adeguato di benessere in varie dimensioni che spesso è impedito dall’inasprirsi delle disparità economiche: esempi, al riguardo, sono l’aspettativa di vita che è più alta per i più ricchi; l’accesso alla giustizia che è precluso a chi non dispone di redditi sufficientemente alti e la possibilità di accedere a redditi più elevati che è impedita dalla ridotta mobilità sociale a sua volta collegata, come mostra la curva del Grande Gatsby, alla disuguaglianza corrente.

Le cause del rallentamento della mobilità generazionale affondano le loro origini, secondo Stiglitz, nelle politiche di Reagan; in particolare, abbassando le aliquote fiscali sui redditi più alti dal 90% al 30% e liberalizzando la mobilità dei capitali in nome di una maggiore crescita economica, Reagan ha contribuito ad aggravare il divario tra ricchi e poveri. Queste politiche avrebbero avuto anche l’effetto di invalidare le previsioni della curva di Kuznets, secondo cui, dopo la fase di prima industrializzazione, le disuguaglianze nei Paesi occidentali sarebbero diminuite mentre la crescita economica procedeva.

Nonostante il dibattito scaturito da misure come queste sia stato e sia tutt’ora molto acceso, le politiche praticate oggi, anche da governi come quello di Obama, sono ancora ispirate al principio del trickle-down, secondo cui attraverso un effetto a cascata il maggior benessere delle fasce alte del reddito si trasmette al resto della società e anche alle fasce medio-basse. L’esempio citato da Stiglitz riguarda la gestione della crisi del settore immobiliare statunitense: anziché aiutare i milioni di cittadini che con la crisi si sono impoveriti ed hanno perso la casa a causa dei pignoramenti si è scelto di agire unicamente ricapitalizzando gli istituti di credito fornitori di mutui.

Dunque, in virtù delle tante dimensioni da considerare e dei fallimenti delle politiche trickle-down Stiglitz ha esortato a indagare più a fondo le cause della crescita delle disuguaglianze e si è spinto fino a invocare la riscrittura delle regole dell’economia capitalistica. In questo progetto egli è tuttora impegnato e il suo obiettivo è di poter presto presentare una proposta al Congresso degli Stati Uniti

Anthony Atkinson utilizzando indicatori diversi da quelli di Piketty ha mostrato che le tendenze da lui individuate non sono diverse da quelle presentate dall’economista francese nel suo libro di successo. In particolare, nel Regno Unito negli anni 60 l’indice di Gini era pari a 0,25 ma negli anni successivi è fortemente cresciuto per raggiungere 0,35, un valore vicino a quello degli Stati Uniti e leggermente superiore a quello dell’Italia. Sono questi tre dei paesi avanzati caratterizzati dalla maggiore disuguaglianza.

Atkinson ha ricordato che le variabili economiche non sono neutrali ma dipendono da ben precise scelte politiche; anche in virtù di ciò egli propone ai governi, gli unici organi democraticamente legittimati a prendere decisioni, una serie di interventi diretti ad arginare il problema. Atkinson, riferendosi soprattutto al Regno Unito, invoca misure di carattere fiscale come, in particolare, una rimodulazione dell’imposizione fiscale sulla ricchezza soprattutto per quello che riguarda eredità e successioni. Ciò avrebbe l’effetto di limitare la trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze. Atkinson suggerisce anche di introdurre una forma di reddito di cittadinanza o di partecipazione, orientato a chi lavora e a chi si impegna concretamente nella società in cui vive. Inoltre, auspica operazioni di finanza pubblica volte a riappropriarsi del patrimonio pubblico che a partire dagli anni ’80 è stato via via svenduto con una lunga serie di privatizzazioni. A tal proposito, Atkinson osserva che il dibattito recente si è sempre più focalizzato sul debito pubblico, tralasciando sistematicamente il tema del patrimonio dello Stato.

Un modo per ricostituire il patrimonio pubblico potrebbe essere quello di investire in azioni di imprese innovative. Per giustificare questa strategia, Atkinson ha ricordato che sebbene lo Stato finanzi gran parte della spesa in ricerca, i frutti dell’innovazione affluiscono ai privati che sostituiscono posti di lavoro con tecnologie e macchine che rendono meno costosi i processi produttivi. L’ingresso dello Stato nei pacchetti azionari di tali imprese potrebbe contrastare queste tendenze e l’effetto sarebbe anche un diverso funzionamento dei mercati e della disuguaglianza che in essi si crea.

Di molto altro si è discusso a Trento in relazione alle disuguaglianze. Ma anche soltanto queste idee e queste proposte politiche potrebbero essere sufficienti, se prese seriamente, per controllare le disuguaglianze e fare in modo che invece di aggravarsi si riducano.

 

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