I ricchi e la disuguaglianza: cosa dicono (e non dicono) i dati

FraGRa osservano che ai ricchi è stata finora dedicata una scarsa attenzione e presentano i risultati emersi negli ultimi anni dagli studi empirici diretti ad accertare la loro importanza. In particolare illustrano l’andamento e la composizione, in vari paesi, della quota di reddito appropriata dall’1% più ricco, nonché da segmenti ancora più ridotti di individui privilegiati. Un limite di queste pur utilissime analisi è quello di non disporre di una definizione dei ricchi, simile a quella di cui si dispone per i poveri, con la conseguente impossibilità di stabilire quanti siano i ricchi e quanto ricchi mediamente essi siano.

Fino a tempi molto recenti non si conosceva praticamente nulla della quota di reddito appropriata dai ricchi nei vari paesi. Questa forma di ignoranza era largamente dovuta alla mancanza di dati, ma la sua causa più generale può essere ricondotta alla scarsa attenzione che la letteratura economica ha dedicato ai ricchi. Nulla in rapporto alla pur giustissima attenzione per i poveri.

Questa lacuna ha iniziato a essere colmata grazie soprattutto al lavoro di economisti come Tony Atkinson e Thomas Piketty che una decina di anni fa hanno pubblicato i primi studi sulle top income shares, ovvero sulla quota di reddito nazionale appropriata da piccoli e privilegiati segmenti della popolazione. Come si dirà in questa scheda, oggi conosciamo meglio vari aspetti di quello che potremmo chiamare il “pianeta dei ricchi”, ma molto resta ancora da conoscere e per farlo occorre anche superare un limite di questa letteratura, e cioè l’assenza – per quanto possa sembrare paradossale – di una precisa definizione di chi debba essere inteso come ricco.

Infatti, in questi studi i ricchi vengono identificati, in modo pragmatico, come coloro che si posizionano in alcuni predefiniti segmenti estremi della distribuzione dei redditi, ad esempio come gli appartenenti all’1% più ricco della popolazione o a gruppi ancora più ristretti, come lo 0,1% o lo 0,01%. Ma analizziamo meglio caratteristiche e risultati delle indagini sulle top income shares.

Diversamente da quanto avviene per quasi tutti i lavori sulla disuguaglianza, i dati utilizzati non provengono da indagini campionarie, ma si basano sulle statistiche ufficiali relative alle dichiarazioni dei redditi, che generalmente riportano, per ogni fascia di reddito, il numero di contribuenti, il reddito medio e la sua origine (reddito da lavoro, da impresa, da capitale, rendita, trasferimento). Facendo uso delle tabulazioni della distribuzione in scaglioni delle dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche e del numero di contribuenti e di cittadini adulti è così possibile stimare le quote di reddito detenute dal top x% della popolazione.
Le top income shares possono essere calcolate, anno per anno, da quando sono registrati i dati fiscali, cioè, per molti paesi occidentali, dai primi anni del ventesimo secolo, ma per l’Italia solo a partire dal 1974, l’anno in cui è stata introdotta l’imposizione sui redditi delle persone fisiche.

Esaminiamo ora l’andamento delle quote di reddito nazionale concentrate nelle mani dell’1% più ricco della popolazione in alcuni paesi avanzati a partire dal 1974 fino al 2009 (l’ultimo anno in cui sono disponibili i dati per l’Italia), ricordando che, nei paesi in cui si dispone di serie storiche a partire dalla prima metà del XX secolo, le top income shares, che partivano da livelli molto elevati, registrarono una costante riduzione fino al termine della seconda guerra mondiale, a causa soprattutto delle forti perdite patrimoniali legate alle guerre e alla crisi del 1929, per poi mantenersi costanti, o in lieve diminuzione, fino ai primi anni ’70.

A partire dalla metà degli anni ’70, la quota di reddito individuale lordo detenuta dal top 1% ha seguito un trend molto diverso nei paesi anglosassoni e in quelli continentali (figura 1, in cui non sono inclusi i capital gains che, peraltro, sono riportati nelle dichiarazioni dei redditi individuali solo negli Stati Uniti, dove farebbero aumentare la quota detenuta dal top 1% di circa 3 punti percentuali). In questi ultimi, la quota è rimasta relativamente stabile nei 35 anni osservati, con un incremento massimo dell’ordine di 2 punti percentuali; viceversa, nei paesi anglosassoni la crescita è stata molto consistente: 3,7 punti percentuali in Australia ma, soprattutto, 7,4 punti nel Regno Unito e 8,6 negli Stati Uniti. Per effetto di questo forte le quote di reddito del top 1%, in questi due paesi, sono tornate ai livelli che avevano all’inizio del XX secolo.

Fig. 1: Quota di reddito detenuta dal top 1% in alcuni paesi OCSE; 1974-2009.

Fonte: elaborazioni dal World Top Incomes Database
Fonte: elaborazioni dal World Top Incomes Database

Ben più netta è stata, in questi due paesi, la crescita della quota di reddito appropriata dallo 0,1% più ricco della popolazione: essa è quadruplicata nel periodo considerato e attualmente è pari al 6% nel Regno Unito e al 9% negli Stati Uniti. Ciò vuol dire che lo 0,1% più ricco della popolazione dispone di una quota di reddito nazionale che è 60 o 90 volte più grande del proprio peso nella popolazione e di quanto dovrebbe ricevere se la distribuzione fosse perfettamente ugualitaria. In Italia, la crescita della quota detenuta dal top 1% o 0,1% è stata significativa (rispettivamente, nel periodo 1974-2009, +1,9 e +0,9 punti percentuali, partendo da livelli relativamente contenuti, 7,5% e 1,8%), ma ben più limitata di quella che si è avuta nei paesi anglosassoni.
Un aspetto particolarmente interessante riguarda la composizione delle top income shares. In passato i redditi dei più ricchi provenivano soprattutto da capitale e rendite. Negli ultimi tre decenni, invece, tra i top income è fortemente aumentata la quota dei lavoratori, i working super-rich. Questi lavoratori comprendono alcune categorie di professionisti – avvocati d’affari, banchieri d’investimento – e, soprattutto, i top manager delle grandi imprese e le superstar dello sport e dello spettacolo. Dagli anni ’70 a oggi, pur escludendo le stock options, non ancora esercitate, ricevute dai top managers come forma di remunerazione dell’attività lavorativa, la quota del reddito del top 0,1% che proviene da attività lavorative negli Stati Uniti è cresciuta fino a 20 punti percentuali e attualmente è pari a circa il 45%. Anche in Italia, dal 1980 in poi, la composizione dei top income si è nettamente modificata: è aumentato di molto il peso dei redditi da lavoro (autonomo o dipendente) o da pensione e, parallelamente, si è ridotto quello del reddito da capitale o delle rendite. Più precisamente, la quota di reddito da lavoro o pensione dell’1% più ricco della popolazione è passata dal 46,4% al 70,9% (figura 2); quella dello 0,1% più ricco dal 29,5% al 66,2% (figura 3).

Fig.2: Composizione per fonte del reddito del top 1% in Italia (%).

Fonte: elaborazioni dal World Top Incomes Database
Fonte: elaborazioni dal World Top Incomes Database

Fig.3: Composizione per fonte del reddito del top 0,1% in Italia (%).

Fonte: elaborazioni dal World Top Incomes Database
Fonte: elaborazioni dal World Top Incomes Database

L’esame delle top income shares è importante perché arricchisce l’analisi della disuguaglianza almeno sotto due aspetti: consente di ricostruire serie storiche di lungo periodo che possono fungere da proxy dell’andamento della diseguaglianza nei decenni in cui non venivano effettuate indagini campionarie sui redditi (in nessun paese queste ultime sono state effettuate prima degli anni ’50 del secolo scorso) e permette di osservare le tendenze relative alla coda alta della distribuzione con una precisione decisamente maggiore rispetto a quella che assicurano le indagini campionarie, le quali, a causa della loro limitata numerosità, corrono il rischio di non rappresentare adeguatamente nel campione gli individui ad alto reddito (anche a causa del maggior tasso di non risposta dei ricchi alle interviste).

Tuttavia, le caratteristiche dei “ricchi” non possono essere adeguatamente conosciute soltanto attraverso l’analisi della quota di reddito di cui si appropriano i top income. Vi è, innanzitutto, un problema con la nozione di reddito sulla quale questa analisi si basa. Per la natura della fonte dei dati, i redditi considerati sono quelli individuali al lordo delle tasse, mentre solitamente si ritiene che la misura più precisa del benessere economico individuale debba essere il reddito equivalente disponibile (dato dalla somma dei redditi percepiti da tutti i membri del nucleo familiare, al netto delle imposte e al lordo dei trasferimenti, tenendo conto anche delle diverse dimensioni dei nuclei familiari). Il secondo problema nasce dal fatto che numerosi fattori possono limitare non soltanto la completa attendibilità dei dati ma anche la loro comparabilità nel tempo e fra paesi; fra questi, vanno ricordati l’evasione e l’elusione fiscale, la non omogeneità della definizione del reddito tassabile, la definizione dell’unità fiscale (l’individuo o la coppia), l’inclusione o meno dei capital gains.

Infine, il terzo – e ai nostri fini – più rilevante problema consiste nel fatto che questa analisi si concentra sui più ricchi senza stabilire se essi siano effettivamente ricchi. In un’ipotetica distribuzione molto egualitaria i redditi dei primi in classifica potrebbero essere solo marginalmente superiori rispetto a quelli di coloro che si collocano in fondo alla classifica; di conseguenza, considerare ricchi i primi sarebbe improprio. D’altro canto, il reddito medio dell’1% più ricco in un determinato paese, o in un determinato periodo, potrebbe essere molto diverso dal reddito medio dell’1% più ricco in un altro paese o in un altro periodo. Ad esempio, in Italia nel 2009 il reddito individuale lordo dichiarato dal novantanovesimo percentile (la soglia di ingresso nel top 1%) era pari a 93.000 euro annui (pari a 5,3 volte quello medio), mentre le soglie che definiscono il top 0,1% e 0,01% erano, rispettivamente, di 245.000 e 748.000 euro (rispettivamente pari a 14 e 42 volte il reddito medio). Negli Stati Uniti, invece, a dimostrazione di una distribuzione dei redditi ancora più sperequata nella coda alta, nello stesso anno queste tre soglie sarebbero state pari, rispettivamente, a circa 260.000, 960.000 e oltre 4,2 milioni di euro (pari, rispettivamente, a 7, 25 e 112 volte il reddito medio).

Affinché l’analisi della ricchezza risulti completa occorre, dunque, che essa consenta di dire, con chiarezza, quanti sono i ricchi e quanto ricchi essi siano. Similmente a quanto stabilito con riferimento alla povertà, rispetto alla quale esiste una sufficiente base di consenso riguardo ai criteri da adottare per stabilire chi debba essere considerato povero, in senso assoluto o relativo, bisognerebbe allora cercare di raggiungere una definizione condivisa dei ricchi. Una strada percorribile, su cui torneremo in prossimi contributi sul Menabò, ci sembra quella di procedere identificando delle soglie di ricchezza relative, definite, ad esempio, guardando a quanti individui hanno un reddito disponibile superiore a 5 o 10 volte quello mediano, accompagnando, così, gli studi sulla ricchezza relativa a quelli sulle top income shares.

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