I partiti, la rappresentanza e la loro pretesa crisi (Prima parte)

Alfio Mastropaolo torna sul tema della crisi dei partiti trattato nei precedenti numeri del Menabò con un articolo di cui qui viene pubblicata la prima parte. Mastropaolo muove dalla considerazione che i partiti sono istituzioni rappresentative che traggono la propria legittimità dal farsi portavoce di un gruppo più o meno stabile di cittadini e si sofferma sulla ambivalente collocazione dei partiti tra rappresentanza e partecipazione. Da questa prospettiva, Mastropaolo individua alcune possibili ragioni della metamorfosi dei partiti e ne valuta la plausibilità.

I partiti politici sono istituzioni fondamentali dei regimi democratici. Non c’è democrazia, si usa dire, senza partiti. Non per caso costituiscono uno dei temi preferiti nel dibattito pubblico, ove però ormai da molto tempo la loro denigrazione è la regola. Sono anche uno dei fondamentali oggetti d’indagine della sociologia e della scienza politica. Per contro, l’autoriflessione dei partiti, o sulla forma-partito, in altri tempi assai vivace, è quanto mai circoscritta. I partiti si mettono poco in discussione. L’unica innovazione di rilievo che hanno introdotto ultimamente, dietro non innocenti sollecitazioni esterne e in funzione di altrettanto poche innocenti convenienze interne, sono le cosiddette primarie, finalizzate, si narra, a ravvicinare i cittadini ai partiti. Le primarie saranno anche affollate – ma l’affollamento è presto declinato – però  i sondaggi d’opinione registrano, non solo in Italia, il persistere di un diffuso atteggiamento di disistima nei confronti dei partiti, confermato dalla caduta della partecipazione elettorale.

Tra i pochi tentativi di ripensare i partiti dall’interno, di rilanciare il dibattito nei loro stessi ranghi, e di rinnovarne le pratiche in maniera non improvvisata, spicca quello condotto da Fabrizio Barca, che nella primavera del 2013 ha dedicato loro un meditato documento, successivamente riproposto in un paio di libri, in un discreto numero d’interventi sulla stampa e in una quantità di affollati incontri pubblici. In quel testo Barca ha pure avanzato alcune ipotesi d’innovazione, successivamente promuovendo una serie di interessanti esperimenti partecipativi, che hanno coinvolto militanti e simpatizzanti del suo partito, vale a dire il Pd. Le considerazioni che seguono prendono spunto dall’iniziativa di Barca, osservata da chi scrive con simpatia e interesse, e dal suo recente intervento sul Menabò di Etica e Economia.  Esse si concentrano sulla collocazione ambivalente dei partiti tra rappresentanza e partecipazione e sulle complicazioni che ne conseguono.

Dei tanti modi in cui possiamo definire i partiti uno è preminente: sono istituzioni rappresentative. Lo sono non già nel senso che i partiti sono passerelle privilegiate per accedere a organismi e cariche elettive, ossia alle istituzioni “ufficiali” della rappresentanza, che qualificano i regimi cosiddetti rappresentativi. Lo sono, invece,  nel senso che i partiti sono istituzioni rappresentative di per sé, che traggono la propria legittimità dal farsi portavoce di un gruppo più o meno stabile di cittadini. Ovvero: un partito è un’istituzione la quale trasmette domande politiche e canalizza interessi. Come tale concorre – direttamente o indirettamente – all’esercizio dell’autorità dello Stato, che è il suo fine preminente. Anzi, ad essere precisi, in un contesto di mercato politico competitivo, i partiti sono imprese politiche che aspirano al potere utilizzando la loro capacità rappresentativa, solitamente accertata alle elezioni, come risorsa per legittimare e far valere le loro ambizioni.

In realtà, non è neanche detto che un partito debba necessariamente partecipare alle elezioni. Anche non partecipandovi, e non disponendo di seggi nelle assemblee elettive, può recitare la sua parte, rappresentativa, e in maniera più remota influire sull’azione di governo. Pertanto, identificare i partiti non è sempre facile. Tanto più quando, come capita ormai da qualche tempo, la scena politica è sovraffollata da imprese politiche che concorrono alle elezioni e volutamente rifiutano di autodefinirsi partiti. Al Parlamento italiano di partiti che si autodefiniscono tali ce n’è al momento solo uno, su cui grava un non infondato sospetto: si è denominato partito non già perché gli interessasse la classificazione, ma per rivendicare, opportunisticamente, una qualche parentela con il Partito democratico americano, senza forse neanche ben conoscerne la lunga e contraddittoria vicenda storica.

Comunque sia, premesso che i partiti sono difficili da identificare, essi non sfuggono al destino di qualsivoglia rappresentante o di qualsiasi istituzione rappresentativa. La rappresentanza è un’azione assai complicata. Che da un canto trasmette e canalizza, dall’altro inventa, manipola, distorce, rimescola, trasfigura (Latour). Alla distorsione non sfugge neanche la rappresentanza privatistica, né vi sfuggono le rappresentazioni artistiche, letterarie, fotografiche. Ogni rappresentanza e rappresentazione è giocoforza interpretazione. A maggior ragione capita nel caso della rappresentanza politica in cui tocca al rappresentante, o all’istituzione rappresentativa, nientemeno che d’inventare i suoi rappresentati, i quali in natura non esistono. Rappresentare in politica significa anzitutto rappresentare una moltitudine, la quale non precede la rappresentanza, ma è costituita, artificiosamente, da essa e, non meno artificiosamente, ricondotta da essa a unità.

Detto altrimenti: le istituzioni rappresentative, tra cui anche i partiti, raggruppano esseri umani (Bourdieu). Che è uno dei compiti fondamentali non solo della rappresentanza, latu sensu, bensì della politica, latu sensu anch’essa, la quale, per il tramite della rappresentanza, da un lato raggruppa e fa esistere corpi collettivi senza di essa inesistenti, dal lato opposto, per il fatto stesso di farne un corpo collettivo, li governa. Senza rappresentanza, gli esseri umani vivrebbero allo stato atomistico. In qualche modo vanno dunque raggruppati Ne va della stessa vita in società. I regimi rappresentativi vi aggiungono la legittimità dell’azione di governo, insieme alla sua efficacia. Anche perché – dalla rivoluzione inglese in avanti – le istituzioni rappresentative “ufficiali”, ossia parlamenti e esecutivi, assolvono funzioni di governo strictu sensu, cioè gestiscono i monopoli della coercizione, della fiscalità e simbolici, che costituiscono lo Stato. Gestione nella quale i partiti sono coinvolti anche come canali di reclutamento del personale politico e come apparati di sostegno ad esso.

Alcuni classici della teoria della rappresentanza, come Kelsen, l’hanno definita, non senza ragioni, una finzione. Si finge che il rappresentante sia il mandatario dei cittadini. Cosa palesemente impossibile. Se non che la rappresentanza, in quanto operazione arbitraria, o artificiale, è anche un’invenzione. Che, come ogni invenzione che si rispetti, non nasce nondimeno dal nulla. Inventa, ma assemblando dati di fatto. Che sono il pretesto su cui si fabbrica il testo. Le lacerazioni sociali, e le sofferenze, suscitate dalla rivoluzione industriale furono il pretesto in base al quale i partiti socialisti costruirono quel testo straordinario che fu la classe operaia. Il quale raggruppò davvero, e per un tempo non breve, gli esseri umani. Milioni di uomini si sono sentiti parte di quella classe, si sono identificati in essa e hanno anche agito, e lottato, in maniera solidale per oltre un secolo. Lipset e Rokkan, ragionando a ritroso, hanno redatto un interessante catalogo dei pretesti offerti dalla storia europea degli ultimi cinque secoli agli imprenditori interessati a costituire imprese politiche, ovverosia partiti in quanto istituzioni rappresentative. Il loro catalogo, redatto a ritroso, elenca le imprese che hanno avuto successo e grosso modo si ferma agli anni Venti, dopo i quali i sistemi partitici furono soggetti a una prolungata glaciazione. Ultimamente anche i ghiacciai politici sembrano però colpiti da un processo di de-freezing, la cui portata sta sollevando non pochi problemi.

I partiti si inventano, ma non si improvvisano. Non è, insomma, facile inventarli. Ma se è ardua l’invenzione, non è meno ardua la manutenzione. L’attività rappresentativa è costretta a uno sforzo di continuo rinnovamento. Innanzitutto il rappresentante si pretende portavoce di qualcuno, ma deve confermare la sua pretesa fornendogli qualche prestazione protettiva, quantomeno se vuol durare nel tempo. È pertanto è costretto costantemente a ridisegnare la sua azione di rappresentanza, in ragione della situazione politica, delle risorse di cui dispone, dell’offerta di rappresentanza avanzata dai suoi concorrenti. Può promettere protezione materiale, ma quando non ha accesso alle risorse di governo può fornire in alternativa rassicurazioni simboliche. Se vuole allargare il suo pubblico, deve rendere più generiche le promesse. E via di seguito. La rappresentanza è un’attività, d’invenzione, distorsione e trasfigurazione, senza pace. Aggravata dallo stress provocato dall’accusa, senza posa ripetuta, di misrappresentare o di sottorappresentare.

La singolare vicenda della Lega Nord offre parecchi spunti di riflessione in proposito. In primo luogo invita a andare in caccia dei pretesti su cui si è assemblato il testo. Pretesti offerti dalla politica: come nel suo caso il decadimento, anche biografico, della rappresentanza democristiana in alcune regioni del paese. O offerti dal cambiamento sociale: come il tumultuoso sviluppo di alcune aree del paese e le prime deludenti avvisaglie di rallentamento. Ma anche dalla ricerca: le varie teorie della Terza Italia, dei distretti industriali, del capitale sociale, lo stesso neomeridionalismo, le teorie sulla crisi di governabilità applicate all’Italia e via di seguito, hanno avuto la loro parte. La sapienza della Lega è consistita nell’utilizzare e miscelare codesti ingredienti per suscitare la Padania e offrirle rappresentanza finché il suo gruppo dirigente non ha fatto fallimento non solo per i suoi comportamenti palesemente immorali, ma anche per aver mancato le promesse di protezione avanzate al suo elettorato. A quel punto, la Lega ha avviato un processo di riconvenzione, ponendosi all’ avanguardia dello schieramento antieuro, anche a costo di dismettere l’antimeridionalismo su cui aveva costruito le sue fortune. Vedremo come finirà. Iniziative e riconversioni di questa fatta se ne avviano comunque da sempre e di continuo, anche se non tutte riescono a imporsi sul mercato politico, sia per loro debolezza intrinseca, sia per le reazione dei concorrenti.

Ma torniamo ai partiti in quanto istituzioni rappresentative. Opera dell’ingegno umano, la rappresentanza tant’è artificiale, quant’è discutibile e controversa. I regimi cosiddetti rappresentativi, tra cui rientrano gli attuali regimi democratici, hanno sostituito alla lotta violenta per il potere, alla guerra, una forma di competizione non violenta, dove i contendenti usano come armi le parole, e altri simboli, e i numeri elettorali. A buon diritto pertanto a politica, e la rappresentanza, sono la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Dove la prima posta che i contendenti si disputano è proprio la rappresentanza, nel senso che la contesa verte sull’ampliamento del proprio seguito mettendo in dubbio l’azione rappresentativa – e di raggruppamento – svolta dagli altri contendenti. Ci sarà sempre qualcuno pronto a sostenere che l’azione altrui di rappresentanza e di raggruppamento è mendace, illusoria, inefficace, con ciò candidandosi a prenderne il posto. Quando si parla di “crisi della rappresentanza” e di crisi dei partiti non si fa altro che metter in luce – non senza intenzioni politiche – la lotta endemica per la rappresentanza. Che è come dire che non c’è rappresentanza senza crisi e che denunciarla non è altro che uno tra i modi più frequentati di far politica.

Su questo sfondo la specificità dei partiti – di quelli di massa – risiede, oltre che nell’ essere istituzioni rappresentative, nella loro capacità di stabilizzare la rappresentanza. È una capacità che oggi appartiene alla storia. Anche se forse meno di quanto non appaia a prima vista. I partiti da qualche tempo cambiano a ritmo accelerato. Negano perfino di esser partiti. Ma per quanto disorientino, così facendo, gli elettori, questi ultimi sono tuttora piuttosto sedentari. I partiti cioè hanno in passato seminato assai bene e in profondità. Se non ci si lascia frastornare dalle oscillazioni provvisorie, i grandi schieramenti politici della destra e della sinistra sono rimasti piuttosto stabili sul piano elettorale. Gli elettori non si muovono erraticamente, ma si spostano tra partiti contigui e senza troppe esitazioni riconoscono le genealogie partitiche. E questo può ritenersi un effetto persistente dell’opera di fidelizzazione degli elettori, e di stabilizzazione della rappresentanza, compiuta dai partiti di massa, i quali erano delle formidabili macchine, appositamente attrezzate a questo scopo.

Il retroterra dei partiti di massa erano le classi, da essi costituite, e alla cui manutenzione essi provvedevano mediante apparati organizzativi imponenti e attivando dispositivi associativi e partecipativi di non secondario rilievo. Con migliaia di addetti professionali e di militanti e sostenute da investimenti finanziari cospicui. Non facciamoci intimorire dalla reputazione sulfurea del clientelismo. Anch’esso era un’efficiente tecnica di manutenzione. Insomma: i partiti hanno per lungo tempo operato come formidabili stabilizzatori, della rappresentanza, ma pure dell’azione di governo. Vuoi perché rappresentare – denominare e raggruppare – era già governare. Vuoi perché i partiti al governo – e all’opposizione, che era governo indiretto – beneficiavano di input stabili e consistenti di legittimazione.

Da qualche tempo in qua i partiti hanno cessato di svolgere questo compito. Si sono lasciati alle spalle elettorati piuttosto stabili, ma trascurano la loro manutenzione e stabilizzazione. Quali sono però le ragioni di questa scelta, forse neanche consapevole, quanto piuttosto inerziale? Si possono avanzare al riguardo, e sono avanzate, parecchie ipotesi. La più banale è che è cambiato il pretesto. L’impresa postfordista ha disperso le classi e con essi il pretesto fondamentale dei partiti. In realtà, le classi erano aggregate e integrate dai partiti. Niente esclude che, sia pure in forme diverse, grandi raggruppamenti sociali fossero compatibili col postfordismo. La seconda ipotesi insiste anch’essa sul pretesto: sono mutati i gusti dei cittadini delle democrazie avanzate. Il benessere ha sviluppato i bisogni “postmaterialisti” a scapito di quelli materiali. I cittadini non hanno più voglia di trascorrere le serate in sezione e le domeniche a vendere l’Unità. Preferiscono associarsi a Emergency usando la carta di credito e la domenica andarsene al museo e in trattoria. Posto che la premessa è alquanto dubbia, e che i bisogni materiali sono sempre piuttosto pressanti, chi dice tuttavia che i partiti non fossero fruibili in maniera più aggiornata? La terza ragione si suole ravvisarla nei media, il grande deus ex machina della politologia contemporanea: viviamo la politica in maniera diversa, i media ce la portano a casa e soprattutto ciò che conta è lo spettacolo. Ciò che non è detto è che i media possono essere utilizzati in molti modi, anche per informare e per coinvolgere. Una quarta ragione, forse più credibile, sta nel successo dei diritti individuali. Consacrate alcune acquisizioni sotto forma di diritti, per tutelarli è più agevole rivolgersi a un avvocato, o a una agenzia di advocacy, che non scendere in piazza. E se la mobilitazione dei diritti nutre ancora qualche sprazzo di attivismo, è un attivismo a corto raggio, provvisorio, che non ha certo la gittata dei partiti. Ma sono queste ipotesi davvero bastevoli a spiegare la grande metamorfosi dei partiti?

Schede e storico autori