I nuovi “indicatori di compliance” e le strategie di riduzione dell’evasione

Fernando Di Nicola discute la nuova strategia di contrasto dell’evasione fiscale annunciata da SOSE (Società per gli studi di settore) e MEF che prevede il superamento degli studi di settore e l’introduzione di indicatori che dovrebbero sia stimolare i contribuenti a dichiarare redditi più realistici sia a indirizzare i controlli verso i casi più incongruenti. Di Nicola giudica positivamente l’innovazione, e il conseguente abbandono dell'accertamento induttivo, ma sottolinea la rilevanza strategica dei controlli sull’emissione dei corrispettivi.

A settembre la SOSE, la Società per gli studi di settore, ha annunciato in un apposito seminario l’imminente superamento degli studi di settore – lo strumento statistico induttivo che, a partire da dati contabili ed extracontabili comunicati annualmente da imprese e professionisti genera una stima sui loro ricavi “plausibili”, ai quali dovrebbero salvo eccezioni adeguarsi – che verrebbero sostituiti da nuovi “indicatori di compliance”, in nome di una profonda revisione della strategia di contrasto dell’evasione da parte dell’Amministrazione Finanziaria. Come si spiega successivamente, la nuova strategia, dovrebbe infatti basarsi su un nuovo strumento del filone “induttivo” (di tipo statistico, presuntivo) mirato a stimolare l’emersione “spontanea” di imponibile e ad indirizzare meglio i controlli sostanziali, rinunciando agli accertamenti fondati sugli studi di settore.

Più di recente (Sole 24 ore del 6 ottobre), l’autorevole ex Ministro delle Finanze Vincenzo Visco ha scritto che sostanzialmente le attività di controllo ordinario della Amministrazione “non incidono minimamente sull’enorme stock di gettito sottratto al fisco, che gli esperti valutano in almeno 130-140 miliardi di euro l’anno, tra l’8 e il 9% del PIL, più del doppio dell’ evasione riscontrabile nei principali Paesi europei. Questo stock di gettito evaso rimane infatti costante anno dopo anno, dimostrando che l’attività di controllo non è particolarmente efficace per la riduzione strutturale del fenomeno”. Coerenti con queste affermazioni le ultime stime aggiornate Istat sull’economia non osservata, presentate il 14 ottobre scorso, dalle quali si evince che anzi c’è stato un leggero aumento dell’imponibile sottratto a tassazione.

C’è un qualche nesso tra questi due orientamenti? E gli studi di settore, che lo stesso Visco da Ministro cercò di potenziare nel 2006, sono davvero giunti al capolinea nelle forme che conosciamo?

La tesi che sostengo in questo articolo è che gli studi di settore erano pressoché defunti, come strumento statistico per l’accertamento, da almeno qualche anno, grosso modo dall’inizio della crisi del 2009; in realtà erano già segnati dall’appartenere ad un filone, quello cosiddetto “induttivo” (insieme al “redditometro”, e prima ancora ai coefficienti presuntivi ed alla “minimum tax”) che non poteva dare frutti significativi ed equi come strumento di accertamento automatizzato e di massa.

Il vizio di fondo degli strumenti induttivi, verso i quali era stata riposta forse un’eccessiva fiducia, era infatti la loro stessa natura statistica, che a prescindere dalla qualità degli strumenti utilizzati (e gli studi di settore per la verità presentano una metodologia di notevole qualità) non potevano catturare le naturali ed ineliminabili differenze di performance tra operatori di mercato, quelle differenze che ci fanno osservare di continuo aperture di nuove imprese e dolorose chiusure, anche poco tempo dopo costose aperture.

Detto in termini statistici, non era possibile la piena distinzione tra la devianza dovuta ai risultati effettivi (ricavi, nel caso degli studi di settore) legata alle diverse naturali performance, o al caso, e quella attribuibile a sotto dichiarazione o evasione fiscale. E pertanto era inevitabile essere tassati anche in parte in base a medie di risultato, anche quando tale risultato non fosse stato effettivamente conseguito. A peggiorare i risultati dello strumento statistico utilizzato contribuiva anche il fatto che, con criteri discrezionali, gli studi di settore venivano definiti non tenendo conto di una parte dei casi del database raccolto: o perché i valori di ricavo erano troppo bassi, oppure perché poco convincenti, con ciò distorcendo le stime prodotte. Infine, la variabile dipendente degli studi di settore non era il reddito imponibile, ma il ricavo, cosicché sussisteva ancora un margine di ridimensionamento delle imposte attraverso un gonfiamento “intelligente” dei costi da parte del contribuente.

A queste considerazioni, di natura statistica, si aggiungeva l’ovvietà della minore affidabilità di stime ispirate a rapporti stretti e uniformi tra strumenti di produzione e ricavi effettivi conseguiti nei casi in cui l’attività dell’impresa si riferiva a servizi anziché a beni: i professionisti e le imprese di servizi, infatti, potevano a ragione lamentare la modesta aderenza dell’impianto previsivo basato sugli studi di settore quando non c’era una produzione centrata su macchinari e beni materiali.

Contestualmente, e per questi motivi, c’era una certa ambiguità nel modo in cui venivano via via scritte le norme sul tema per non affermare sic et simpliciter il principio della liceità dell’accertamento su sole basi statistiche.

Da queste considerazioni si intuisce che il cammino dell’accertamento da studi di settore sia stato contrastato anche da sentenze dei giudici tributari che, da ultimo, con la Cassazione (sentenza n.15633/2014), hanno sancito che l’accertamento da studi di settore necessita del riscontro di ulteriori prove oltre alla mera difformità da quanto dichiarato.

Viste tutte queste limitazioni – che pure non hanno impedito di incrementare l’imponibile dichiarato ed il conseguente gettito fiscale – qual è stato dunque il ruolo principale svolto dagli studi di settore? Di gran lunga quello di esercitare una pressione, una moral suasion sul contribuente affinché adeguasse “spontaneamente” ricavi e redditi dichiarati, per evitare lo stress, le incertezze ed i costi di un eventuale contenzioso.

Per completezza va ricordato che l’adeguamento spontaneo da parte del contribuente avveniva solo in parte in forma osservabile e misurabile, cioè con esplicita rettifica extracontabile in aumento dei ricavi in sede di dichiarazione; era invece di incerta identificazione l’adeguamento attraverso una contabilità costruita a priori per essere coerente con quanto previsto dagli studi di settore, e quindi senza un’osservabile posta rettificativa in dichiarazione.

E’ a causa di questo insieme di considerazioni, e probabilmente di altre ancora, che è maturata la rilevante decisione di modificare il mix di obiettivi: da strumento di moral suasion ed accertamento induttivo (qualora la dichiarazione si discostasse significativamente da quanto previsto dagli studi di settore) alla funzione cruciale di strumento metodologico utile a selezionare al meglio i casi da controllare, oltre alla conferma degli inviti ad innalzare il reddito dichiarato sulla base di relazioni statistiche anomale. Non sarebbe ovviamente eliminata la naturale erraticità di stima in presenza di una variabilità naturale delle performance non legata alle sole variabili osservate.

Con l’occasione, è stata profondamente rivisitata la metodologia di identificazione dei risultati d’impresa, riportando esplicitamente valore aggiunto e reddito tra le variabili obiettivo (come si diceva gli studi di settore miravano invece a stimare i soli ricavi), stimando poi le funzioni su otto annualità di bilancio anziché una sola ed introducendo numerose altre migliorie statistiche, tra le quali la maggiore personalizzazione della stima. Non è al momento chiaro se i metodi statistici continueranno ad essere applicati a dati preliminarmente selezionati e modificati in base a considerazioni di attendibilità magari valide, ma discrezionali e incompatibili con l’adozione di stime inferenziali.

Ma a questo punto, con la riduzione di ruolo dei metodi induttivi ai fini dell’accertamento, ed il potenziamento della intelligence anche a fini di selezione dei controlli, non si può concludere senza chiedersi se queste modifiche di strategia, che in parte sono anche una ammissione di passata inadeguatezza strategica, dovrebbero comportare anche la modifica di altri strumenti della difficile ed articolata azione di contrasto dell’evasione.

In particolare, è stata ridimensionata forse frettolosamente, o per eccessiva accondiscendenza verso la benevolenza dei media, la fondamentale (e costosa!) azione di contrasto del principale generatore di evasione, e cioè il controllo della corretta emissione dei corrispettivi (fatture, ricevute, parcelle, notule). Che se non viene colta al momento della fornitura del bene o servizio, può generare contabilità sostanzialmente false ma formalmente perfette, inattaccabili anche a seguito di controlli molto impegnativi e altrettanto costosi a distanza di anni.

Le esperienze di questi anni ci hanno forse insegnato che le scorciatoie alla lunga producono risultati meno eclatanti di quelli che promettono, mentre un’azione di controllo sostanziale, fondata su campioni ben congegnati per ridurne il maggior costo ed aumentarne l’efficienza, possono esercitare una dissuasione magari meno ”spontanea”, ma più efficace.

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