Sergio Ferrari, Daniela Palma,

I nodi dello sviluppo italiano e l’insostenibile green economy

Come è giusto e ovvio, in un periodo di generale difficoltà economica come quella che sta attraversando l’Europa – anche se non mancano segnali di rallentamento nei BRICS – gli equilibri degli scambi commerciali e i relativi andamenti ricevono un’attenzione particolare. Infatti, non va dimenticato che, pur con alti e bassi, l’entità degli scambi commerciali a livello mondiale è pressoché sempre crescente, ma i saldi della bilancia dei pagamenti dei singoli paesi possono risultare significativamente in passivo, con forti ripercussioni sulla dinamica di crescita del Pil.

Per quanto riguarda l’Italia le cose, come è noto, non sono particolarmente brillanti essendo il valore complessivo dei saldi commerciali in crescente negativo. Anche i più recenti andamenti positivi traducono gli effetti di una diminuzione delle nostre importazioni come risultato della crisi economica interna piuttosto che di una recuperata competitività internazionale. Alla debolezza del settore manifatturiero si accompagna inoltre e non a caso, un’analoga debolezza del settore dei servizi. Tutto questo rappresenta un dato storico del nostro sistema economico, che veniva corretto a suo tempo con le ben note svalutazioni competitive. L’avvento dell’euro ha posto termine a queste svalutazioni e alcuni rimpiangono quel periodo che offriva quella apparente scappatoia, apparente in quanto consentiva per un po’ di “galleggiare” ma non certo di correggere i motivi di fondo delle debolezze competitive del nostro Paese.

Nella ricerca delle cause della debolezza della competitività dell’Italia si sono esercitati nel corso degli anni, a dire il vero con non poca fantasia, attori diversi con interessi diversi, che spesso hanno individuato cause, magari reali, ma, come si suol dire, di secondo o di terzo ordine. Il fatto è che anche quando si sono seguiti questi “consigli” ci si è trovati poco dopo a dover chiedere e a sperare in una nuova iniziativa politica. Ci sono, in definitiva, forti vuoti analitici nel dimostrare la forza interpretativa di quelle cause e di quegli interventi per cui non meraviglia che in una opportuna rassegna sui relativi consuntivi il Governo, con il Decreto sulla Crescita, abbia potuto decretare la fine di alcune decine di “vecchi” provvedimenti.

Tuttavia, stando all’attualità, una valenza molto simile a quella dei “vecchi provvedimenti” potrebbe emergere da un provvedimento che dedica una parte delle cifre di bilancio recuperate ad agevolazioni per le imprese per l’assunzione di personale con livelli elevati di formazione per i ruoli di ricercatore. Ora, che il numero di addetti alla ricerca nelle nostre imprese sia nettamente inferiore a quello che si verifica nei paesi sviluppati è una questione ben nota. Si tratta di un dato, peraltro, coerente con la minore spesa in ricerca da parte delle stesse imprese; ma da questo a ritenere che i nostri attori economici siano colti da una curiosa avarizia quando incontrano gli investimenti in ricerca, il passo è lungo e molto contorto. Si tratta di una ipotesi che se sarebbe strana anche in periodi di ristrettezza di risorse finanziarie, diventa del tutto inaccettabile se dovesse spiegare un comportamento pluridecennale quale quello che si è verificato nella nostra realtà. Se invece si prendesse atto che la spesa in ricerca delle nostre imprese è del tutto analoga a quelle delle imprese degli altri paesi avanzati là dove i confronti vengano fatti – come è corretto – a parità di struttura dimensionale e di specializzazione produttiva, si potrebbe, forse, incominciare a ragionare.

Se invece si voleva solo recuperare un po’di risorse sarebbe stato molto meglio e più consistente recuperare gli oltre dieci miliardi di euro all’anno che si è arrivati a perdere in termini di importazioni dall’estero di pannelli fotovoltaici, incentivando di fatto la ricerca e le politiche industriali dei paesi concorrenti. Un paradosso suicida condotto sotto la retorica della green economy, la quale se deve portare a consimili risultati, tutto può essere tranne che sostenibile. Non solo si tratta di un potenziale di occupazione al quale si rinuncia, ma anche e in contemporanea ad un analogo aggravio del Pil che si vorrebbe, invece, accrescere.

Resta, dunque, inalterata la necessità di affrontare il nodo della debolezza tecnologica dell’Italia in ragione della bassa specializzazione produttiva in settori avanzati, ad alta intensità di ricerca, che a livello internazionale beneficiano, tra l’altro, di una più elevata dinamica della domanda: se infatti non è questa la causa unica della perdita di competitività, è certamente tra le principali cause delle storiche difficoltà nazionali, per non dire che di questi tempi un paese che rinuncia ad una autonoma capacità di innovazione tecnologica, è un paese che si condanna, comunque, ad un ruolo marginale e di decadenza. Noi, come Paese, per ora abbiamo raggiunto un ritardo misurabile in alcuni lustri e poiché le capacità innovative sono il prodotto dell’accumulo delle conoscenze, ogni ulteriore ritardo ci costerà nel tempo, con gli interessi. Pensare di superare tutto ciò con qualche incentivo è fuori da ogni possibile razionalità. Ben altri sarebbero gli strumenti da mettere in campo.

Gli ostacoli per correggere questa storia sono molti. Anche e forse particolarmente di ordine culturale, incominciando dalle ottiche di breve termine che prevalgono in un contesto di piccole e medie imprese e di scadenze politiche misurate a mesi, dalle basi umanistiche della storia italiana, che pur potendo essere un punto di forza specifico della qualità dello sviluppo del nostro paese, si preferisce non confondere con i problemi dello sviluppo economico e sociale di questa epoca, conservandone una presunta superiorità. Ma oltre a ciò deve essere ricordato che per correggere una situazione come quella che si è venuta a determinare in Italia è necessario uscire dall’ipotesi che il mercato e i privati siano in grado di apportare, da soli, dei correttivi, se non altro perché – dopo decenni di assenza di una corretta politica industriale, questi sono, appunto, i risultati.

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