I mercati e il cambiamento climatico: il codice economico-finanziario del COP21

Elisabetta Magnani rivolge la propria attenzione alla recente Conferenza di Parigi sul cambiamento climatico e dopo aver elencato i principali risultati raggiunti, ricorda che obiettivo della Conferenza era soprattutto quello di creare le condizioni per un effetto-valanga capace di accrescere l’efficacia dei piani nazionali di riduzione delle emissioni e sottolinea che questo effetto dipende dal coinvolgimento dei privati e, in particolare, dei mercati finanziari. Magnani si chiede se questi mercati potranno svolgere questo compito senza creare una crisi finanziaria sistemica.

La  21esima edizione della Conference of the Parties (COP21) organizzata a Parigi  dalle Nazioni Unite nell’ambito della convenzione sul cambiamento climatico (UNFCCC) è stata avvolta nell’incertezza  fino a poche ore prima che l’11 dicembre venisse raggiunto l’accordo finale.

Come annunciato ufficialmente, i tre risultati fondamentali riguardano il limite “ideale” di 1,5 gradi C all’innalzamento della temperatura entro il 2100, la creazione di un fondo di 100 miliardi di dollari con cui i paesi ricchi si impegnano a contribuire all’adattamento dei paesi in via di sviluppo alle conseguenze dei cambiamenti climatici, e, infine, l’ impegno alla revisione quinquennale dei tagli alle emissioni.

Certo ci sono ragioni per dirsi soddisfatti. Per  limitare il surriscaldamento globale che sta mettendo a rischio la vita sul pianeta Terra occorreva l’accordo  tra più di 190 paesi e per  facilitare la soluzione di questo “dilemma del prigioniero” a 200 dimensioni si era partiti da una presentazione piuttosto drammatica degli scopi del COP21.

Ma come ha spiegato chiaramente Brad Plummer lo scopo del COP21 non era quello di raggiungere accordi globali sulla riduzione delle  emissioni  da realizzare a livello dei singoli paesi. Un approccio top-down di questo tipo fu adottato nel 1997 dalla conferenza che si concluse con il Protocollo di Kyoto il cui fallimento, secondo molti, fu dovuto alla mancanza di sostegno effettivo delle sue risoluzioni da parte di economie importanti quali gli Stati Uniti e il Canada. Per questo  non sorprende che dal 1997 le emissioni di anidride carbonica siano salite alle stelle, come dimostra il grafico.

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A differenza del Protocollo di Kyoto, il COP21 ha adottato un approccio bottom-up già sperimentato a Lima nel 2014, che si propone, più realisticamente di quanto sia stato  fatto al COP16 di Copenhagen nel 2009, di fornire coordinamento e di  strutturare una serie di iniziative e politiche economiche già adottate a livello nazionale per il taglio delle emissioni di gas responsabili del cambiamento climatico.

Sono in molti a ritenere che questa limitazione degli scopi abbia inciso sui risultati che COP21 poteva raggiungere e per questo gli esiti non devono essere considerati deludenti. Il COP21 si è è prefisso non  di salvare la Terra, anche se di questo si ha drammaticamente bisogno, ma più realisticamente di creare le condizioni per un effetto-valanga capace di intensificare gli sforzi e di elevare le ambizioni dei piani nazionali per la riduzione di emissioni, i cosiddetti “Intended Nationally Determined Contributions” o INDC. Questo effetto-valanga dovrebbe, peraltro, manifestarsi in tempi brevi perchè gli  INDC, nella loro formulazione attuale, sono a malapena sufficienti per evitare che la temperatura cresca più di  3 gradi C, cioè molto più sia degli 1,5 gradi C concordati  al COP21, sia dei 2 gradi C che gli scienziati considerano il limite oltre il quale sono elevatissimi i rischi di una catastrofe ambientale. In realtà, come spiegano molti, tra cui Stephen Harrison dell’Università di Exeter, fissare obiettivi di questo tipo non fuga l’incertezza sugli esiti dei tagli di emissioni, perché non sappiamo ancora quale relazione precisa intercorra tra la concentrazione di gas-serra  e la temperatura del pianeta.

Una delle sfide del COP21 è stata la definizione  del principio di differenziazione secondo cui le responsabilità nella lotta al cambiamento climatico devono essere comuni a tutti i paesi ma devono anche essere differenziate  in base ai  passati percorsi di sviluppo e alla  capacità di contribuire alla soluzione dei problemi ambientali causati dai cambiamenti climatici. Per esempio l’Indonesia e Stati Uniti sono tra i 10 maggiori produttori di gas-serra  ma per il principio di differenziazione è impensabile che contribuiscano in modo paritario alla soluzione del problema che hanno contribuito a creare.

Naturalmente le pressioni maggiori sono rivolte  ai principali responsabili delle emissioni ed in particolare ai primi 10,  visto che, come illustrano Johannes Friedrich, Mengpin Ge e Thomas Damassa del World Resources Institute, essi sono responsabili dei tre quarti delle emissioni inquinanti. Forti di queste statistiche, i piccoli della terra hanno giocato a Parigi un ruolo fondamentale: il non troppo ambizioso  limite di 1,5 gradi C sarebbe stato ancora meno ambizioso se le Isole Marshall non avessero svolto un’azione  di leadership nei confronti delle isole del pianeta ottenendo anche l’appoggio di USA, Brasile e alcuni paesi dell’UE.

Una delle misure comuni agli  INDC di paesi ricchi quali USA, UE, Australia e Giappone è il notevole incremento della  produzione di energia pulita e l’accelerazione dell’ abbandono delle fonti energetiche fossili come il carbone, il petrolio e il gas. Sebbene gli INDC nazionali siano di per sé insufficienti per assicurare il rispetto del limite di 1.5 gradi C i paesi ricchi potrebbero raggiungere quel risultato grazie ai segnali che  i loro piani nazionali potrebbero dare  al settore privato coinvolgendolo  nell’azione necessaria a  realizzare il cambiamento strutturale di queste economie (cfr. Elyse Myrans, 2015). Come Christiana Figueres, Segretaria Esecutiva dell’UNFCCC ha affermato di recente  le imprese private, e soprattutto le grandi multinazionali come IKEA, Apple, Google, sono le prime ad essere chiamate in causa, non solo perché possono investire nella loro produzione di energia rinnovabile, ma anche perché debbono sostenere la transizione a fonti di energia rinnovabile da parte di imprese più piccole, soprattutto se fanno parte della stessa Global Supply Chain.

Proprio questo processo di ristrutturazione economica, che l’accordo di Parigi  sottintende, fornisce la chiave di lettura del codice economico-finanziario del COP21. Vediamo perché.

Anthony Hobley, direttore del Carbon Tracker Initiative ha chiaramente affermato che  una delle dimensioni chiave del COP21 è il  riconoscimento che il cambiamento strutturale di cui le economie capitaliste necessitano non può essere realizzato unicamente dai  governi e dalle loro politiche economiche, ma deve necessariamente coinvolgere anche il  settore privato. Investimenti in beni pubblici (le cui caratteristiche salienti sono la non-rivalità e la non escludibilità) di questa natura e di questa entità richiedono necessariamente fondi pubblici. Ma questo può non bastare. Come ricorda Bill Gates, oggi  la spesa in ricerca e sviluppo per la  decarbonizzazione  dell’economia ammonta a pochi miliardi di dollari, mentre dovrebbe essere almeno tre volte più elevata. Il coinvolgimento diretto degli agenti economici privati appare indispensabile perché  l’uso di tecnologie pulite e di  fonti di energia alternativa raggiunga una massa critica. Tale coinvolgimento riguarda anche il  settore finanziario privato ed il sostegno che esso può dare a  iniziative di  decarbonizzazione dell’economia.

In questa prospettiva  un effetto cruciale del  COP21 dovrebbe essere quello di segnalare ai mercati finanziari che  la  lotta al cambiamento climatico è considerata ineludibile e improcrastinabile e verrà condotta con determinazione.  Solo  introducendo elementi di certezza in un ambiente altamente incerto il COP21 potrà rivelarsi un concreto e significativo successo.  Compito dei mercati finanziari sarà quello di tradurre i messaggi del COP21 nella lingua del economico-finanziario, parlando di  aumentato rischio e di maggior costo del capitale per i progetti d’investimento in combustibili fossili.

Si badi bene, il COP21 non trasformerà i mercati finanziari in catalizzatori di una nuova regulation tutta ecologista. Alla base di questi investimenti (in fonti di energia pulita) e disinvestimenti (in combustibili fossili) c’è ancora la logica del profitto. Non a caso Bill Gates ha  lanciato iniziative come la Mission Innovation e la Breakthrough Energy Coalition il cui obiettivo fondamentale è di accelerare la trasformazione delle economie in senso sostenibile, traendo al tempo stesso profitto da questa transizione. Gates è ben consapevole che più di un miliardo di persone vivono senza accesso alcuno a fonti elementari di energia e che quindi il fabbisogno di energia a livello mondiale è destinato ad aumentare molto, probabilmente del 50 percento entro il 2050. La possibilità di soddisfare questo fabbisogno con  fonti di energia pulita sarà soddisfatta solo se il linguaggio del COP21 si tradurrà in un linguaggio economico-finanziario che garantisce investimenti in energia pulita. Ma c’è di più. Vista l’importanza dei mercati finanziari per la formulazione di un codice tutto economico che spinga gli  investimenti e i consumi nella direzione voluta dal COP21, è legittimo dubitare che si stia chiedendo troppo a quegli stessi  mercati che di  recente hanno generato un enorme  rischio sistemico. In altri termini, le domande a cui è necessario dare risposta sono: che ne sarà del settore dei combustibili fossili dopo il COP21? Possono i mercati finanziari liquidare questi settori senza provocare scosse all’intero sistema economico mondiale?

Molti – e tra essi Madeleine Cuff, Senior Reporter di BusinessGreen –  ritengono che, nonostante il tam-tam del COP21 in favore della totale decarbonizzazione dell’economia mondiale, i combustibili fossili sono destinati a restare in circolazione ancora per molti anni. La Direttrice dell’International Energy Agency (IEA), Maria van der Hoeven, prevede che il 60 percento della domanda di energia continuerà ad essere soddisfatta da combustibile fossile per almeno un altro quarto di secolo, e ciò indipendentemente dallo scenario che si aprirà dopo la conferenza di Parigi.

Un effetto del COP21 sarà  probabilmente quello di creare aspettative di mercato talmente negative per il settore da rendere assolutamente non-economico lo sfruttamento di depositi di carbone ancora nel sottosuolo. In altri termini il valore di queste miniere potrebbe essere all’improvviso azzerato. Non è improbabile che la transizione a forme di energia rinnovabili contribuirà al declino del costo del petrolio e di gas metano al di sotto del loro break-even point: quello che può sembrare ancora oggi uno scenario di lungo periodo potrebbe trasformarsi in realtà nel giro di  pochi anni. Non è un caso che paesi come l’Arabia Saudita abbiano negoziato  al COP21 compensazioni finanziarie per le gravi perdite economiche che i paesi produttori di combustibili fossili potranno subire entro un breve termine.

Mentre ancora non è chiaro che ne sarà di settori come quello petrolifero e di produzione di gas, la sorte del settore del carbone appare segnata. Il World Energy Outlook della IEA del giugno 2015 fa proiezioni sulla domanda di carbone fino al  2030: ad una riduzione della domanda del 45 percento negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone si affiancherà il calo del 25 percento in India. Non sorprende, pertanto, la notizia comparsa sul Wall Street Journal secondo cui il più grande fondo d’investimenti della Norvegia, il Norges Bank Investment Management ha ridotto negli ultimi 12 mesi il capitale investito in miniere di carbone da 350 a 66 milioni di dollari.

Questa rapida evoluzione delle sorti di settori come quello del carbone avrà probabilmente effetti sulla stabilità dei mercati finanziari. Il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Camey, presidente del G20 Financial Stability Board, non ha escluso che gli effetti possano essere simili a quelli determinati dai mutui sub-prime  che condussero alla crisi finanziaria globale del 2008.

È lecito chiedersi se l’analogia tra crisi dei sub-prime e crisi dell’industria dei combustibili fossili sia appropriata. Ma i segnali di una futura crisi finanziaria globale in chiave ecologista non mancano: dalle ingenti somme coinvolte (migliaia di miliardi), all’alto rischio (per lo più non calcolato e ancora nascosto alla stragrande degli investitori).

È con un sorriso a denti stretti che osserviamo il  COP21 affidare a questi mercati finanziari il compito di cambiare (e salvare) il mondo. La storia ci insegna che forse è bene adottare un sano scetticismo sulla capacità dei mercati di rendere l’azione economica compatibile con uno sviluppo economico equo e sostenibile.

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