I baby boomer negli Stati Uniti invecchiano male? Una generazione perduta?

Giuseppe Costa e Morena Stroscia prendono spunto da un recente studio di Case e Deaton che mette in luce la tendenza al peggioramento della salute dei bianchi nordamericani di basso stato socioeconomico nati negli anni ’60 e ’70, soprattutto per cause legate al disagio (dipendenze, malattie epatiche e mentali). Costa e Stroscia analizzano criticamente la spiegazione offerta da Case e Deaton, che è incentrata sulla scarsa capacità di questa generazione di affrontare il peso dell’insicurezza socioeconomica associata ai periodi di crisi.

Da decenni la sopravvivenza nelle popolazioni dei paesi ricchi cresce a ritmi che sorprendono e sopravanzano anche le previsioni demografiche più rosee. Case e Deaton in un recente articolo sull’andamento nel tempo della mortalità negli Stati Uniti documentano per la prima volta un’importante e sorprendente eccezione. Negli Stati Uniti la mortalità tra i 45 e i 54 anni nella popolazione bianca non di origine ispanica negli anni 1999-2013 ha interrotto il precedente ritmo di discesa del due per cento all’anno (che invece continua a mantenersi tale per le altre due importanti componenti della popolazione americana, quella di origine ispanica e quella di colore non di origine ispanica, gruppi che si allineano a quanto accade nella media dei paesi OCSE) e ha incominciato a crescere di mezzo punto percentuale all’anno, in entrambi i sessi e quasi solo tra le persone di più basso livello di istruzione. Se nel periodo considerato la mortalità di questo gruppo avesse continuato a migliorare ai ritmi precedenti si sarebbero evitate, in 14 anni, quasi mezzo milione di morti premature negli Stati Uniti, un impatto molto significativo di dimensioni paragonabili solo a quello dell’epidemia da AIDS. Le cause responsabili di questa epidemia di crescente mortalità tra gli adulti bianchi americani sono in primis l’avvelenamento (rappresentato quasi esclusivamente da morti per overdose), quindi il suicidio e in ultimo le malattie croniche del fegato, correlabili a loro volta con l’infezione da virus dell’epatite e con l’abuso di alcool. In verità per queste stesse cause di morte si osserva un aumento di mortalità anche nelle fasce di età adulte più giovani e più attempate, come se la fascia 45-54 rappresentasse la punta di un iceberg che affonda radici nel resto di questa generazione di nati tra gli anni sessanta e settanta.

Anche gli indicatori di salute disponibili dai dati delle principali indagini campionarie su fattori di rischio e la salute dimostrano che nello stesso periodo, e per la nella stessa fascia di età,  si osserva un declino del livello di salute percepita, un aumento delle cause di dolore fisico, un declino della salute mentale, un aumento delle limitazioni funzionali, un aumento del consumo di alcol e degli indici di disfunzioni epatiche.

Il fenomeno sembra in buona parte legato all’epidemia da abuso di oppiacei che ha investito questa generazione di baby boomer. Case e Deaton avanzano due spiegazioni suggestive. Da un lato sostengono che la particolare vulnerabilità americana al fenomeno, rispetto al resto dei paesi OCSE, potrebbe essere un effetto indesiderato dell’autorizzazione all’uso terapeutico sul dolore degli oppiacei che è stata concessa negli stessi anni negli Stati Uniti. Questa politica avrebbe allargato la platea delle persone in stato di dipendenza e avrebbe creato un mercato dell’eroina di migliore qualità e di maggiore impatto sulle overdose. Inoltre per comprendere come mai il fenomeno sia confinato ai bianchi meno istruiti e non si sia propagato anche alle persone di origine ispanica e a quelle di colore, i due autori evocano una suggestiva spiegazione psicosociale. La generazione dei baby boomer bianchi meno istruiti, sarebbe la prima e più vulnerabile vittima della disillusione sulle gloriose sorti del progresso che si è  diffusa con il neoliberismo da Reagan in poi.  Uno sviluppo che non ridistribuisce più la ricchezza, aumenta le disuguaglianze e smette di includere sarebbe responsabile di colpire prima di tutto le speranze della generazione che più si era cullata nell’illusione di un continuo progresso e  che si sente improvvisamente fragile di fronte alle  prime crisi occupazionali degli anni Novanta e all’incertezza – ben maggiore che nei paesi europei-   dei meccanismi di sicurezza previdenziale e sanitaria. La dipendenza dalle droghe sarebbe la reazione a questa fragilità.

La società americana e la comunità internazionale hanno reagito all’epidemia da AIDS, altro fenomeno di proporzioni simili, con una mobilitazione senza precedenti che ha saputo contenere l’epidemia con la prevenzione e quasi annullare i danni sulla mortalità attraverso i nuovi farmaci antiretrovirali. Viceversa in questo caso il fenomeno è stato misconosciuto, non ha suscitato nessuna adeguata reazione e potrebbe lasciare un’eredità pesante nel profilo di salute e nelle necessità di assistenza di questa generazione. Per questo motivo Case e Deaton si dicono molto preoccupati per il futuro.

L’articolo lancia un allarme importante ma le spiegazioni del fenomeno che offre sono ancora approssimative e insufficienti sia per comprenderlo – ed eventualmente per contrastare i meccanismi che  ancora lo alimentano – sia per anticipare le sue potenziali conseguenze per il profilo epidemiologico e per il fabbisogno assistenziale di questa generazione nel futuro.

Da un lato, Case e Deaton indicano nel trattamento con oppiacei il meccanismo prossimale che potrebbe intermediare la nascita del fenomeno. Però l’effetto sostitutivo dell’indicazione terapeutica di oppiacei per il dolore per il mercato non legale dell’eroina di solito produce un consumo in maggiore sicurezza, che dovrebbe limitare i danni della dipendenza, ad esempio la frequenza di overdose e lo scambio di siringhe. Al contrario l’allargamento della platea delle persone in stato di dipendenza causata dalla facilitazione di accesso alla sostanza potrebbe aver reso disponibile eroina di migliore purezza, facilitando gli episodi di overdose, ma non è chiaro perché questo dovrebbe colpire nei suoi effetti collaterali solo i bianchi di bassa istruzione. Inoltre non si capisce se la contemporanea epidemia dei motivi di dolore fisico sia una causa o un effetto di queste nuove indicazioni terapeutiche degli oppiacei. Insomma la pista è suggestiva ma deve essere investigata con un disegno di studio più appropriato.

Dall’altro lato i due autori suggeriscono un meccanismo distale che individua nell’insicurezza circa il futuro, per il lavoro e per la copertura assicurativa su lavoro, salute e previdenza, la molla di adattamento comportamentale che ha reso questa generazione di bianchi nordamericani più vulnerabile alle storie di dipendenza e alle sue conseguenze sulla salute e sulla mortalità. In effetti è verosimile che la pari generazione di origine ispanica o di colore abbia sofferto della medesima minaccia ma provenendo da una storia atavica di incertezza che potrebbe averla resa più resiliente ai suoi effetti negativi. Inoltre la differenza con i paesi europei OCSE è anch’essa verosimile dato che questa generazione in Europa avrebbe vissuto la medesima minaccia in circostanze di maggiore protezione di un welfare tendenzialmente universalistico, almeno sul lato sanitario, e generoso seppur settoriale sul lato del lavoro e su quello previdenziale.

Inoltre il futuro impatto sul profilo epidemiologico e del bisogno assistenziale di questa generazione perduta e fragile, che entrerebbe nella vecchiaia in uno stato di maggiore suscettibilità alle malattie croniche, viene solo evocato senza spiegarlo adeguatamente. In verità uno scenario alternativo più rassicurante e altrettanto compatibile con i dati, potrebbe essere quello di un’epidemia in fase declinante che, da un lato, avrebbe “mietuto” i soggetti più fragili con questo fenomeno di mortalità prematura e, dall’altro, lascerebbe sul terreno una generazione di sopravvissuti selezionati per essere più resistenti e quindi con un profilo epidemiologico più sano e un fabbisogno assistenziale meno pressante.

E’ evidente che si tratta di piste di ricerca stimolanti per l’epidemiologia e la medicina in generale a causa delle potenziali implicazioni per la programmazione sia della prevenzione sia dell’assistenza sanitaria sia della sicurezza sociale anche nel nostro paese. Uno sguardo superficiale alle statistiche di mortalità italiane non lascia intravvedere nessun effetto macroscopico simile su questa fascia di età, anche se è noto dagli studi italiani sulla mortalità degli anni Novanta dei tossicodipendenti in trattamento che la coorte degli eroinomani presentava un picco di incidenza nelle morti direttamente o indirettamente correlate all’eroina soprattutto nelle fasce di età della stessa generazione (Ferri et al., “Mortality of drug users attending public treatment centers in Italy 1998-2001: a cohort study”, Epidemiol Prev., 2007). Inoltre analisi preliminari per coorte di nascita in popolazioni longitudinali avevano evidenziato primi indizi di un’interruzione e inversione del trend di diminuzione della mortalità per tutte le cause proprio nella generazione dei torinesi baby boomer di bassa istruzione, particolarmente tra i maschi (Costa et al., 40 anni di salute a Torino. Spunti per leggere i bisogni e i risultati delle politiche, in press). Inoltre nella stessa popolazione dello Studio Longitudinale Torinese è stato messo in evidenza tramite l’applicazione di frailty model un significativo effetto dei meccanismi di harvesting della mortalità prematura tra i soggetti di bassa posizione sociale che lascerebbero sopravvivere nelle età più anziane popolazioni selezionate, la cui protezione nei riguardi del rischio di morte diminuirebbe in modo significativo le ben note disuguaglianze sociali di mortalità a carico dei più svantaggiati, proprio tra gli anziani (Zarulli et al., “Mortality by education level at late-adult ages in Turin: a survival analysis using frailty models with period and cohort approaches”, BMJ Open, 2013).

Viceversa la ricerca italiana in campo economico e sociale potrebbe aiutare a gettare luce sull’impatto differenziale che le minacce alla sicurezza sociale, soprattutto quelle più severe dovute alla recente crisi economica, possono aver avuto sulle condizioni di vita e sul vissuto di questa generazione di baby boomer di bassa posizione sociale in modo da  comprendere meglio se questa debba essere il bersaglio di specifiche politiche di prevenzione del rischio e riduzione del danno non solo sanitario.

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