Globalizzazione, emigrazione e il futuro delle classi medie secondo Branko Milanovic

Michela Boldrini e Gabriele Dente illustrano i punti principali di una lezione tenuta di recente da BrankoMilanovic alla London School of Economics dal titolo “Globalizzazione, migrazione e il futuro delle classi medie”. Milanovic analizza il livello e l'andamento delle disuguaglianze nei paesi, tra paesi e a livelllo globale introducendo sia la nozione di “Ondate di Kuznets” sia quella di “rendita di cittadinanza”, che considera rilevante per comprendere i fenomeni migratori e l’evoluzione delle classi medie.

Il 27 Giugno scorso, a meno di una settimana dal referendum sulla “Brexit”, Branko Milanovic (Senior scholar al Luxembourg Income Study Center e grande esperto di disuguaglianze) ha tenuto alla London School of Economics una lezione dal titolo “Globalizzazione, migrazione e il futuro delle classi medie” in occasione della presentazione del suo nuovo libro Global Inequality: A New Approach for the Age of Globalization. Questa lezione è di grande interesse non  soltanto perché illustra le tendenze e i meccanismi della disuguaglianza all’interno dei paesi, tra paesi e a livello globale (cioè tra tutti i cittadini del mondo, come se il mondo fosse un unico paese) ma anche perché, come indica il suo titolo, permette di mettere a fuoco all’interno delle tendenze della disuguaglianza il fenomeno delle migrazioni e il suo rapporto con la globalizzazione.

Il primo  tema  affrontato è la diseguaglianza all’interno dei paesi. Milanovic mostra che essa ha conosciuto, negli ultimi 30 anni, un incremento nella media dei paesi di circa 2,5 punti percentuali. Il trend seguito dai paesi non è stato, tuttavia, uniforme. La disuguaglianza è nettamente  cresciuta in molti paesi sviluppati e in via di sviluppo (in Cina, ad esempio, l’aumento,, sia nelle zone rurali che in quelle urbane, è stato di circa 10 punti percentuali), ma è diminuita in altri. Una significativa  riduzione – nel complesso pari a circa 3,5 punti percentuali – si è avuta dove la diseguaglianza risultava maggiore negli anni ’80, in particolare nei paesi del Sud America.

Ma cosa ha portato all’incremento della disuguaglianza nella maggior parte dei paesi sviluppati? Milanovic sembra concordare con Piketty al riguardo: parte della crescita è dovuta all’aumento della dispersione salariale ma il ruolo principale lo ha avuto  la crescita dei redditi da capitale, che negli ultimi trent’anni anni, in paesi come gli Stati Uniti  e la Germania  ha determinato un incremento di oltre 10 punti percentuali della diseguaglianza dei redditi di mercato (ossia, al lordo delle imposte e al netto della  redistribuzione).   Ovviamente, ogni stato ha una propria regolamentazione fiscale e un sistema redistributivo differente, e se i tedeschi sono riusciti a tenere la disuguaglianza dei redditi disponibili (cioè dopo la  redistribuzione) ai livelli degli anni ’70 grazie al loro sistema di welfare, negli Stati Uniti si è  avuto un incremento di circa 5 punti percentuali, ossia il doppio rispetto alla media mondiale.

Milanovic, non si limita a descrivere i fatti, e propone una sua interpretazione aggiornando l’ipotesi nota come  “curva di Kuznets”. Secondo tale ipotesi, il livello di disuguaglianza in un paese dipende dal livello di reddito pro capite secondo una relazione ad U rovesciata: a bassi livelli di reddito corrisponde una bassa disuguaglianza, che va via via aumentando assieme al reddito fino ad un livello massimo: raggiunto questo livello, con l’aumentare del reddito la disuguaglianza interna tende a diminuire.

La novità introdotta da Milanovic è piuttosto semplice: la relazione tra reddito pro capite e diseguaglianza andrebbe pensata non come una curva ma come  una successione di onde o cicli per cui al crescere del reddito pro-capite, partendo da bassi livelli,  la disuguaglianza cade, poi cresce, poi di nuovo cade e così via. Questa ipotesi implica, in particolare,  che la diseguaglianza, una volta raggiunto il valore minimo  grazie al progresso tecnico ed alla crescita delle opportunità individuali dovute all’istruzione, può tornare a crescere per effetto  delle varie rivoluzioni industriali che cambiano gli equilibri del sistema. Si potrebbe così spiegare la crescita della disuguaglianza a partire dagli anni ’80 non prevista dalla curva di Kuznets, In Italia, ad esempio, il primo ciclo di Kuznets avrebbe raggiunto il suo minimo nel 1983, e da allora è ripreso il ciclo ascendente con un aumento della disuguaglianza di 5 punti.

I vari paesi potrebbero collocarsi sui diversi e successivi cicli di Kuznets. Ad esempio, l’Europa e gli Stati Uniti si troverebbero nella fase ascendente su un ciclo successivo a quello della Cina che avrebbe appena iniziato la prima fase discendente del periodo moderno. E questa considerazione ci porta, al tema della diseguaglianza tra paesi.

Per illustrare l’andamento della diseguaglianza fra paesi Milanovic utilizza un grafico, riportato in figura 1, in cui sull’asse delle ordinate sono presenti i percentili della distribuzione globale del reddito mentre sulle ascisse si trovano i percentili delle distribuzioni nazionali. Ogni punto del grafico permette, dunque, di capire dove una determinata classe di reddito nazionale si trova rispetto al reddito globale. Ad esempio, il grafico mostra che in India anche i più abbienti si posizionano sotto l’ottantesimo percentile globale, mentre circa il 50% degli indiani a minor reddito si trova nei primi due decili della distribuzione mondiale. Questa rappresentazione fornisce allo stesso tempo un’idea chiara di come il reddito di un paese sia effettivamente distribuito tra i cittadini, e della relatività delle nozioni di ”ricco” e ”povero” in paesi in diversa fase di sviluppo. Emerge immediatamente la distanza che separa i paesi sviluppati come gli Stati Uniti da quelli in via di sviluppo come l’India o la Cina:  i più  ‘poveri’ tra gli americani hanno un reddito superiore alla mediana globale mentre i più ‘poveri’ in Cina e in India sono tra i più poveri al mondo.

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La disuguaglianza tra paesi  ha probabilmente raggiunto il suo apice attorno al 1970: negli Stati Uniti e in  Cina (paesi che per la dimensione della loro popolazione esercitano un’influenza decisiva sull’andamento della disuguaglianza globale), tra il 1950 e il 1970 il reddito pro-capite di un americano (espresso in dollari a parità di potere d’acquisto) era pari a circa venti volte quello di un cinese; alla fine del primo decennio degli anni duemila questo rapporto scende a 4 ad 1, a conferma che  il fattore geografico influenza tutt’oggi la diseguaglianza dei redditi. Questa evidenza ha ispirato la definizione del “premio di cittadinanza” che non è altro che una rendita di cui gode chi nasce in uno dei paesi più ricchi per via di una circostanza esogena, ovvero il semplice motivo di esservi nato. Milanovic fornisce anche una stima empirica della dimensione di questo “premio”, basandosi su una serie di dati ricavati da indagini campionarie  condotte nel 2008 in oltre 100 paesi. La sua conclusione è che più dei due terzi della variabilità dei redditi tra paesi – indifferentemente dal percentile della distribuzione considerato – può essere spiegata dalla localizzazione geografica. L’esistenza di questa forma di rendita di cittadinanza mette in discussione l’esistenza di un’effettiva uguaglianza di opportunità e stimola ulteriori riflessioni sul tema, già centrale, delle migrazioni.

Con riferimento a queste ultime è facile intuire che se esiste un “premio” di cittadinanza, le persone che risiedono in un paese povero, trasferendosi in un paese ricco, avranno l’opportunità di aumentare il loro reddito. L’attrattività di un paese ricco dipenderà dall’ammontare della rendita attesa, in generale approssimata dal livello medio del reddito, e dal grado di disuguaglianza al suo interno,. I  paesi ricchi più egalitari saranno la meta prescelta da migranti low-skilled che andranno a collocarsi nella coda inferiore della distribuzione del reddito del paese ricevente, mentre quelli con maggiori disuguaglianze interne e un alto grado di mobilità sociale tenderanno ad attrarre migranti high-skilled che si andranno a collocare nella coda superiore della distribuzione. Ed è proprio per evitare di essere esposti ad un flusso sproporzionato di migranti del primo tipo che molti paesi con un welfare sviluppato applicano pratiche di selezione dei migranti, favorendo l’ingresso di quelli più ricchi e qualificati, anche attraverso forme di ”vendita” dei permessi di soggiorno e della cittadinanza. Se queste pratiche possono sembrare ottimizzanti dal punto di vista del singolo paese, risultano discriminatorie in una prospettiva globale, dato che alla discriminazione associata alla rendita di cittadinanza si aggiunge quella  per i paesi poveri (e i loro cittadini meno abbienti)  che vengono abbandonati dai membri della comunità più qualificati ed abbienti.

L’erezione di barriere ai flussi migratori costituisce dunque un ostacolo alla riduzione delle disuguaglianze globali, oltre che una negazione dei principi alla base del processo di globalizzazione che incoraggia il libero movimento di tutti i fattori produttivi. Di fronte alla tendenza emersa negli ultimi anni in molti paesi avanzati ad adottare politiche migratorie sempre più restrittive Milanovic propone l’introduzione di vari livelli e forme di cittadinanza per i migranti. E’, infatti, sua convinzione che vi sia un trade-off tra diritti di cittadinanza e flussi migratori: la concessione di diritti di cittadinanza “parziali” e differenziati consentirebbe di  aumentare il flusso migratorio totale e rendere l’operazione più accettabile per i  residenti.

Milanovic analizza, infine,  la disuguaglianza globale, a cui molto si è dedicato nella sua attività di ricerca, con l’obiettivo di fornire una visione complessiva della disuguaglianza mondiale, distinguendo i ruoli della diseguaglianza fra paesi e di quella interna ad ogni paese. Considerando i cittadini del mondo come se vivessero in un unico paese, fra il 1988 e il 2011 si osserva una diminuzione della diseguaglianza globale dato che l’indice di Gini del mondo si riduce nel periodo di circa cinque punti, da 72,2 a 67,0. Il  valore dell’indice  è ancora straordinariamente alto ma, per la prima volta, si osserva una sua riduzione, legata principalmente alla crescita del reddito pro capite in India e Cina.

La crescita estremamente veloce di alcuni paesi (India e Cina, in primis), ha esercitato dunque un effetto ambivalente sulla diseguaglianza globale: da un lato, è molto aumentata la  diseguaglianza interna al paese; dall’altro  si è ridotta la distanza con i paesi sviluppati e quindi la disuguaglianza complessiva tra paesi. La situazione attuale risulta quindi caratterizzata dalla coesistenza di due fenomeni divergenti: la disuguaglianza tra paesi diminuisce, quella interna ai paesi aumenta.

L’evoluzione della distribuzione globale del reddito negli ultimi anni è stata quindi influenzata in buona parte dal processo di globalizzazione, dal quale alcuni paesi e categorie hanno beneficiato più di altri. Come riporta la Figura 2, per ogni percentile della distribuzione globale, la crescita cumulata del reddito pro capite tra il 1988 e il 2011.  Da essa risulta chiaramente che il “vincitore” è la “classe media globale”, per lo più rappresentata dalle classi medie delle nuove potenze asiatiche, che ha visto il proprio reddito reale crescere di circa l’80% (punto A) e i cosiddetti plutocrati, ovvero coloro che si trovano al gradino più alto della distribuzione del reddito mondiale, i cui redditi sono sostanzialmente raddoppiati nel  periodo osservato (punto C). Al contrario, il gruppo che meno ha beneficiato dell’evoluzione economica avvenuta negli ultimi vent’anni è quello che si trova attorno all’80° percentile della distribuzione mondiale del reddito (punto B) che ha visto una crescita molto contenuta o nulla del proprio reddito disponibile; questo gruppo è composto dai cittadini dei paesi tradizionalmente ricchi che occupano la coda inferiore delle distribuzioni del reddito nazionali, in primis le classi medio-basse dei lavoratori.

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Il processo di globalizzazione sembra, quindi, aver portato ad un risultato per certi versi paradossale: mentre nelle nuove potenze asiatiche, le classi che maggiormente hanno beneficiato di questo processo sono state quelle medio-basse, nei paesi tradizionalmente avanzati queste classi sono risultate sostanzialmente perdenti alimentando così anche sentimenti di incertezza rispetto al futuro.

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