Gli incentivi che non incentivano

Civil Servant, riferendosi alla decontribuzione attuata con il Jobs Act, parte dalla considerazione che gli incentivi all’occupazione hanno dato risultati abbastanza modesti pur costando molto e sostiene che gli sgravi temporanei influiscono poco sulle decisioni delle imprese di espandersi perché queste dipendono dalla prospettive di lungo periodo. Quindi, secondo Civil Servant, gli incentivi dovrebbero concentrarsi sulle imprese in procinto ampliare la propria dimensione e quel che conta non è la loro generosità ma piuttosto la loro “qualità”.

Dal primo gennaio 2016 gli sgravi contributivi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato (divenuti solo “a tutele crescenti” da marzo 2015) sono stati dimezzati: da un massimo di 8.060 euro ad una percentuale pari al 40% del dovuto, con un tetto di 3.250 l’anno (con la sola eccezione del Mezzogiorno). Secondo i dati ancora provvisori dell’Inps, nel 2015 ne hanno usufruito quasi 1,6 milioni di contratti. Purtroppo solo una minima parte di questi ultimi si è tradotta in nuovi posti di lavoro. In buona parte dei casi si è trattato di semplici trasformazioni di vecchi contratti a termine o nella sostituzione (neanche integrale) del personale che è andato in pensione. Infatti, guardando al numero complessivo dei lavoratori in attività, l’Istat ci dice che nel 2015 quelli con un contratto a tempo indeterminato sono aumentati di circa 114.000 unità rispetto all’anno precedente, che corrispondono a circa l’8% dei contratti incentivati.

E’ difficile valutare quanta parte di questo piccolo miglioramento sia ascrivibile agli incentivi o al Jobs Act, e quanta derivi invece da un fisiologico processo di recupero dell’occupazione dopo la peggiore crisi degli ultimi 100 anni. Servirebbe un esperimento controfattuale, che però in economia è quasi impossibile. Per ragionare sull’efficacia della misura bisognerebbe allora valutare il costo per il bilancio pubblico per ogni nuovo posto di lavoro effettivamente creato tramite gli sgravi.

Al momento, non ci sono ancora cifre ufficiali sul costo complessivo degli sgravi: di sicuro si sa che per il 2015 sono stati stanziati 1,9 miliardi, ma già a settembre i consulenti del lavoro lamentavano che, in base al numero delle richieste pervenute, sarebbero stati necessari, per il solo 2015, almeno altri 3 miliardi, ma, presumibilmente, l’impatto complessivo degli sgravi sul bilancio pubblico potrebbe essere inferiore dato che molti dei nuovi contratti incentivati sono part-time e hanno, quindi, una retribuzione inferiore a quella corrispondente allo sgravio massimo previsto dalla legge, come mostrato nella scheda di Fana e Raitano, in questo numero del Menabò. La scheda stima anche a regime un costo annuo netto per il bilancio pubblico di circa 5,6 miliardi, nel caso in cui, nonostante la maggiore flessibilità introdotta dal Jobs Act, i rapporti di lavoro incentivati dovessero effettivamente durare per 36 mesi. In base alle stime sull’aumento occupazionale fornite dall’Istat, nel triennio di durata degli sgravi,ogni occupato stabile in più sarebbe dunque costato al contribuente circa 50.000 euro l’anno. A conti fatti, sarebbe stato più conveniente assumere per scavare e ricoprire buche.

Non è la prima volta che degli incentivi alle imprese finiscono per costare troppo e per dare risultati, tutto sommato, deludenti. E’ già accaduto con i vari crediti di imposta e con altri sconti sul costo del lavoro. C’è quindi da chiedersi se simili misure siano veramente efficaci. In realtà, si tratta di strumenti che sembrano derivare da una visione molto naïve dei processi decisionali delle imprese in cui ciascuna azienda cresce attraverso una sequenza di piccoli adeguamenti marginali degli organici e degli impianti, pronti a rispondere a qualsiasi incentivo che riduca anche momentaneamente il costo del lavoro e del capitale. L’esperienza internazionale, invece, mostra che le imprese crescono o si ridimensionano in modo discontinuo, attraverso una sequenza irregolare di “salti” piuttosto ampi nel numero di occupati e nel capitale investito. Basta scorrere la storia di qualsiasi impresa di successo nata in un garage e diventata multinazionale per convincersene. Il meccanismo è semplice: da una buona idea nasce un prodotto che si afferma sul mercato e a quel punto l’imprenditore ha due strade davanti a sé. Se si accontenta della sua nicchia di mercato punta su prodotti di élite con margini di profitto molto elevati e volumi di produzione limitati (e questa è la soluzione preferita da molti marchi del lusso). Se invece l’imprenditore è più ambizioso scommette sui grandi numeri, che richiedono necessariamente un salto dimensionale da realizzare con l’aiuto di altri soci e del mercato finanziario (e questo non fa parte soltanto del mito americano, ma anche della storia di parecchie imprese del made in Italy).

In tutti i casi, è chiaro che le decisioni sulla crescita (o sul downsizing) di un’impresa non vengono prese a cuor leggero e dipendono soprattutto dalle prospettive a lungo termine della domanda potenziale, della profittabilità e del costo del capitale. Tutto ciò che non incide su questi fattori strutturali, come qualche sgravio temporaneo sul costo del lavoro e sugli investimenti, ha solo un effetto secondario sui piani delle imprese. D’altra parte, il peggiore incubo di qualsiasi imprenditore è quello di non poter tornare indietro dopo un salto dimensionale. A quel punto, licenziamenti e demansionamenti più facili, come quelli introdotti dal Jobs Act, o qualche risparmio sul costo del lavoro sono l’ultimo dei problemi per chi è sull’orlo del fallimento.

Gli economisti che progettano sgravi e incentivi sembrano fermi ad una concezione del mondo assolutamente superata, in cui tutto è fluido e si muove a passi infinitesimali, che possono essere indirizzati da piccoli incentivi in una direzione o nell’altra. Eppure questa visione è stata superata da almeno un paio di secoli da chimici e fisici, che si sono dovuti rassegnare al fatto che materia ed energia non sono entità continue, ma sono composte da “granuli” discreti. E questo cambia radicalmente il modo di trattarle. Già alla fine del Settecento i chimici avevano capito che gli elementi si combinano tra loro solo secondo proporzioni definite e costanti. Quindi è inutile mescolarli secondo ricette diverse, perché ogni singolo atomo deve incontrare i suoi compari per formare i composti desiderati. Quelli che non ci riescono rimangono inoccupati.

Per esempio, aggiungendo un po’ di ossigeno all’acqua questa non si sente affatto “incentivata” a trasformarsi tutta in acqua ossigenata, almeno fino a quando il volume dell’ossigeno non è esattamente pari alla metà dell’idrogeno che già contiene (e anche allora la reazione richiede qualche aiutino). Allo stesso modo, non succede nulla ad un pezzo di metallo fino a quando non lo si illumina con una luce del colore giusto, in cui i fotoni hanno un’energia sufficiente a strappare almeno un elettrone ai suoi atomi, producendo una debole corrente elettrica. Se la luce ha una frequenza troppo bassa (ovvero tende al rossiccio) non succede nulla, anche se l’incentivo luminoso è molto potente, contrariamente alle predizioni della fisica classica. Invece basta anche una debole radiazione ultravioletta per generare corrente. Tutto questo avviene perché l’effetto fotoelettrico deriva dall’interazione tra ogni singolo fotone e ogni singolo elettrone, invece che tra un intero fascio di luce e tutti gli atomi di un pezzo di metallo. E nei duelli, a differenza delle risse, conta il valore dei contendenti piuttosto che il loro numero.

Un fenomeno del genere è stato osservato anche nel mercato del lavoro, dove il salario non è determinato tanto dal rapporto tra posti vacanti e disoccupati, ma da quanti di questi possiedono esattamente le capacità richieste dalle singole imprese. Tutti gli altri non contano, esattamente come un esercito di tristi fotoni ciascuno troppo debole per disturbare gli elettroni. Nonostante queste evidenze, molti economisti sembrano ancora fermi alla meccanica classica di Galileo e Newton, dove si confrontano masse e forze omogenee al loro interno. Eppure questi infaticabili progettisti di incentivi utilizzano tutti i giorni strumenti digitali, che sfruttano proprio tecnologie discontinue.

Per fortuna l’economia non è una scienza esatta come la fisica, e quindi anche gli incentivi tradizionali possono avere qualche effetto sulla domanda di lavoro e di capitale, se non altro perché qualche spicciolo va a finire casualmente proprio alle imprese che sono indecise tra compiere un salto dimensionale o no. Tuttavia questa strategia è estremamente dispendiosa ed inefficace, quasi quanto bombardare di luce un pezzo di metallo sperando che produca corrente. Oltre tutto, gli incentivi a pioggia finiscono per essere un regalo immotivato per chi avrebbe comunque effettuato aggiustamenti di routine, come quelli dettati dal turnover fisiologico del personale e dei macchinari.

E’ vero che gli incentivi automatici, come gli sgravi contributivi e il credito di imposta, hanno il vantaggio di essere semplici e di non essere soggetti a procedure di autorizzazione più o meno soggettive, che comportano incertezze interpretative e rischi di corruzione. Tuttavia non è troppo difficile disegnare incentivi più selettivi anche senza ricorrere a controlli sovietici e procedure bizantine. Ad esempio, è improbabile che un’impresa che operi da tempo vicino al massimo della propria capacità operativa non pensi ad un percorso di crescita. Se è così, un incentivo concentrato solo su queste unità avrebbe effetti di rilievo a livello macroeconomico. Per individuarle basterebbe monitorare il ricorso al lavoro straordinario e alle collaborazioni esterne, che sono chiari segnali di un elevato grado di utilizzo delle dotazioni di personale e macchinari esistenti. Visto che, a torto o a ragione, straordinari e collaborazioni godono di un diverso regime fiscale e previdenziale, queste informazioni sono già a disposizione dell’Inps e dell’Agenzia delle Entrate e quindi possono essere sfruttate almeno per puntare il cannone degli incentivi nella direzione giusta, senza aggravi burocratici per le imprese.

Nessuno può illudersi che soluzioni così semplici possano risolvere problemi complicati come quello dello sviluppo economico e dell’uscita da una crisi, e bisogna riconoscere che il ricorso a dati amministrativi per l’erogazione degli incentivi presta il fianco ad abusi e manipolazioni. E’ anche vero che parecchi incentivi “condizionati” non hanno dato grandi risultati negli ultimi tempi. Ad esempio, ha prodotto ben poco il “decreto Giovannini”, che subordinava gli sgravi contributivi per i nuovi assunti al fatto che l’impresa beneficiaria aumentasse i propri organici, cosa improbabile nel bel mezzo di una crisi. In fondo, è stato come immettere ossigeno in un bicchiere di acqua che si era già trasformata tutta in acqua ossigenata. Hanno deluso anche i vari T-LTRO lanciati dalla Banca Centrale Europea, ossia le iniezioni di liquidità subordinate al fatto che le banche le utilizzino per concedere credito a famiglie e imprese. In questo caso, per riprendere l’esempio dell’effetto fotoelettrico, le banche hanno preferito crogiolarsi alla riposante luce dei titoli di stato e la BCE non ha trovato banconote del colore giusto per convincerle a concedere prestiti altrettanto privi di rischio.

Nonostante queste difficoltà, è tuttavia paradossale continuare a disperdere risorse pubbliche attraverso erogazioni a pioggia che al massimo finiscono per essere un generico sostegno alla domanda aggregata di stampo vetero-keynesiano.

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