Gli immobili, i Comuni e la prima casa

Ruggero Paladini ricorda le ragioni per le quali è giustificato che i servizi offerti dai Comuni siano finanziati con la tassazione degli immobili ma sottolinea anche le condizioni alle quali deve corrispondere questa tassazione. In particolare deve essere basata sul valore degli immobili diversamente da quanto avviene oggi in Italia. Paladini, inoltre, indica i problemi che pone l’esenzione della prima casa e illustra alcune proposte che potrebbero superare questi e altri problemi collegati alla tassazione degli immobili.

I servizi comunali hanno una notevole influenza sulla nostra vita quotidiana, la possono migliorare o peggiorare in modo significativo. Sono servizi rivolti innanzitutto ai residenti, ma anche in generale a tutti coloro che si trovano in un comune per turismo o per lavoro (da qui la tassa di soggiorno). Molti di questi servizi hanno la caratteristica propria dei beni pubblici, sono cioè non rivali e non escludibili. Ma anche quelli escludibili presentano comunque notevoli esternalità.

A differenza sia dei beni pubblici rivolti alla generalità dei cittadini – come la giustizia e l’ ordine pubblico – sia  dei grandi servizi sociali – come la sanità, l’istruzione e la sicurezza sociale – dove si dovrebbe avere un’alta uniformità nelle prestazioni, nei beni locali la differenziazione ha più spazio d’azione, e quindi ha più senso la compresenza del criterio della capacità contributiva con quello del beneficio. La domanda allora è la seguente: sono i redditi, i consumi o gli immobili dei cittadini, ad avere la  relazione più stretta con i servizi generali del Comune?

Penso che si converrà nel rispondere che la relazione più stretta è con gli  immobili e  più precisamente con il loro valore o prezzo.  E ciò vale quale che sia il punto di vista: quello dei fruitori, cioè di coloro che usano l’immobile, o  quello dei proprietari. In Francia si distingue tra questi due aspetti e si prevedono due imposte diverse, la tax fonciere, che grava sul proprietario, e la tax d’habitation, che grava sull’usufruttuario. Il  proprietario che risiede nella casa paga entrambe le imposte,  anche se con una riduzione. Il gettito della tax d’habitation va principalmente al Comune, mentre la tax fonciere affluisce al Dipartimento e alla Regione. L’introduzione della Tasi al fianco dell’Imu ha quindi un senso, anche se un risultato analogo lo si potrebbe ottenere con una sola imposta distribuita tra proprietario e residente, lasciando un margine di autonomia al comune nel decidere le quote.

Vi è però una condizione necessaria affinché il principio del beneficio affianchi quello della capacità contributiva nel finanziamento dei Comuni, e cioè che i valori degli immobili siano identificati, se non in modo perfetto, almeno in modo accettabile.  Questa condizione fino ad ora non è stata soddisfatta:  la revisione del sistema catastale era uno dei punti significativi della legge delega in materia fiscali, ma è stato messa da parte. In media i valori catastali sono pari a circa il 45% dei valori di mercato, ma questa è, appunto, solo la media; a seconda dell’età dell’immobile o della zona le differenze possono salire o scendere notevolmente e si hanno anche casi, in particolare nel Sud, in cui i prezzi sono oggi inferiori  ai valori catastali. Prima dell’innalzamento  da 100 a 160 del “moltiplicatore” delle rendite catastali lo scarto era ancora maggiore, ma le differenze relative sono rimaste immutate. Nella proposta Nens sulla revisione della tassazione immobiliare una dei punti qualificanti è proprio quello di basare le rendite catastali sui valori calcolati dall’OMI (Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate), riducendoli di un 10% per ragioni precauzionali. Dal valore della casa va sottratto il mutuo ipotecario residuo, dato che in tale modo si indentifica, in un certo anno, quale è il valore netto per il  proprietario.

Vengo ora al punto dolente della “prima casa”. Non c’è bisogno di argomentare sulle ragioni che hanno spinto Berlusconi prima e Renzi dopo a proporre di esentare la casa dove risiede il proprietario. Mentre in Francia il soggetto paga entrambe le imposte (ridotte) in quanto proprietario ed usufruttuario, in Italia non ne deve pagare nessuna (a parte la Tari sui rifiuti). Dubito poi che nella prossima campagna elettorale francese la questione verrà sollevata da qualche forza politica. Quanto all’argomento che la casa in cui si risiede non dà reddito, perché proprietario ed affittuario sono la stessa persona, non credo che sia necessario aver studiato economia per capirne l’inconsistenza. Al più possono esserci alcuni casi di illiquidità (persone anziane o che hanno perso il lavoro) che però non è difficile gestire, dato che l’imposta ha natura reale e quindi rimane, per così dire, sull’immobile.

La mistica della “prima casa” porta poi a ovvie complicazioni per esempio nei casi in cui, per ragioni di lavoro, una persona debba spostare la residenza in una casa in affitto. Possiamo supporre che l’affitto da pagare  sia compensato da quello che si riceve sulla casa di proprietà; tuttavia su quest’ultimo grava l’imposta (Irpef o più probabilmente la cedolare secca) ed inoltre c’è da pagare anche l’imposta immobiliare sulla “seconda casa”.- sempre che, naturalmente, il tutto non avvenga in nero. Fenomeni come questi esistevano anche ai tempi dell’ICI, data la tendenza dei Comuni a differenziare le aliquote tra le prime case e le altre. Già allora vi erano coniugi che trovavano conveniente separare le residenze, ma ovviamente il fenomeno si amplifica con l’esenzione totale delle prime case.

Bè, totale proprio no, perché sembra che, in seguito ad un ripensamento del Governo, le case A1 (signorili), A8 (ville) e A9 (castelli) continueranno a pagare l’imposta immobiliare. Un’ eccezione che dal punto di vista della logica  secondo cui “sulla prima casa non vi deve essere imposta” non ha senso: possono benissimo darsi  casi in cui un appartamento A2, 5° classe, ha un valore catastale superiore a quello di un appartamento A1. Ma allora non sarebbe più logico introdurre  una detrazione molto alta,  ad esempio 1.000 euro (cinque volte la Tasi 2014), su tutte le abitazioni, da A1 ad A9? Gli effetti pratici sarebbero gli stessi.

Nella proposta Nens si va in una direzione opposta a quella che intende prendere il governo. La distinzione tra casa di residenza e altri immobili viene praticamente meno, con un’aliquota base pari a 0,25% (2,26% per gli altri immobili); per le  imprese l’aliquota è lo 0,3%, con la deducibilità dell’imposta immobiliare da quella sul reddito. Nella proposta vi sarebbe un aspetto redistributivo negativo, perché la proprietà degli immobili come seconde case, fabbricati non residenziali e simili, è concentrata sul decile di reddito familiare più alto. A correggere questo effetto interviene una detrazione in percentuale sul valore imponibile, con un pavimento (ad esempio non meno di 80 euro) ed un tetto (non più di 240 euro). Questo sistema è preferibile ad una detrazioni fissa, come  quella in vigore  ai tempi dell’ICI; infatti la detrazione fissa tende a ridurre troppo il gettito dell’imposta nei comuni più piccoli, dove oltre il 50% dei residenti non versa l’imposta, mentre questa percentuale scende molto nei comuni più grandi.

Per quanto riguarda l’imposizione erariale, cioè che non va ai Comuni, la situazione non è soddisfacente. Il peso della tassazione sui trasferimenti degli immobili è troppo alta, e quella sugli affitti soffre di  una cospicua evasione, anche dopo l’introduzione della cedolare secca sugli affitti delle abitazioni. La soluzione proposta da Nens è di ridurre sensibilmente il prelievo sui trasferimenti, di abolire quello sugli affitti, introducendo un’imposta a carattere progressivo sull’insieme del patrimonio immobiliare dei nuclei familiari.

Come nel caso dell’imposta di solidarietà francese, è  prevista una fascia esente, e  le aliquote sono a scaglioni e raggiungono l’ 1% per valori superiori ai cinque milioni. Nell’articolo di Fernando Di Nicola in questo numero del Menabò si suggerisce un’ipotesi di inserimento dei redditi figurativi di mercato nell’Irpef; è un’ipotesi alternativa che va esplorata. Secondo Di Nicola la proposta Nens sarebbe troppo sbilanciata a favore della fascia più alta delle famiglie. Se è così, si dovrebbe prevedere un aumento dell’imposta progressiva, riducendo la soglia esente, ed aumentando le aliquote degli scaglioni; anche le aliquote dell’imposizione immobiliare e la detrazione possono essere modificate per accentuare l’effetto di progressività.

In entrambi i casi (la patrimoniale secondo Nens o l’inserimento in Irpef secondo Di Nicola) viene comunque superata l’idea di imposizione degli affitti sulla base dei valori dichiarati, che risultano spesso molto inferiori al vero o assenti del tutto. Passare ai valori degli immobili, o a rendimenti di mercato stimati, secondo un tasso applicato ai valori, permetterebbe di risolvere il problema dell’evasione.

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