Evoluzione ed efficacia degli strumenti dell’Unione Europea per la tutela dello stato di diritto negli Stati membri

Luigi Salvia descrive e analizza gli strumenti - al momento ancora di soft law - a disposizione della Commissione Ue e del Parlamento europeo per prevenire e sanzionare possibili violazioni dei principi dello Stato di Diritto da parte degli Stati membri. Salvia, dopo una disamina delle diverse letture del concetto di «Stato di diritto», si sofferma anche sui punti di forza e sulle criticità dei meccanismi di reazione previsti dai Trattati europei, alla luce dei recenti sviluppi politici nell’Europa orientale che sembrano richiedere nuovi sistemi più flessibili e di più incisiva applicazione.

Le turbolenze che hanno agitato la frontiera orientale dell’Europa e che hanno condotto all’instaurazione di governi sempre più orientati su posizioni autoritarie e nazionaliste, hanno posto con forza il dubbio in merito alla necessità di un intervento delle istituzioni europee a tutela dei principi fondanti dello Stato di diritto, e degli strumenti giuridici più efficaci attraverso cui realizzarlo.

A tale scopo, la Commissione e il Parlamento europeo hanno di recente elaborato alcuni documenti (Commissione Ue, COM(2014) 158, «Un nuovo quadro dell’UE per rafforzare lo Stato di Diritto» e Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2016 recante raccomandazioni alla Commissione sull’istituzione di un meccanismo dell’UE in materia di democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali 2015/2254 INL) aventi, per ora, solo valore di indirizzo e quindi, per loro stessa natura, in grado soltanto di arginare debolmente i fenomeni sempre più gravi di superamento o di rottura dei principi dello Stato costituzionale democratico, che fino a qualche tempo fa apparivano del tutto invalicabili.

La locuzione «Stato di Diritto» non possiede di per sé un significato univoco, anche se in estrema sintesi appare riconducibile a due sostanziali letture. La prima formalista, che è il risultato di un’elaborazione posta come caposaldo dello Stato liberale ottocentesco, che presuppone la sottrazione delle scelte pubbliche all’arbitrio proprio dell’antico regime e postula la limitazione del potere attraverso la legge, il controllo degli organi rappresentativi sugli esecutivi e la garanzia di una giurisdizione imparziale; la seconda sostanzialista, emersa in seguito all’affermazione dello stato sociale e alla fine degli stati totalitari, è volta invece alla garanzia sostanziale dei diritti fondamentali dell’individuo, visti come valori universali da tutelare anche nei confronti della legge stessa, a prescindere dalla legittimazione democratica.

Nella continua tensione tra le due diverse nozioni, si è affermata, anche alla luce dell’ampliamento degli strumenti di tutela sovranazionale dei diritti fondamentali, un’ulteriore idea di “Stato di diritto internazionale” (R. Bin, Stato di diritto, in Enc. Dir., Ann. IV, Milano, 2011), teso a far prevalere il rispetto di determinati canoni anche al di là dei confini degli Stati, e dunque necessariamente al di fuori del circuito immediatamente rappresentativo-democratico, a garanzia dei valori ritenuti indisponibili ed irrinunciabili.

In questo contesto, l’Unione Europea ha progressivamente ambito ad acquisire i connotati di una comunità non solo economica, ma anche sociale, nel più ampio senso del termine, come solennemente affermato nell’art. 2 TUE, anche alla luce delle sue matrici culturali ed “ideologiche”, se solo si pensa ai principi accennati nel Manifesto di Ventotene o nella Dichiarazione Schumann del 1950. Ciò ha implicato che strumenti per la garanzia dei diritti fondamentali si siano affermati in modo sempre più incisivo, basti pensare alla parabola della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, redatta con valore meramente dichiarativo nel 2000, ed in seguito recepita con lo “stesso valore giuridico dei Trattati” nel Trattato di Lisbona del 2007 (art. 6 TUE).

Tuttavia le affermazioni di principio non sono valse da sole a rendere effettiva la protezione dei diritti fondamentali. La viva preoccupazione delle istituzioni europee, emersa negli ultimi anni in relazione ad alcuni comportamenti dei governi dei paesi dell’est Europa, è stata espressa, per l’appunto, attraverso l’adozione di atti volti a istituire un meccanismo di enforcement efficace per le norme europee a tutela di principi e diritti fondamentali.

In primo luogo si segnala il meccanismo di cooperazione e verifica che si è attivato nell’ambito della procedura di adesione di cui all’art.49 TUE – da ultimo nei casi di Romania e Bulgaria (Decisione C 2006/6570) – attraverso cui la Commissione europea interagisce e negozia determinate pratiche con gli Stati candidati, con l’obiettivo di assicurare il rispetto dei valori enunciati all’art. 2 TUE – tra cui è indicato lo Stato di Diritto.

Non è tuttavia previsto nei trattati un simile meccanismo nei confronti degli Stati Membri. Una violazione talmente grave da attentare ai principi di democrazia e Stato di diritto fu valutata come una eventualità remota, in relazione alla quale fu ideata una procedura basata essenzialmente sul metodo intergovernativo. L’art. 7 TUE prevede, infatti, che il Consiglio possa approvare, in caso di «violazione grave e persistente», dei provvedimenti preventivi e poi eventualmente sanzionatori, arrivando a sospendere alcuni diritti derivanti dall’adesione all’Unione nei confronti dello stato autore della violazione, tra cui il diritto di voto nel Consiglio stesso. La soglia necessaria per l’attivazione di tale meccanismo, che deve necessariamente tenersi molto alta anche alla luce delle gravi conseguenze che comporta, oltre che l’unanimità richiesta in sede di valutazione della violazione in Consiglio, rendono in concreto molto difficile pervenire all’irrogazione di una sanzione. L’art. 7 TUE non appare pertanto uno strumento efficace per reagire a violazioni dei principi dello Stato di diritto apparentemente meno eclatanti, ma nella sostanza altrettanto preoccupanti. Ciò appare confermato dal fatto che, nonostante i numerosi episodi di rischio, la procedura di cui all’art. 7 non sia mai stata attivata.

D’altro canto la Commissione Europea è competente, sempre in virtù del disposto dei trattati (art. 258, TFUE), per la promozione di procedure di infrazione nei confronti degli stati membri che si rendano autori di violazioni del diritto comunitario. Tuttavia, neanche tale meccanismo appare idoneo alla risoluzione dei problemi legati alle violazioni di principi fondamentali dello Stato di Diritto, poiché, in questi casi, il presupposto fondamentale è dato da una violazione specifica di una norma di diritto dell’Unione, tra le quali non possono ricomprendersi né previsioni di carattere meramente interno, né le disposizioni della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, la cui applicazione è circoscritta esplicitamente all’azione dell’Unione Europea ed agli Stati membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» (art. 51 della Carta).

L’insufficienza di tali rimedi ha spinto la Commissione europea ad elaborare una strategia, elencandone, per l’appunto, motivazioni e finalità nella comunicazione del 2014 (COM(2014) 158) («Un nuovo quadro dell’UE per rafforzare lo Stato di Diritto»).

Tale quadro mira a predeterminare uno strumento d’azione efficace e compatibile con il vigente diritto dell’Unione, basato sul dialogo tra lo Stato membro e la Commissione europea e volto a contrastare le violazioni non rientranti nell’area dell’art. 7 TUE, che rappresentino comunque un fattore di rischio «sistemico» per il mantenimento dei principi fondamentali dello Stato di diritto. La presupposta natura sistemica delle violazioni implica, infatti, che siano minacciati «l’ordinamento politico, istituzionale e/o giuridico di uno Stato membro in quanto tale, la sua struttura costituzionale», e che non si tratti di violazioni arginabili con i sistemi di ricorso interni ai singoli Stati.

Tale schema, ispirato al modello della procedura di infrazione, si articola in un parere preliminare indirizzato allo Stato membro, in cui sono presentate le prime osservazioni ed evidenziati i comportamenti ritenuti contrastanti con i principi dello Stato di diritto, volto all’istaurazione di un dialogo effettivo anche alla luce del principio di leale collaborazione tra le istituzioni europee e gli Stati membri. La Commissione provvede poi all’invio di una raccomandazione, nel caso in cui all’esito di tale dialogo dovesse ritenere le censure proposte ancora fondate sulla base di prove oggettive, nella quale è indicato un termine per adottare provvedimenti idonei a rimuovere le violazioni segnalate. All’esito di un ulteriore inadempimento, la Commissione si riserva infine di procedere all’attivazione dei meccanismi di cui all’art.7 TUE, volti all’applicazione delle sanzioni ivi indicate.

Questo meccanismo è stato applicato per la prima volta nel 2016, in relazione ad alcuni provvedimenti adottati in Polonia, che a parere della Commissione, anche all’esito di un dialogo instaurato fin dal 2015, potrebbero minare l’efficacia del controllo di costituzionalità delle leggi in tale paese ed il funzionamento della Corte Costituzionale.

Anche il Parlamento europeo, allarmato dalla situazione in Polonia, ha dato seguito alle preoccupazioni espresse dalla Commissione, elaborando un progetto più ambizioso, che contiene diverse proposte di revisione dei Trattati, volta a far valere in modo ancora più incisivo i principi dello Stato di diritto a livello europeo (in particolare attraverso la Risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2016 recante raccomandazioni alla Commissione sull’istituzione di un meccanismo dell’UE in materia di democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali 2015/2254 INL). Il Parlamento peraltro ha mostrato una maggiore attenzione all’integrazione di tale disciplina con quella dei diritti fondamentali, segno forse dell’accoglimento di un’idea prevalentemente sostanzialista della nozione, nel senso sopra illustrato.

Il modello di tale meccanismo integrato dovrebbe essere dato da quello del monitoraggio previsto per le trattative con Stati esteri per l’adesione all’Unione e, in questo, può cogliersi in pieno l’anomalia di aver istituito un sistema di valutazione delle garanzie soltanto all’ingresso, senza nessuna procedura di controllo permanente sui paesi divenuti Stati membri.

Il Parlamento dunque predispone la stipula di un «Patto dell’Unione sulla democrazia, lo Stato di Diritto e i diritti fondamentali», avente natura di accordo inter-istituzionale, mediante il quale svolgere raccomandazioni a cadenza periodica, sulla falsariga di quanto avviene per la gestione della politica economica nel c.d. «Semestre europeo». Tale periodicità dovrebbe integrare le procedure di cui al «nuovo quadro» del 2014, assicurando un dialogo costante con gli Stati membri e maggiore prevenzione del rischio di violazioni sistemiche.

A tale riguardo si è indotti a riflettere sul fatto che le istituzioni europee riescono in modo efficace ad imporre scelte di politica economica agli stati membri attraverso un meccanismo come quello del Semestre, e non si vede il motivo per cui non dovrebbe svolgersi una simile influenza, ai limiti dell’ingerenza, nelle questioni relative al rispetto dei diritti fondamentali.

Lo sforzo dei parlamentari europei, dunque, appare quanto mai opportuno, seppure si presti ad alcune critiche di fondo. In particolare, si deve riscontrare che la Corte di giustizia non sembra rivestire un ruolo determinante nel quadro disegnato, scelta che appare poco ragionevole, anche perché contribuisce ad affidare alla Commissione – organo di natura non giustiziale e senza dubbio meno imparziale – la definizione concreta del parametro, già di per sé non molto specifico, su cui valutare le violazioni.

Proprio la Corte parrebbe essere invece l’unico interprete qualificato per valutare eventuali violazioni dei diritti fondamentali, sia per come codificati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, sia per come risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri. Si potrebbe quindi rivelare proficuo conferire una più solida base giuridica alle decisioni della CGE, per quanto attiene al giudizio sulla conformità degli ordinamenti nazionali – ivi compresi la forma di governo e le garanzie poste a tutela degli organi costituzionali – ai principi dello Stato di diritto, che possa in tal senso legittimare maggiormente l’influenza delle istituzioni dell’Unione Europea (Lindseth P. L., Power and legitimacy. Reconciling Europe and the Nation-State, Oxford, 2010, 1).

In ogni caso, da tali provvedimenti emerge la volontà dell’Unione di riaffermare la propria influenza ai fini della promozione del progresso sociale ed della realizzazione di una comunità democratica e di diritto, in tempi in cui tale aspirazione appare gravemente minacciata dalle forti spinte centrifughe e dalle pesanti critiche al modello di governo sovranazionale.

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