EQUITA’ E SPESA SOCIALE. La proposta dell’IRS

Elena Granaglia esamina nel dettaglio una recente proposta di riforma della spesa sociale elaborata dall’IRS. La proposta, che rappresenta un esempio raro di riforma strutturale orientata a dare sostegno ai più svantaggiati, si caratterizza per una radicale ristrutturazione dei trasferimenti oggi esistenti in materia di contrasto alla povertà, sostegno al costo dei figli e invalidità. I dati e le argomentazioni offerte possono essere utili alla riflessione su come articolare il d.d.l. povertà recentemente varato dal Governo.

L’8 aprile scorso l’Istituto per la Ricerca Sociale (IRS) ha presentato a Milano una proposta per la riorganizzazione della spesa sociale (Costruiamo il welfare dei diritti, a cura di Emanuele Ranci Ortigosa, con la collaborazione di Paolo Bosi, Valentina Ghetti e Massimo Baldini, pubblicata su Prospettive Sociali e Sanitarie, 2, 2016), che si caratterizza per tre grandi meriti. È una proposta che considera l’intera spesa sociale, nel riconoscimento delle interazioni fra le diverse componenti. È una proposta puntigliosamente basata sui dati – riguardino essi la situazione attuale o la simulazione dei possibili effetti distributivi dei cambiamenti auspicati – e sui dettagli organizzativi. È una proposta radicata su un solido bagaglio valoriale. Vale, dunque, la pena riprenderla brevemente in questa sede.

I punti di partenza possono essere così riassunti. Sulla base dei dati di contabilità nazionale, la spesa sociale, intesa come somma fra i trasferimenti alle famiglie (incluse le detrazioni Irpef), trasferimenti contro la povertà (incluse le integrazioni al minimo) e trasferimenti per l’invalidità si attesta oggi, in Italia, attorno a 72 miliardi di euro, circa il 4,5% del PIL. Nel 2017, secondo le disposizioni dell’ultima legge di stabilità, il valore dovrebbe aumentare a 75 miliardi. Questi dati, secondo l’IRS, sono, nel complesso, in linea con quanto mediamente si spende, per lo stesso comparto di spesa, negli altri paesi europei.

A differenza di quanto accade in tali paesi, in Italia una buona parte della spesa va, però, non ai bisognosi, ma a famiglie che si collocano nei decili superiori della distribuzione (ISEE). L’analisi, eseguita sulla base dei dati Eu-Silc 2013, rileva, ad esempio, come il 44% delle famiglie in povertà assoluta non riceve in Italia alcun aiuto e neppure riceve alcun aiuto il 31% delle famiglie nel primo decile ISEE. Al contempo, ben due miliardi di detrazioni per oneri familiari non sono goduti da coloro, che avendo un reddito insufficiente per fruire delle detrazioni, sono incapienti. Oltre un quarto della spesa sociale (sempre nell’accezione sopra richiamata) beneficerebbe, invece, famiglie nei quattro decili superiori dell’ISEE.

Inoltre, anche quando raggiungono i bisognosi, i trasferimenti sono spesso erogati secondo modalità incoerenti rispetto ai bisogni. Paradigmatica, al riguardo, è l’Indennità di accompagnamento per i non auto-sufficienti, costituita da un importo indifferenziato a prescindere dalla gravità delle condizioni di non auto-sufficienza. Oppure, rispetto ai trasferimenti selettivi, si consideri il coacervo esistente di norme in materia di definizione della soglia di povertà, alcune basate sul solo reddito individuale (come nel caso delle detrazioni per i figli), altre sull’ISEE, dunque, basate, oltre che su redditi familiari (e non individuali), sul patrimonio. In breve, le iniquità orizzontali – differenze nei trattamenti o, addirittura, assenza di trasferimenti a parità di bisogno – e verticali – trasferimenti maggiori a chi ha meno bisogni – sono dilaganti.

A ciò si aggiunge, sempre come elemento distintivo rispetto a quanto avviene in altri paesi europei, una forte sperequazione a danno dei servizi e a favore dei trasferimenti monetari. Il totale di questi ultimi (da parte dell’Inps e dei comuni) raggiunge, infatti, quasi l’86% della spesa sociale complessiva (sempre nell’accezione sopra indicata, dunque al netto della componente previdenziale). Molti trasferimenti dipendono, poi, dalle risorse locali, con il paradosso che i contesti più poveri sono anche quelli che hanno meno risorse da investire.

Questa diagnosi definisce, in larga misura, anche le finalità della proposta. Ciò che serve è contrastare la frammentazione, la categorialità e le complessive incoerenze della spesa sociale odierna, grazie all’introduzione di regole il più possibile uniformi e basate sullo stato di bisogno. Regole uniformi, si noti, non implicano in alcun modo omogeneità di trattamento. Al contrario, l’IRS rileva con forza la necessità di una personalizzazione degli interventi. Il punto è che le regole devono valere, in modo uguale per tutti, con riferimento allo stato di bisogno e non ad altri criteri. I servizi vanno, altresì, potenziati e le complementarità fra comparti di spesa ricercate.

Realizzare tali finalità, secondo l’IRS, comporta, in primo luogo, l’introduzione di un reddito minimo contro la povertà assoluta quale livello essenziale delle prestazioni. Potrebbero accedere a esso tutte le famiglie con reddito disponibile equivalente inferiore, appunto alla soglia di povertà assoluta, e con un ISEE inferiore ai 12.000 euro. Ricordo come la Carta Acquisti sperimentale, oltre a restare a stampo categoriale, nonostante l’allentamento della categorialità rispetto alla Carta Acquisti ordinaria, preveda una soglia ISEE di 3000 euro. Condizione ulteriore all’accesso al reddito minimo sarebbe la disponibilità a lavorare o, più, in generale, a partecipare ad un patto di inclusione attiva. Cruciale, in questa prospettiva, diventa il ruolo dei servizi territoriali.

Il reddito minimo è uno strumento complesso che non va sovraccaricato di compiti. Anche (seppure non solo) per queste ragioni, il reddito minimo andrebbe affiancato da una nuova misura di sostegno al costo dei figli, l’Assegno per minori (nonché per figli a carico fino a 25 anni di età, se studenti). L’assegno, che sostituirebbe le detrazioni per i minori a carico (le altre detrazioni permarrebbero) e gli assegni al nucleo familiare oggi esistenti, sarebbe selettivo, anch’esso, sulla base dell’ISEE. Ammonterebbe a 3600 euro all’anno a figlio (la somma è coerentemente aumentata al crescere del numero dei figli) per famiglie con ISEE fino a 15.000 euro. Oltre tale soglia, diminuirebbe gradualmente fino a azzerarsi per le famiglie con un ISEE superiore a 25.000 euro.

Rispetto alla disabilità, infine, un’unica pensione d’invalidità dovrebbe sostituire le attuali pensioni per invalidi, ciechi e sordomuti, mentre la Dote di cura sostituirebbe l’Indennità di accompagnamento. La pensione d’invalidità diverrebbe selettiva sulla base dell’ISEE, mentre la Dote resterebbe accessibile a tutti a prescindere dalle condizioni economiche, come avviene oggi per l’Indennità di Accompagnamento. A differenza di oggi, però, gli importi sarebbero modulati su tre livelli di disabilità e, alla via del trasferimento generale senza vincolo di destinazione, si aggiungerebbe la possibilità di ricevere la dote sotto forma di voucher vincolato alla fruizione di determinati servizi. In quest’ultimo caso, gli importi aumenterebbero del 30%. Alla dote si aggiungerebbe poi un Budget per l’inclusione, anch’esso da considerarsi livello essenziale di prestazione. Tale budget che, nonostante il nome, non implica alcun intervento economico aggiuntivo, fungerebbe da misura complementare, ai fini della co-programmazione di percorsi personalizzati di assistenza.

L’intera riforma potrebbe essere realizzata a costo zero, facendo leva sulle iniquità verticali oggi esistenti: vale a dire, azzerando i trasferimenti goduti dai più abbienti. La proposta Irs segue una strada meno drastica (con abbattimenti, ma non totale azzeramento, nelle tutele per chi sta meglio). Il costo aggiuntivo sarebbe, però, assai contenuto, pari a 5 miliardi. Ricordo che lo stanziamento per il bonus degli 80 euro ammontava nel 2015 a 10 miliardi.

L’IRS ci offre, dunque, una compiuta riforma strutturale, con un segno progressivo che spesso manca alle riforme strutturali oggi tipicamente invocate, ormai sinonimo nella maggiore parte dei casi di tagli e deregolazioni a danno di chi sta peggio. Il bisogno diverrebbe il criterio dirimente ai fini dell’accesso alla spesa sociale, a prescindere dalle categorie cui si appartiene o il luogo in cui si vive. L’ISEE diverrebbe il criterio cardine per quanto concerne l’individuazione delle soglie di povertà. I trasferimenti dei servizi risulterebbero, altresì, potenziati: basti pensare all’importanza dei servizi di attivazione nella prospettiva del reddito minimo oppure a quella dei servizi alla persona nelle misure a favore dei non autosufficienti. Ancora, i diversi comparti della spesa si rinforzerebbero reciprocamente come esemplificato nella relazione fra reddito minimo e Assegno ai minori.

Come per tutte le proposte, elementi di dissenso sono inevitabili. Da parte mia, pur condividendo appieno la diagnosi dei problemi attuali della spesa sociale in Italia, ho alcune perplessità sulla sostanziale equiparazione effettuata dalla proposta fra equità e selettività. La selettività è basata sull’assunto di una sostanziale messa in comune delle risorse familiari. Ma, sempre da un punto di vista equitativo, perché individui che ignorano le condizioni in cui troveranno nella società non potrebbero preferire di assicurarsi (individualmente) contro il rischio di non avere risorse? Ad esempio, se sono disabile, perché essere costretti a dipendere dalle risorse dei miei familiari, come implicito nei trasferimenti selettivi basati sulle risorse della famiglia, anziché avere anche un diritto individuale a una compensazione da parte della collettività? Similmente, se sono giovane e non ho lavoro, perché dover dipendere dalla mia famiglia anziché avere diritto a una base di risorse mie? In Svezia, ad esempio, i figli maggiorenni sono considerati nucleo a sé, ai fini del reddito minimo, anche se conviventi con la famiglia. Ancora, alla luce sia dei rischi della selettività di lasciare prive di tutela persone bisognose (dati i limiti inevitabili delle prove dei mezzi), sia delle ragioni di cittadinanza a difesa del diritto a una base di risorse comuni, perché non assicurare una dote a tutti i bambini, anziché solo ai bambini poveri, come di recente suggerito anche da Atkinson (Disuguaglianza. Che cosa si può fare, Cortina, 2015)? Infine, è vero che oggi in Italia, famiglie non povere ricevono un aiuto che è negato a famiglie povere. Ciò nondimeno, l’esperienza europea dimostra che, oltre al disegno istituzionale degli interventi, l’ammontare delle risorse finanziarie coinvolte è dirimente ai fini del contrasto alla povertà. Il timore è che più si potenzia la selettività, più aumenti il rischio d’importi limitati, i trasferimenti selettivi, avvantaggiando solo una parte della società, e peraltro non quella dotata di un forte potere di voce. Un mix più articolato di universalismo e selettività sembrerebbe, pertanto, più attraente ai fini stessi del contrasto alla povertà.

A prescindere da queste e da eventuali altre obiezioni, prime fra tutte quelle relative alla necessità di occuparsi anche delle responsabilità dei mercati e della più complessiva disuguaglianza nella creazione della povertà, occorre essere grati all’IRS per avere fornito un quadro dei problemi della spesa sociale nel nostro paese così completo e documentato nonché una proposta così ben articolata. Avere una buona base di confronto rappresenta un regalo inestimabile per il confronto pubblico su un tema che dovrebbe essere al centro dell’agenda politica del nostro paese.

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