E il giudice che ne sa? L’art. 18 e i modi di ragionare degli assolutismi di ieri e di oggi

Silvia Niccolai esamina criticamente la tesi secondo cui il giudice non dovrebbe interferire con i rapporti di lavoro a causa della sua ignoranza delle esigenze aziendali. Dopo aver ricordato le origini di questa idea, Niccolai illustra i punti deboli del tentativo di sostituire il giudice con la previsione di alcune fattispecie discriminatorie e, riferendosi anche all’esperienza americana, conclude che l’esito probabile del processo in atto sarà il superamento del diritto antidiscriminatorio - peraltro malamente inteso come social engineering - a vantaggio di tecniche apparentemente neutre di gestione del personale.

Che cosa ne sa il giudice delle esigenze aziendali? A che titolo può interferire con esse, capisce forse di bilanci, di affari, di marketing o di gestione delle risorse umane? Ecco il ragionamento di chi sostiene la necessità di eliminare il sindacato sulla giustificatezza del licenziamento, che ha caratterizzato il nostro sistema sino alla riforma Fornero del 2012, nel cui solco si pone il Jobs Act. I suoi autori apertamente considerano il sindacato giurisdizionale nei rapporti di lavoro (questo è ciò che l’art. 18 simboleggia), un ostacolo alla competitività, un freno alle esigenze del business, alle leggi della crescita, delle quali il giudice non capisce niente e rispetto alle quali la logica dell’eguaglianza e dei diritti è un ferro vecchio incapace di adattarsi ai tempi nuovi.

E’ un ragionamento, peraltro, che ricorre anche in altri campi e anche presso molti giuristi progressisti. Alcuni si chiedono se non sia obsoleta l’autorizzazione giudiziaria al cambiamento di sesso del transessuale, un problema sul quale il medico apparirebbe a tutta prima ben più competente. Per sapere se una minoranza ha diritto o meno a osservare certi comportamenti tradizionali un antropologo potrebbe essere più adatto (per la posizione di questi problemi, peraltro in modo cauto e ben argomentato, v. rispettivamente A. Lorenzetti, Diritti in transito, e I. Ruggiu, Il giudice antropologo, ambedue per Franco Angeli, 2013).

Quando si hanno in mente finalità la cui bontà, o utilità, ci appare indiscutibile, viviamo con disagio ciò che rende la giustizia preziosa: Perelmann l’ha chiamata concetto ‘oscuro’; Marcuse l’ha posta tra le grandi immagini transitive che permettono di pensare ad altre possibilità rispetto a ciò che è dato. Non c’è una sola giustizia, nessuno ha la chiave della giustizia, né ha in tasca la verità: sono cose che nascono nel contraddittorio e nella discussione, sono esiti sempre parziali e rivedibili. Proprio per questo ciascuno ha una voce nella loro ricerca e questa genera il mutamento. La giurisdizione, il processo, il diritto possono essere gli ambiti in cui questa ricerca si svolge; in questo senso, che ne sottolinea la funzione sociale, sono esperienze che proteggono il pluralismo e l’isonomia. Esse non difendono né un set ossificato di diritti buoni per definizione né un insieme di comandi nuovi a loro volta buoni per definizione: ma la possibilità di sottoporre ciò che è astrattamente giusto, utile, buono al confronto topico e circostanziato con gli interessi, le esigenze e i bisogni che si profilano nel concreto dell’esperienza. Proprio per questo motivo, come è stato detto, ogni grande utopia coltiva invece il sogno, razionalistico e autoritario, di una società senza giudici, e senza conflitti (A. Giuliani).

L’idea che il giudice, siccome non sa, non deve interferire in certi affari, non è certo nuova, semmai accompagna tutti i momenti che si auto-qualificano di innovazione, e si mettono in polemica col passato, in cui si afferma un potere nuovo che, come tale, avverte come un freno gli istituti e le mentalità precedenti, che perciò aggredisce e insulta. E’ infatti in nome del progresso che il vecchio licenziamento per giusta causa o giustificato motivo deve cedere. Esso è servito a mettere in rapporto le ragioni dell’impresa con quelle del lavoratore, rispondeva all’idea che l’impresa non sia padrona delle sue logiche, non sia un mondo a parte, ma sia, invece, un ambito poroso al senso del giusto e dell’ingiusto e ai valori che permeano la società, che vi prendono voce tramite le soggettività che nel lavoro entrano. Oggi lo si descrive come figlio di un passato oscurantista in cui le logiche aziendali erano subordinate ai privilegi dei lavoratori assecondati da un giudice settario; perciò deve lasciare il passo solo ad alcune fattispecie discriminatorie, come si fa negli Usa e come la Ue insegna di fare. I paradigmi del vecchio che è oscurantista e dei tempi moderni fautori di progresso fanno la loro ciclica, persino ingenua ricomparsa.

E aggiorniamoci, dunque. Negli Stati Uniti (dove muove i primi passi col Civil Rights Act del 1964) la protezione antidiscriminatoria, che convive col contratto ‘at will’, non ha civilizzato le relazioni di lavoro. Né ha civilizzato la società americana: individualista, competitiva, egoista oggi più di cinquant’anni fa, leggere Martha L. Fineman per convincersene. Lo stesso potremmo dire in Europa: i quarant’anni che ci separano dalle prime direttive antidiscriminatorie da cui è nato il grande corpus del diritto antidiscriminatorio europeo (al quale oggi si vogliono ridurre le più ampie tutele del lavoro adottate a livello nazionale) sono stati gli anni dello smantellamento dello stato sociale, dell’erosione e dello svilimento delle garanzie dei lavoratori; gli anni dell’emersione del lavoro precario. Il diritto antidiscriminatorio permette al bianco come al nero, alla donna come all’uomo, di entrare in un mercato del lavoro che, così, allarga la platea di risorse occupabili, e intanto può sfruttarli tutti e due, e alla bisogna espungerli, come meglio crede, senza che una forma di ragione diversa da quella orientata al profitto possa interferire. Esso sbandiera il mito dell’occupabilità, imponendo il lavoro produttivo come sinonimo di vita dignitosa, quando nell’esperienza vivente le persone sono in realtà ormai ben oltre dall’affidare al lavoro il senso del vivere sociale (Roberto Della Seta su Il Manifesto del 30.10.2014). La giustizia può essere alleata e strumento di questa ricerca: ma non quella che il diritto antidiscriminatorio costruisce per sé. L’uguaglianza che il diritto antidiscriminatorio ha in mente non è quella che ricerca il suum cuique; ma quella che riduce il mondo a una piatta superficie che facilita l’esercizio del comando (Tocqueville).

Affidato tipicamente alla giurisdizione, il diritto antidiscriminatorio ne presuppone infatti, in modo dichiarato, la riduzione a un ruolo puramente esecutivo, come in tutti i casi in cui il diritto viene ridotto a espressione della volontà di chi governa. Negli Stati Uniti il diritto antidiscriminatorio è una delle manifestazioni di un realismo giuridico convinto che il diritto sia una tecnologia sociale che serve a indirizzare la società verso i fini selezionati dall’indirizzo politico, e che il giudiziario debba abbandonare le sue forme di ragionamento e di conoscenza perché esse potrebbero rallentare, stornare o ostacolare i grandi processi riformatori, dei quali il giudiziario deve invece rendersi ganglio di trasmissione. Così, maneggiando il diritto antidiscriminatorio, il giudice deve limitarsi ad apprezzare il ricorrere di una fattispecie tipizzata: se il trattamento svantaggiato che ha colpito il lavoratore appartenente alla categoria protetta sia dovuto precisamente e inequivocabilmente a questa sua condizione. Se anche un lavoratore non appartenente a una categoria protetta è perseguitato o sottoposto a condizioni di lavoro usuranti e di sfruttamento, che possiamo dire maneggiando il diritto antidiscriminatorio? Nulla. Se un lavoratore appartenente a una categoria protetta è licenziato abusivamente ma non si riesce a dare la prova che ciò è dovuto alla sua razza o al suo sesso, invece che a insindacabili business reasons (come avviene nel 90% dei casi) che ci possiamo fare? Niente. Non si applica l’analogia, nel diritto antidiscriminatorio; e non si esercita l’eguaglianza che è trattare in modo eguale l’eguale e diverso il diverso. E non si possono mettere in gioco principi costituzionali, come il diritto di ciascuno al rispetto della sua personalità, quando si applicano fattispecie così strettamente regolate. Nessun principio generale, come quello che invece ricorderebbe che il profitto che va guadagnato onestamente. Usando l’analogia, introducendo componenti equitative, ricorrendo ai principi costituzionali e ai principi generali del diritto, facendo cioè uso del modo giurisdizionalistico di usare la ragione, la giurisdizione potrebbe far funzionare il divieto di discriminazioni come funziona il principio di eguaglianza, cioè come uno strumento che permette di valutare la ragionevolezza, la congruità, proporzionalità del trattamento che taluno riceve. Cioè come ha funzionato da noi il sindacato del giudice ex art. 18: la giustificatezza del licenziamento rimanda a una esigenza di ragionevolezza. E’ appunto questo modo di ragionare che si vuole far uscire dalle relazioni del mondo del lavoro, e, credo, da numerosi ambiti dell’esistenza umana, perché esso frena e ostacola l’idea che vi siano ambiti dell’esperienza autonomi, autofondati, che seguono proprie regole specializzate e a sé funzionali e tende invece a riportarle al mondo comune, ricordando agli esseri umani che la loro comune natura li vincola a ragionare gli uni con gli altri su un piano di parità.

Vi è infatti un fondo antisociale, prima che antigiuridico, nell’argomento ‘il giudice che ne sa’. La sua premessa è che l’esperienza umana sia segmentata in ambiti specialistici e che pertanto per parlare o ragionare di qualunque cosa occorra esserne esperti. E’ un presupposto gravido di implicazioni, molte delle quali vediamo oggi all’opera in modo aperto. Se la gente ancora aspira a condizionare il governo col suo voto, coi suoi striscioni, coi suoi interessi di categoria, non si tratta che di una inutile perdita di tempo.

E’ un argomento così vistosamente autoritario che non dovrebbe avere molta presa; se invece ne ha, e ce l’ha, è per un motivo tristemente e facilmente intuibile: nessuno vuole essere ostacolato da altri in come gestisce gli affari suoi. Tener presente il punto di vista altrui e interessi divergenti dal nostro, dover spiegare le nostre ragioni: ecco due cose che non piacciono a nessuno, con quel loro inequivocabile sentore d’eguaglianza. Non piacciono a nessuno, presi come siamo nel sogno di emanciparci dagli altri e dai limiti che ci impone il vivere insieme.

L’argomento ‘il giudice che ne sa’ si radica in questo tipo di sentimenti e li incoraggia: un buon legislatore dovrebbe esserne preoccupato, perché coltivano l’inimicizia. Ma noi non siamo preoccupati e al diritto preferiamo il social engineering. Questo è infatti ciò cui è ridotta l’antidiscriminazione, tendente all’obiettivo dell’occupabilità, del contenimento della spesa sociale, della riduzione a prestazione di lavoro di qualunque attività umana (sono questi fari di ogni politica europea dei diritti: cfr. F. Bilancia). Per questo, laddove da più gran tempo impera, il diritto antidiscriminatorio sta già cedendo il passo ad altre tecniche, ritenute più efficaci. Il modello giurisdizionalista che presuppone una lite tra datore e lavoratore lascia aperto il rischio di una controversia, che, per la sua natura, è irriducibilmente la strada attraverso la quale visioni nuove e interessi non riconosciuti possono emergere: ha dunque un suo grado di incertezza, e gli affari vogliono sicurezze. Così negli Usa il diritto antidiscriminatorio è ormai in via di estinzione, sostituito da tecniche di gestione del personale volte a prevenire i conflitti aumentando la produttività: se il razzismo tra colleghi provoca qualche disagio, facciamo un incontro di gruppo ogni mese con uno psicologo, se ne occupa il management a fissare il calendario e così, mentre cadono le premesse per qualsivoglia ricorso giudiziale, ci riscopriamo ‘squadra’ . Si rimarca in tal modo che la discriminazione non è un comportamento del datore di lavoro, ma un fatto strutturale, delle mentalità, di cui nessuno è responsabile, che si risolve in un problema di benessere aziendale. Ed ecco un tema che certamente l’impresa, molto meglio del giudice, sa affrontare e risolvere. Dentro al chiuso dei suoi uffici e in piena autonomia, beninteso.

Schede e storico autori