Discriminazioni razziali ed etniche nelle aule di giustizia: le questioni aperte

Maria Teresa Ambrosio si occupa della tutela giurisdizionale contro le discriminazioni a sfondo razziale, etnico o per nazionalità e sostiene che essa “subisce un arresto” nel mercato del lavoro dove gli immigrati lavoratori o in cerca di lavoro sempre più spesso non denunciano gli svantaggi e i trattamenti pregiudizievoli di cui restano vittime. Ambrosio ritiene che disinformazione e povertà sono solo due delle possibili cause e conclude invitando le parti sociali ad assumere un ruolo più attivo nella lotta alle discriminazioni sul lavoro.

Immigrazione e razzismo: introduzione. L’ondata migratoria degli ultimi anni ha incrementato la presenza dei lavoratori stranieri nell’economia nazionale: recenti dati attestano che gli stranieri residenti rappresentano l’8,3% della popolazione complessiva e che la quasi totalità dei lavoratori, tra di essi, svolge un lavoro da dipendente (circa l’80% è impiegato con la qualifica di operaio) mentre una ridottissima percentuale (0,9%) riveste un ruolo dirigenziale o di quadro. La stima (che trascura i lavoratori immigrati irregolari più esposti al rischio del lavoro sommerso e delle discriminazioni razziali) dimostra come l’immigrazione sia parte integrante della realtà sociale e dell’economia del paese, che deve ancora fare i conti con episodi razziali e xenofobi. Seppur distante dall’originaria idea di una umanità divisa in razze, il razzismo odierno racchiude l’eguale o forse più temibile ideologia dell’esistenza di diverse identità culturali da preservare e da non confondere tra loro, scoraggiando, per questo, le migrazioni e rifiutando i tentativi di integrazione (razzismo differenzialista). Il persistere dei fenomeni razziali ha contribuito a produrre uno spreco in termini di risorse umane specie in ambito lavorativo dove gli immigrati aventi nazionalità, colore della pelle o cultura diverse da quelle dei lavoratori autoctoni vivono costantemente episodi di discriminazione razziale ed etnica: sono esclusi dalle selezioni di accesso all’occupazione e dalle occasioni di formazione professionale, sono retribuiti con paghe basse e, al di fuori del lavoro, sono estromessi dai benefici di natura sociale e rifiutati come controparte contrattuale nell’accesso ai beni e servizi, inclusi quelli abitativi.

Tutto ciò dovrebbe determinare un’elevata richiesta di tutela giurisdizionale contro le discriminazioni subite dalle vittime; tuttavia, se nel settore delle prestazioni sociali, così come in quello dei beni e servizi, esse hanno esperito più frequentemente l’azione antidiscriminatoria, in quello lavoristico non si sono rivolte alla tutela giurisdizionale. Scopo di queste note è individuare le possibili ragioni di una lacuna tanto evidente in materia di discriminazioni razziali, in modo da far emergere le questioni ancora aperte sull’effettività della tutela antidiscriminatoria nel settore del lavoro.

Le “discriminazioni istituzionali” davanti alle Corti. Un’attenta ricostruzione della giurisprudenza post Direttive del 2000 induce a constatare che l’azione antidiscriminatoria in materia di razza, etnia e nazionalità è stata esperita principalmente per debellare le “discriminazioni istituzionali” poste in essere dalla P.A. (intesa in senso lato). É il caso delle prestazioni sociali ossia dei servizi assistenziali, previdenziali e di sicurezza sociale che lo Stato garantisce ai beneficiari titolari di determinati requisiti (età, reddito etc.).

Gli immigrati rappresentano i primi destinatari delle discriminazioni in tale campo. Le fattispecie portate al vaglio dei giudici concernono soprattutto il diniego dei Comuni o di altri enti pubblici di erogare i servizi sociali per i quali, per espressa delibera dell’ente, è spesso richiesta la cittadinanza italiana o il permesso di lungo soggiorno.

Con riferimento al primo requisito, gli stranieri regolarmente soggiornanti o residenti in Italia in varie occasioni sono state vittime di discriminazione sociale ma una visione più ampia e meno ancorata alla sola analisi delle pronunce permette, altresì, di interpretare la priorità che le amministrazioni concedono agli individui e alle famiglie di nazionalità italiana come la manifestazione di un comune sentire dei cittadini autoctoni poco propensi ad accogliere il diritto antidiscriminatorio, in particolare nei casi aventi una diretta ripercussione economica.

Da ultimo, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta in materia di welfare estendendo anche ai migranti titolari del “permesso unico lavoro” il beneficio dell’assegno per nucleo familiare numeroso concesso dagli enti territoriali ai soli titolari del permesso di lungo soggiorno. L’inversione di rotta messa a punto dalla Corte di Giustizia nella sentenza Kerly Del Rosario Martinez Silva contro INPS e Comune di Genova, nella causa C-449/16 del 21/06/2017 risulta significativa per almeno quattro ordini di motivi: 1) mira a ripristinare la parità di trattamento tra tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti e i cittadini autoctoni; 2) rivoluziona il welfare dei Paesi europei; 3) incide significativamente sull’economia degli Stati; 4) determina l’orientamento della successiva giurisprudenza interna con riferimento anche alle altre prestazioni sociali (assegno di maternità per donne disoccupate, bonus bebè et similia).

Il compito che l’Europa sta svolgendo tende dunque a ri-confermare il valore dell’uguaglianza cioè a stimolare e preservare un percorso di integrazione e di ri-affermazione della solidarietà sociale in ogni possibile ambito di sviluppo della discriminazione.

 La carenza di contenzioso nelle discriminazioni sul lavoro: quali spiegazioni? La questione ha origine nella anomala esiguità delle pronunce giurisprudenziali sulle discriminazioni di razza ed etnia nei rapporti di lavoro, malgrado il settore del lavoro sia interessato da un’alta percentuale di casi di discriminazione a sfondo razziale, tra i quali quelli più diffusi e anche denunciati appartengono alla categoria della “discriminazione istituzionale” che coinvolge il settore del pubblico impiego (si veda, ad es., Cass., Sez. Un. Civ., 20/04/2016, n. 7951; Trib. Udine, Sez. Lav., 30/06/2016, est. Vitulli, Arcaba c. Agenzia delle Dogane; Trib. Milano, Sez. Lav., 4/3/2015, est. Perillo, ASGI-APN-CUB SUR c. MIUR. ). Di contro, la scarsa presenza di fascicoli attestanti fattispecie discriminatorie nel settore del lavoro privato (specie nella fase di selezione e formazione professionale) suscita qualche riflessione in più (è recente la notizia della discriminazione subita da un giovane di origini brasiliane da parte di un albergatore romagnolo che, per il colore della pelle, ha rifiutato di assumerlo nel suo albergo).

La posizione occupata dall’immigrato nel mercato del lavoro è di estrema debolezza e fragilità che si manifesta, talvolta, anche in termini di sfruttamento sotto il profilo retributivo, delle mansioni, dei tempi e orari di lavoro. Nonostante tutto, e nella quasi totalità dei casi, preferisce non esperire o evitare di esperire l’azione antidiscriminatoria promossa dalla Direttiva razza o, con più probabilità, la ignora. Nel primo caso non vi sarebbero problemi se la volontà del lavoratore immigrato di non chiedere ed ottenere tutela per un proprio diritto nascesse dalla consapevolezza di avervi rinunciato a fronte di strumenti appositamente predisposti; nel secondo caso, la rinuncia potrebbe spiegarsi sia con l’aumento degli oneri economici di recente aggiunti al rito del lavoro che con l’insufficienza delle risorse economiche dovuta allo stato di povertà spesso patito; nel terzo e più veritiero caso il lavoratore straniero non ne sarebbe proprio a conoscenza.

Accade spesso, infatti, che i lavoratori immigrati conoscano soltanto le disposizioni di legge sulla permanenza nella nazione e non anche le direttive europee in materia antidiscriminatoria e i mezzi di tutela; né si può sperare che siano i datori di lavoro a renderli edotti considerato che, anche per loro, la disciplina antidiscriminatoria si rivela spesso un tema sconosciuto ed escluso dalle priorità dell’azienda.

Così stando le cose ne deriverebbe che la mancanza di conoscenza o la scarsa informazione circa gli strumenti di tutela apprestati dal diritto dell’Unione e fatti propri da quello interno sia di frequente la chiave di volta o quantomeno una possibile spiegazione della lacuna giurisprudenziale esistente in materia.

E se il razzismo fosse invece un elemento del sistema? Nessuna delle ipotesi sopra elencate potrebbe offrire una risposta all’interrogativo originario. La carenza di pronunce potrebbe essere giustificata, in tal caso, con la presunzione o l’intuizione che la presenza delle discriminazioni etniche e razziali sia un elemento strutturale del funzionamento del mercato di lavoro.

 Lotta alle discriminazioni e ruolo del sindacato. Provando a tirare le fila, risulta complesso stabilire quanto la tutela contro le discriminazioni fondate sulla razza ed etnia abbia concretamente attecchito nel settore del lavoro e quali siano le prospettive future. Un dato è abbastanza certo: alla disinformazione dei lavoratori immigrati si aggiunge, spesso, anche quella delle parti sociali che dovrebbero invece promuoverne almeno la disciplina nell’ambiente di lavoro; tra i sindacati, solo alcuni sono impegnati e coinvolti in prima persona nella diffusione del diritto antidiscriminatorio europeo, mentre altri, pur trovandosi quotidianamente di fronte a tali problematiche, non ne conoscono bene la portata.

É proprio dalle parti sociali che dovrebbero invece partire i dibattiti tesi a comprendere la condizione di fragilità che i lavoratori immigrati occupano nel mercato del lavoro e sempre nell’ottica della concreta applicazione della parità di trattamento e della non discriminazione razziale, etnica o anche di matrice nazionale iniziare un percorso che conduca alla integrazione dei lavoratori stranieri con quelli autoctoni Il discorso è molto complesso e meriterebbe un’autonoma trattazione ma, ai nostri fini, è sufficiente anche solo prospettare un ruolo più attivo del sindacato in materia antidiscriminatoria.

D’altronde anche una florida giurisprudenza dagli esiti favorevoli per le vittime di discriminazione non sarebbe da sola sufficiente, in assenza di azioni positive e concrete, ad assicurare l’effettività della tutela antidiscriminatoria.

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