Decreto Poletti, Jobs Act e esoneri contributivi: cosa è cambiato nel mercato del lavoro italiano?

Fabrizio Patriarca e Riccardo Tilli valutano se il Jobs Act, in particolare con l’introduzione del contratto a tutele crescenti, abbia ridotto il ricorso al lavoro a termine da parte delle imprese. Sulla base dei dati disponibili, Tilli e Patriarca mostrano come l’obiettivo della riduzione del lavoro a tempo determinato sia stato disatteso a causa degli effetti di un’altra riforma, il cosiddetto “Decreto Poletti”, che a marzo 2014 ha liberalizzato ulteriormente l’uso dei contratti a termine, in contrasto con gli obiettivi del Jobs Act.

Con l’introduzione del contratto a tutele crescenti il rapporto di lavoro non è più regolato, in materia di licenziamento, dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Per il licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo è previsto esclusivamente un sistema di indennizzi da corrispondere al lavoratore. Viene eliminato il reintegro nel posto di lavoro, il quale viene mantenuto solo in alcuni casi di licenziamento disciplinare e per i licenziamenti discriminatori.

Se dunque il contratto a tutele crescenti è destinato a diventare la tipologia di contratto standard, ci si sarebbe dovuto aspettare una limitazione sui contratti a tempo determinato per evitare al lavoratore tempi di attesa eccessivi prima di rientrare nella nuova tipologia contrattuale.

Intervenendo sui contratti a tempo indeterminato, il Jobs Act non ha modificato le disposizioni contenute nel “Decreto Poletti”, che nel 2014 ha ampliato le modalità di ricorso ai contratti a termine per le imprese. Unitamente all’abolizione della cosiddetta “causale”, è stato introdotto un limite di durata del rapporto di lavoro di 36 mesi con un numero massimo di proroghe pari a cinque. Inoltre, il decreto legislativo 81/2015 prevede che «un ulteriore contratto a tempo determinato fra gli stessi soggetti, della durata massima di dodici mesi, può essere stipulato presso la direzione territoriale del lavoro competente per territorio», portando così a quattro gli anni di durata massima. Venuta meno la causale, è stato stabilito un limite del 20% dei contratti a tempo determinato che il datore di lavoro può stipulare rispetto al numero complessivo di lavoratori a tempo indeterminato componenti l’organico aziendale.

Al Decreto Poletti e al Jobs Act è seguito un altro importante provvedimento: l’esonero contributivo per le imprese che assumono a tempo indeterminato introdotto dalla Legge di stabilità del 2015. Si tratta di una esenzione totale – di 36 mesi di durata – dal versamento degli oneri contributivi a carico del datore di lavoro che abbia attivato un contratto a tutele crescenti nel corso del 2015. Nel 2016 l’esonero è stato riproposto in forma ridotta per ulteriori due anni.

All’intervento strutturale realizzato con il Jobs Act è stato dunque associato un provvedimento di carattere congiunturale avente l’obiettivo di promuovere l’occupazione in una fase di ciclo economico recessivo e di favorire la trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti. La caratteristica principale degli sgravi contributivi concessi alle imprese è di essere un provvedimento temporaneo che esaurirà i suoi effetti alla fine del 2018.

Al contrario, l’estensione della possibilità di ricorso a contratti a termine attuata con il Decreto Poletti, avendo un carattere strutturale, è destinata a produrre un effetto permanente di segno opposto a quello atteso dal Jobs Act e dall’introduzione dell’alleggerimento contributivo.

L’Osservatorio sul Precariato dell’Inps rileva i dati di flusso mensili dei movimenti dei rapporti di lavoro (assunzioni, cessazioni e trasformazioni) per i lavoratori dipendenti del settore privato (con esclusione dei lavoratori domestici e degli operai agricoli) e i lavoratori dipendenti degli Enti pubblici economici. Questi dati si riferiscono al numero di contratti e non coincidono con il numero di lavoratori perché nello stesso periodo di riferimento un lavoratore può concludere diversi contratti. Tuttavia, l’analisi dei flussi mette in luce alcune evidenze sull’andamento dei due segmenti più rilevanti dell’occupazione dipendente: i contratti a tempo indeterminato e quelli a termine.

Con riguardo ai contratti a tempo indeterminato, i dati Inps permettono di cogliere l’effetto marcato prodotto dallo sgravio contributivo. Per valutare l’effetto complessivo degli sgravi bisogna tenere conto anche del loro impatto sui flussi negli ultimi due mesi del 2014, quando l’annuncio della loro introduzione può avere spinto le imprese a ritardare le assunzioni già programmate.

La figura 1 mostra l’andamento del saldo complessivo (attivazioni + trasformazioni – cessazioni) e del saldo al netto delle trasformazioni (attivazioni – cessazioni) relativi ai contratti a tempo indeterminato, e del tasso di variazione delle trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. A tal fine, si è scelto come riferimento l’annualità precedente all’approvazione dello sgravio (dal novembre 2013 all’ottobre 2014), in modo da far emergere anche l’eventuale effetto annuncio negli ultimi due mesi del 2014.

Figura 1 – Variazione mensile dei flussi di contratti a tempo indeterminato dal novembre 2014 al novembre 2016 rispetto ai mesi corrispondenti dell’annualità precedente l’approvazione dello sgravio per le nuove assunzioni a tutele crescenti (novembre 2013-ottobre 2014)

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Fonte: elaborazioni a cura degli autori su dati Inps.

Osservando la figura 1, si nota che l’agevolazione contributiva ha determinato due effetti scalino: il primo, più contenuto, è quello relativo ai due mesi precedenti la sua entrata in vigore (novembre e dicembre 2014), che ha ritardato, come si è già osservato, attivazioni e trasformazioni e aumentato il numero di cessazioni, con un effetto negativo su entrambi i saldi. Il secondo scalino si osserva nel dicembre 2015, il mese precedente alla riduzione dello sgravio, con saldi nettamente positivi dovuti sia alle assunzioni che alle trasformazioni in contratti a tutele crescenti.

Nel 2016 i saldi in esame tornano sostanzialmente ai livelli precedenti l’introduzione dello sgravio, e in media leggermente peggiori. Su questo apparente ritorno alla normalità sembrano avere agito due forze opposte. Da un lato, l’anticipazione al 2015 di nuovi contratti che in assenza di incentivi sarebbero stati avviati nei primi mesi del 2016, come evidenziato dall’effetto scalino di dicembre 2015; dall’altro, la perdurante vigenza, seppure in misura minore, degli sgravi. Il ritorno ai livelli dell’anno base suggerisce che gli effetti positivi sui saldi del 2015 non dipendano dal Jobs Act, che nel 2016 è ancora in vigore, ma solo dalla decontribuzione, più che dimezzata nel 2016, nonostante i costi degli sgravi pieni del 2015 graveranno sulle casse dello stato fino a tutto il 2018.

La figura 2 riporta l’andamento dei saldi corrispondenti a quelli della figura 1 per i contratti a tempo determinato, le cui trasformazioni hanno un effetto di segno opposto sui saldi totali. È bene ricordare che il numero di contratti a tempo determinato non corrisponde al numero di lavoratori, potendo un lavoratore avere più di un contratto. Se però il numero medio di contratti per lavoratore non muta in modo significativo, la variazione del numero di rapporti a termine segue quella del corrispondente numero di lavoratori.

Al contrario di quanto avvenuto per i contratti a tempo indeterminato, nel 2015 il saldo attivazioni/cessazioni dei contratti a tempo determinato non si discosta sensibilmente da quello dell’anno base essendo alternativamente maggiore o minore e mediamente minore di poche migliaia di unità. Come visto sopra, l’effetto dello sgravio è invece sostanziale sulle trasformazioni, che sono il driver principale del saldo totale dei tempi determinati per tutto il periodo fino al dicembre 2015. Successivamente, a partire dal gennaio 2016, mentre le trasformazioni tornano ai livelli precedenti, il saldo complessivo sale nettamente al di sopra dell’anno base come risultato di una saldo positivo tra attivazioni e cessazioni.

Figura 2 – Variazione mensile dei flussi di contratti a tempo determinato rispetto ai mesi corrispondenti del periodo novembre 2013-ottobre 2014

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Fonte: elaborazioni a cura degli autori su dati Inps.

La deregolamentazione dei contratti a termine prevista dal Decreto Poletti sembra quindi aver già esplicato i suoi effetti sulle nuove assunzioni a tempo determinato nonostante i contemporanei incentivi sui contratti a tutele crescenti.

Il rapporto tra attivazioni a tempo determinato e attivazioni a tempo indeterminato può essere interpretato come indice di flessibilità delle scelte di assunzione delle imprese. Coerentemente con i risultati precedenti, il rapporto tra contratti a termine e contratti a tempo indeterminato è diminuito durante il 2015 (-35,5%) per effetto dell’aumento del denominatore, le assunzioni oggetto dello sgravio, per poi tornare ai livelli iniziali fino a superarli nel 2016 (+11,6%), per effetto dell’aumento del numeratore, le assunzioni a termine a cui il decreto Poletti ha tolto la clausola della causale.

I dati dell’Osservatorio sul Precariato dell’Inps permettono anche di analizzare l’andamento della contrattazione a termine per regione e per settore di attività economica. La tabella 1 presenta il rapporto tra attivazioni a termine e attivazioni a tempo indeterminato per area geografica. Nel 2015, anno in cui, come si è visto, le dinamiche dell’indice di flessibilità sono state determinate dallo sgravio, l’aumento della propensione ad assumere a tempo indeterminato si è verificato soprattutto al Nord e al Centro, dove la contrattazione a tempo determinato ha un peso maggiore. Finito, o meglio, dimezzato l’effetto dello sgravio, le stesse aree geografiche sono tornate ai livelli precedenti. L’aumento della flessibilità contrattuale legato alla crescita della contrattazione a termine nel 2016 si è concentrato soprattutto al Sud e nelle Isole, dove si è avuto un aumento sostanziale nel ricorso alla contrattazione a termine.

Tabella 1 – Rapporto tra attivazioni a tempo determinato e attivazioni a tempo indeterminato per area geografica

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Fonte: elaborazioni a cura degli autori su dati Inps.

Ne è risultato un processo di convergenza territoriale: la flessibilità è cresciuta nelle aree dove era meno diffusa. La correlazione tra il livello dell’indice di flessibilità al 2014 e la sua variazione nel periodo 2014-2016 per regione è pari a -0,76; ciò conferma il processo di convergenza territoriale nella diffusione dei contratti a termine di cui si è detto.

Se si considerano i settori di attività economica, la correlazione tra livelli iniziali e variazioni è pari a -0,01 per le variazioni 2014-2015 e +0,41 per quelle 2014-2016. Ciò indica che l’effetto dello sgravio sulle scelte di assunzione delle imprese è stato uniforme tra settori. Al contrario il successivo cambiamento a favore di contratti a tempo determinato si è concentrato proprio nei settori nei quali la contrattazione flessibile era già più diffusa.

In conclusione, con la riduzione dello sgravio contributivo nel 2016, le dinamiche della contrattazione a tempo indeterminato tornano ai livelli precedenti il Jobs Act. La componente congiunturale dei recenti interventi sul mercato del lavoro, quella relativa agli sgravi contributivi, cede il passo alla componente strutturale, il Decreto Poletti e il Jobs Act. Le tutele crescenti, come strumento per incentivare l’utilizzo del contratto a tempo indeterminato, sembrano insufficienti a contrastare l’effetto opposto derivante dalla liberalizzazione della contrattazione a termine. Inoltre, mentre l’effetto dello sgravio contributivo è stato piuttosto uniforme territorialmente e settorialmente, il trend crescente dei contratti a termine si concentra soprattutto nelle regioni dove le performance economiche sono peggiori e nei settori dove il contratto a termine era più diffuso.

 

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