Dalle elezioni dell’8 giugno alla Brexit. Tempi difficili per la strategia governativa britannica

Alessandro Torre esamina l’esito delle recenti elezioni britanniche e valuta il loro possibile impatto sul percorso della Brexit. Dopo aver illustrato le ragioni per le quali quell’esito è deludente per il governo conservatore, Torre si sofferma sulla strategia di Theresa May che ha portato a un “accordo di governo” con gli Unionisti del Democratic Unionist Party. Secondo Torre tale strategia se, da un lato, risolve temporaneamente il problema del “governo sospeso” dall’altro rende problematico l’autogoverno dell’Ulster e, di riflesso, delle aree di devolution.

Le elezioni dell’8 giugno 2017 aggiungono un nuovo colpo di scena nel percorso britannico verso la realizzazione della Brexit e, come è avvenuto per il referendum con cui l’elettorato aveva deciso per l’opzione leave che comporta il recesso  dall’Unione europea, il risultato atteso dal governo è stato deludente. Infatti, così come con il referendum, contrariamente alle attese di David Cameron, ovvero di un Primo ministro che desiderava porre a tacere con il voto referendario le pressioni dei fautori dell’uscita dall’Unione e che invece l’esito del voto ha condotto alle dimissioni, ha sprigionato una vicenda politica e costituzionale (per non dire di tutti gli altri ambiti che sono coinvolti nella Brexit) irta di contraddizioni e di imprevisti, allo stesso modo il voto elettorale non ha certamente contribuito ad aggiungere linfa nuova al progetto conservatore.

È pienamente comprensibile che l’elezione dell’8 giugno abbia trovato la sua oggettiva “collocazione storica” alla luce della questione europea. Nondimeno, quasi volendo esorcizzare l’incombenza delle trattative aperte dalla formale presentazione della lettera di intenti ex art.50 del Trattato di Lisbona, del recesso europeo e delle sue modalità di gestione politica, si è parlato relativamente poco nel corso di una campagna elettorale iniziata con rapidità e altrettanto rapidamente conclusa. Alla cauta condotta della premier Theresa May (che nella consapevolezza del rischio che una campagna elettorale totalmente focalizzata sulla Brexit si trasformasse in un fattuale referendum sull’orientamento europeo del Regno Unito) si aggiungeva purtroppo una sequenza di attentati terroristici e di eventi catastrofici che hanno turbato la popolazione e certamente aggiunto quote di consenso popolare a un Esecutivo tory notoriamente disattento nei riguardi della politica securitaria e inadempiente nel campo dei servizi sociali.

Questa linea critica non è stata solamente l’espressione di un’opinione pubblica che ha visto vacillare alcuni fondamenti del sistema sociale (anche se questo sarebbe di per sé sufficiente a determinare un significativo insuccesso elettorale); con considerevole efficacia essa è stata anche enfatizzata da un partito Laburista che molti osservatori davano per soccombente, e che invece per via dell’eloquente campagna condotta dal leader Jeremy Corbyn, è  stato il vero protagonista del voto dell’8 giugno.

Se la campagna elettorale è stata alquanto dimessa nelle argomentazioni di un Esecutivo presentatosi in tono minore all’appuntamento con gli elettori, l’esito è stato addirittura disastroso per gli equilibri della conservazione britannica. Infatti, sono falliti almeno due obiettivi tattici che, operando per la chiusura anticipata della legislatura, Theresa May si era proposta di realizzare.

A pena di essere considerato irresoluto e attendista, e di essere per tale motivo punito dall’elettorato, il Primo ministro britannico ha fatto ricorso allo scioglimento della Camera dei Comuni, probabilmente ritenendo che questo fosse il tratto della legislatura più propizio per il partito di cui è leader. Questa iniziativa è per di più doverosa per quel Primo ministro (come oggi la Signora May, o come prima di lei il laburista Gordon Brown successore di Tony Blair, o il tory John Major che subentrò a Margaret Thatcher) che sia andato alla guida del partito, e con questo dell’Esecutivo, non in seguito a elezioni ma per via di vicende politiche che abbiano condotto alle dimissioni del predecessore. Insomma: una consacrazione elettorale è necessaria per dare consistenza a una premiership  che ha origine in vicende di partito. Con il voto dell’8 giugno il potenziamento della forza parlamentare del partito di governo non si è realizzato: appena 317 sono i seggi ottenuti dal partito Conservatore, che in tal modo ha visto ridursi la rappresentanza ai Comuni, e perso il vantaggio di cui godeva prima delle elezioni: una maggioranza atta a governare.      La matematica parlamentare che fonda il potere della premiership britannica e dell’Esecutivo è risultata sfavorevole, provocando quella tipica situazione di hung government, ovvero di Governo “sospeso”, che nella storia parlamentare del Regno Unito si verifica di rado, ma nelle occasioni in cui emerge dal voto popolare mette in seria discussione la governabilità.  Occorrerà in questo caso correre al riparo indicendo nuove elezioni in un tempo ragionevolmente breve, oppure – come Theresa May ha fatto – cercare alleati che, entrando nella squadra di governo o dichiarandosi disponibili a sostenere l’Esecutivo dall’esterno con il suo voto a Westminster –  diano linfa nuova, e soprattutto voti ai Comuni, al Primo ministro e al suo Gabinetto.

Il decisivo ridimensionamento del partito laburista, che molti consideravano spacciato per via del negativo effetto di una leadesrhip radicale che era stata apertamente sconfessata dai vertici della formazione storica della sinistra britannica e duramente attaccata da molti mass media  e dagli analisti politici, è il secondo obiettivo tattico che ha mancato di realizzarsi. Il Labour Party ha conquistato, contrariamente alle previsioni dell’antagonista conservatore, 262 seggi. Il successo laburista ha trovato in una mutata geografia politica la fonte della sua affermazione: molti collegi della metropoli londinese tradizionalmente conservatori hanno votato laburista (si pensi, per esempio, a Westminster e Kensington), e con essi ovviamente le più grandi inurbazioni industriali e le aree che le circondano. In questo moto il progetto conservatore è stato sovvertito, e la leadership di Jeremy Corbyn consolidata sia quale capo dell’Opposizione di Sua maestà (un’Opposizione “responsabile” il cui ruolo costituzionale è formalmente riconosciuto), sia come punto di riferimento di un partito che molti consideravano in regresso.

In realtà si può osservare che Theresa May ha compiuto una manifesta sopravvalutazione di quei sondaggi che attribuivano una schiacciante maggioranza di consensi elettorali al partito Conservatore e all’opzione Brexit. Poca attenzione è stata dedicata invece a quei sondaggi che ponevano in evidenza, dando voce a strati della popolazione che evidentemente hanno pochi contatti con i tories o che questi non considerano significativi per la definizione dei propri orientamenti pubblici, a un complessivo malcontento riguardante la poca correttezza con la campagna dei brexiteers, e tra questi del radicale UKIP alleato dei Conservatori euroscettici, aveva diffuso argomenti che una parte dell’opinione pubblica ha considerato, una volta concluso il dibattito referendario ed aperta la fase del confronto con la condizione reale della questione antieuropea, forvianti, disinformativi e in alcuni casi mendaci oltre il milite della realtà elettorale.

Se si guarda oltre questi  primi dati, si può facilmente dedurre che anche un buon paio di finalità della strategia conservatrice sono stati messi in crisi.

In primo luogo, la caduta strategica dell’azione di Theresa May è tutta interna alla formazione politica conservatrice. Il potenziamento della leadership, che dovrebbe essere l’esito di nuove elezioni e che rientrava nel progetto originario, non si è certamente realizzato. Si può ragionevolmente ritenere che al sorgere delle prime incertezze della politica governativa (per esempio, eloquente sotto questo profilo  è stato il rinvio dal 19 al 21 giugno del consueto Queen’s Speech, o “Discorso della Corona” in cui si indicano i tratti dell’azione dell’Esecutivo e legislativa per l’anno inaugurato) o delle prime difficoltà nei negoziati sulle condizioni della Brexit, le posizioni di Theresa May saranno poste sotto sfida da spietati esponenti del partito, tra i quali si stanno già segnalando il nuovo Cancelliere dello Scacchiere, o Ministro del tesoro, Philip Hammond o il Damian Green che la premier ha inserito nell’Esecutivo come First Secterary of State e nell’influente dicastero che si definisce Cabinet Office: entrambi questi influenti uomini di Stato sono stati fautori del remain, e la stessa leader dei Conservatori scozzesi, la Ruth Davidson che ha conquistato diversi seggi sottraendoli allo Scottish National Party, è una fautrice di una “open Brexit”. Per salvare gli equilibri del Governo restituendogli una base maggioritaria nella Camera dei Comuni, e con ciò per salvare almeno uno dei suoi fini strategici, Theresa May ha aperto trattative con gli Unionisti del DUP (Democratic Unionist Party)  i cui 10 seggi acquisiti nel turbolento microcosmo nordirlandese ove questi si misurano con il separatista Sinn Féin che ha 4 seggi a Westminster, ma di solito non partecipa alla vita parlamentare per non dover giurare fedeltà a una Corona di cui contestano l’autorità. Ma questa mossa, che si è conclusa il 26 giugno con un “accordo di governo” in cui il DUP che assicura ai Conservatori un supporto esterno, risolve solo temporaneamente la condizione di hung government e per di più apre un nuovo quadro di problematicità, se non di aperto contrasto, del delicato autogoverno dell’Ulster e, di riflesso, nelle aree di devolution.

Con questa alleanza asimmetrica, il salvataggio del conservatorismo al governo è per il momento assicurato,  l’azione dell’Esecutivo messa al riparo e le trattative per dare un esito alla Brexit possono partire non senza qualche preoccupazione, ma non è difficile intravedere  nell’opzione di Theresa May (in realtà l’unica possibile poiché nessun altro partito rappresentato ai Comuni avrebbe accettato di entrare in coalizione con i tories) un atto di preoccupante irresponsabilità politica. Infatti l’inclusione, sebbene indiretta, nella sfera di governo dei più radicali Unionisti nordirlandesi rischia di riaprire il capitolo di turbolenze civili che si sperava fossero esorcizzate con una formula di autogoverno devolutivo basata sulle pari opportunità della componente protestante-unionista-monarchica e cattolica-separatista-repubblicana, le cui posizioni rispetto alla Brexit sono opposte. Lo speciale trattamento finanziario riservato, per il tramite del collaborativo DUP, all’area nordirlandese sta sollevando le proteste dei governi scozzese e gallese, e pertanto gli effetti concatenati dell’attuale stabilizzazione di Westminster rischiano di risultare destabilizzanti nelle “parti costituenti” del Regno Unito che formano la dimensione della devolution. Ma, come avrebbe detto Kipling, “questa è un’altra storia” su cui si spera di poter tornare prossimamente.

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