Dalla mera crescita economica alla crescita inclusiva in Europa: un recente Rapporto del Bruegel

Stefano Filauro illustra i principali risultati contenuti nel Rapporto “An anatomy of inclusive growth in Europe” recentemente pubblicato dal think-tank Bruegel. In particolare, Filauro espone i dati sulla disuguaglianza dei redditi nell'Unione Europea a 28, considerata come un tutto, ponendoli a raffronto con quelli degli Stati Uniti e le conseguenze che le innovazioni tecnologiche, con i loro effetti sul lavoro e l’occupazione, potranno avere, secondo il Rapporto, sulla distribuzione dei salari.

Il recente Rapporto “An anatomy of inclusive growth in Europe”, pubblicato dal think-tank europeo Bruegel, non si occupa della sola crescita del PIL, ma, come evidente dal titolo, si focalizza sulla cosiddetta “crescita inclusiva”, definita dagli estensori del Rapporto come quel tipo di crescita che “crea opportunità per tutti i segmenti della popolazione e le ripartisce in maniera giusta”.

A questo proposito il Rapporto presenta una di fotografia di tutte quelle dimensioni economiche, come disuguaglianza, povertà, pressione fiscale e disoccupazione che possono porre seri problemi, da una parte, alla crescita del reddito nazionale e, dall’altra, a una sua distribuzione bilanciata tra i cittadini e le nazioni che costituiscono l’Unione Europea.

Porre l’attenzione sull’inclusività del processo di crescita assume importanza dopo anni in cui il mainstream economico e le istituzioni internazionali si sono generalmente preoccupate di analizzare le determinanti e di promuovere politiche a sostegno della crescita del PIL, trascurando come gli eventuali frutti della crescita venissero distribuiti fra gli individui e fra i territori.

In questa scheda intendiamo focalizzarci su due dei principali temi trattati nel Rapporto del Bruegel Institute, ovvero l’interessante analisi della distribuzione dei redditi nell’intera Unione Europea, considerando quindi la UE come un’unica nazione, e la relazione fra sviluppo tecnologico e andamenti del mercato del lavoro.

Nel Rapporto si illustra l’evoluzione della disuguaglianza dei redditi a livello europeo, considerando quindi le sperequazioni della distribuzione dei redditi dei cittadini europei non all’interno dei propri stati ma nella dimensione dell’intera Unione Europea, come se non ci fossero confini. Tale esercizio ricalca l’idea di una misura della disuguaglianza a livello globale – a cui hanno contribuito soprattutto gli studi di Branko Milanovic e, di recente, un rapporto della Banca Mondiale peraltro basato su quegli studi, entrambi già discussi sul Menabò – ed è condotto tramite tecniche di imputazione statistica delle distribuzioni nazionali per determinare indici di disuguaglianza a livello continentale.

La distribuzione dei redditi di quella che è oggi l’Unione Europea a 28 Stati è calcolata a partire dal 1989, quando ancora molti Stati Membri dovevano, dunque, effettivamente entrare nell’UE. Guardando all’evoluzione dell’indice di disuguaglianza di Gini dei redditi disponibili (resi equivalenti per tenere conto delle dimensioni dei nuclei familiari) per l’UE a 28 (Figura 1), si notano sostanzialmente tre fasi: dapprima un aumento notevole nel periodo 1989-93, seguito da una lenta riduzione fino al 2008 e, successivamente, un assestamento su valori vicini a 0,33.

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Il livello di disuguaglianza all’interno dell’Unione Europea a 28 la qualifica dunque come un’ area con una disuguaglianza ben maggiore di molti degli stati al suo interno – quelli nordici, quelli continentali, quelli anglosassoni ed alcuni orientali – e approssimabile a quella dei più sperequati stati orientali, come Romania o Bulgaria.

Ad ogni modo, guardando allo scarto tra l’indice di Gini nei redditi disponibili equivalenti rispetto a quelli equivalenti di mercato (ovvero al netto di imposte e trasferimenti), gli autori fanno notare come l’intervento redistributivo di riduzione delle disuguaglianze attuato dagli stati nazionali sia più efficace nell’ Unione Europea che negli Stati Uniti. Infatti, anche se la disuguaglianza dei redditi disponibili attualmente è minore nell’UE che negli USA, quella relativa ai redditi di mercato nell’Unione Europea non è meno sperequata (anzi sovente è maggiore) di quella degli Stati Uniti.

In relazione al secondo punto a cui dedichiamo attenzione in questa Scheda, ovvero il dibattito sul legame fra tecnologia e mercato del lavoro, nel Rapporto Bruegel ci si concentra su due temi ricorrenti nel dibattito economico recente: l’aumento delle disuguaglianze legato allo sviluppo tecnologico e la sostituzione del lavoro con macchine e robot.

Secondo una tesi, che ha dominato negli ultimi vent’anni, le disuguaglianza salariali sarebbero cresciute princiopalmente a causa dell’aumento del divario fra lavoratori più o meno istruiti (high e low skilled) e l’aumento di tale divario sarebbe dovuto al progresso tecnologico “skill biased”, che favorirebbe la domanda per i lavoratori più qualificati (complementari alle nuove tecnologie) a discapito dei meno qualificati (che, anche a causa dell’accentuarsi del processo di globalizzazione, sarebbero sostituiti da quelle tecnologie).

Eppure, argomentano gli autori, se la crescita delle disuguaglianze retributive fosse da attribuire principalmente al progresso tecnologico skill biased ci sarebbe da aspettarsi la presenza imperiosa di manager di imprese tecnologiche, start-up e nuovi modelli d’impresa al vertice della distribuzione dei salari, soprattutto negli USA che sono stati il motore delle rivoluzioni tecnologiche dell’ultimo ventennio. Invece, se si guarda alla composizione dell’1% dei lavoratori più ricchi negli USA, la presenza di “innovatori” appare molto limitata, mentre il top 1% è composto principalmente da medici, avvocati e manager nella finanza, ovvero da gruppi di lavoratori che più che da innovazioni di prodotto o di processo sembrano essersi avvantaggiati soprattutto della concorrenza imperfetta che caratterizza i propri settori di mercato (Figura 2), come già argomentato da FraGRa sul Menabò. Al contrario, nell’Unione Europea il settore manifatturiero e quello delle nuove tecnologie (ICT) risultano ben rappresentati all’interno del gruppo dell’1% dei lavoratori più ricchi.

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Per quanto riguarda il dibattito sul rischio che le innovazioni accelerino l’obsolescenza di molti attuali posti di lavoro, con conseguente ampia disoccupazione tecnologica, il Rapporto del Bruegel Institute propone statistiche interessanti.

Se infatti già precedenti lavori, commentati sul Menabò, hanno evidenziato che nei prossimi anni negli USA il 47% delle professioni attuali potrebbe essere automatizzato, il Rapporto fornisce una rassegna ulteriormente aggiornata relativa alle più recenti ricerche che hanno stimato la quota di occupati il cui lavoro sarebbe a rischio di automazione e presenta interessanti dati disaggregati per paese dell’Unione Europea e per titolo di studio dei lavoratori (Figura 3).

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Poiché sulla base di tali esercizi di previsione la quota di lavoratori a rischio sarà drammaticamente più alta tra i lavoratori con sola istruzione primaria – in Italia equivalente al diploma di scuola elementare – il Rapporto raccomanda politiche dirette ad accrescere i livelli di istruzione per arginare le sfide dei processi tecnologici.

In conclusione i temi toccati dal Rapporto Bruegel sono numerosi, e i dati presentati, nazionali e comunitari, relativi a una serie di fenomeni socio-economici sono rilevanti e consentono di riflettere sul legame fra tali fenomeni e il processo di crescita economica inclusiva.

Va infine sottolineato come anche questo Rapporto possa essere interpretato come segnale di un cambiamento culturale in atto tra molti economisti e istituzioni che spinge a spostare l’attenzione dalla mera crescita economica ai suoi aspetti distributivi, con il benefico effetto di ricercare e raccomandare politiche che possano favorire una crescita il più possibile inclusiva.

 

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