Crisi finanziaria e Brexit: la lezione mancante degli economisti

Marco Valente sostiene che un concetto economico molto importante e sottovalutato è quello di esternalità, cioè degli effetti che gli scambi di mercato producono su chi non partecipa a quegli scambi. Valente sostiene che le implicazioni di questa sottovalutazione sono pervasive e da essa dipenderebbero fenomeni così diversi come la crisi finanziaria e Brexit, il cui esito si può ricondurre proprio a un calcolo dei costi e benefici dell’adesione all’Unione Europea che non tiene conto delle esternalità positive che ne deriverebbero.

Da molti anni la teoria economica standard è sottoposta a critiche da parte di economisti che contestano l’uso di ipotesi considerate implausibili. La crisi del 2007-2008, ed in particolare l’incapacità della maggior parte degli economisti di darne una spiegazione soddisfacente, ha portato i principali argomenti di critica anche al di fuori del dibattito scientifico, tanto che non è raro ascoltare critiche all’homo œconomicusanche da parte di non economisti. Sembra infatti evidente a tutti che l’ipotesi di perfetta razionalità degli agenti non può essere giustificata in un mondo dove istituti finanziari riescono a piazzare sul mercato tonnellate di prodotti spazzatura, che tutti sanno non potranno mai portare i risultati promessi.

Se è facile vedere l’assurdità dell’ipotesi di razionalità perfetta, almeno come assunzione generalizzata, esiste un’altra ipotesi adottata quasi universalmente dagli economisti, meno nota al grande pubblico e di impatto ancora maggiore sui risultati prodotti dai modelli economici. Il fatto che molti dei mercati principali delle moderne società non soddisfino questa ipotesi permette, come vedremo, di spiegare un gran numero di fenomeni, apparentemente non correlati, come la crisi finanziaria e la Brexit.

Per introdurre la principale argomentazione di queste note è utile iniziare da un piccolo, ma significativo, aneddoto capitatomi di recente. Avendo ricevuto dal mio ateneo l’incarico dell’insegnamento di Microeconomia ho scelto un testo consigliatomi da un collega. Non ho fatto troppa  attenzione al contenuto del testo, limitandomi a verificare che l’indice riportasse tutti gli argomenti di un programma ormai sostanzialmente standardizzato. Qualche mese dopo, nel preparare le lezioni, mi sono accorto che il testo saltava direttamente dal capitolo 16 al capitolo 18. Il capitolo 17 consiste, nel testo, in una singola pagina contenente le indicazioni (peraltro errate) per scaricare il file del capitolo mancante. L’argomento del capitolo è il ruolo delle esternalità nell’economia, la cui natura è riassunta brevemente di seguito.

Gli economisti assumono in via preliminare che ogni scambio migliori le condizioni iniziali dei partecipanti (altrimenti lo scambio non avrebbe luogo) ma non abbia alcun effetto sulle condizioni di altri. Questa ipotesi (assenza di esternalità) permette di considerare i benefici dei mercati uguali alla semplice somma algebrica dei benefici individuali di chi partecipa allo scambio.  Ma se quest’ultimo riguarda mercati come la produzione musicale oppure i prodotti tossici, allora lo scambio tra chi vende e chi compra produce molto probabilmente una variazione (positiva o negativa) delle condizionidi almeno alcuni altri membri della società che, non partecipando allo scambio, non possono influenzarne domanda ed offerta. Le esternalità sono centrali per la analisi di un gran numero di questioni come l’inquinamento ambientale, i social media (il valore di una piattaforma dipende anche dal numero complessivo degli utenti), i settori dell’istruzione e della ricerca, l’innovazione tecnologica, i servizi di trasporto, ed in generale tutte le infrastrutture produttive e sociali.

Non credo di sbagliare se considero la scelta dell’editore come un’implicita indicazione, forse estrema ma molto comune tra gli economisti, di considerare il contenuto del capitolo, cioè gli effetti economici delle esternalità, come un orpello teorico forse utile per alcune applicazioni specifiche, ma sostanzialmente estraneo al cuore della teoria economica. Il modo in cui viene organizzato il programma dei corsi di Microeconomia invita, sostanzialmente, a ritenere che, nella generalità dei casi, gli effetti esterni sono minimi e, comunque, irrilevanti. Questa ipotesi, forse giustificabile per fini didattici, è assolutamente insostenibile sia in generale sia, soprattutto, nei sistemi economici moderni, sempre più centrati sulle interdipendenza tra ambiti una volta nettamente separati. Basti pensare che Google offre servizi gratis del valore di miliardi grazie proprio alle esternalità prodotte dal suo rapporto con gli utilizzatori di gmail, Youtube, etc. Ignorare la presenza delle esternalità ha prodotto, a mio avviso, devastanti errori nell’analisi economica e nelle politiche da essa ispirate. Ciò è avvenuto, ad esempio, in un campo “classico” di applicazione della teoria economica com’è quello della crisi finanziaria. Ma gli effetti negativi si sono avuti, più in generale, anche sul contesto culturale:  molte  persone hanno fatto propria una visione profondamente distorta della società  secondo la quale la partecipazione ad una comunità può essere ridotta ad una semplice contabilità di costi e benefici privati ignorando gli effetti esterni, cioè i costi ed i benefici indiretti generati dalle interdipendenze tra eventi apparentemente non correlati.

Il motivo per cui gli economisti preferiscono ignorare le esternalità è che, dal punto di vista teorico, la loro presenza impedisce di derivarei teoremi fondamentali di dimostrazione della superiorità dei mercati concorrenziali rispetto ad altre forme di organizzazione produttiva. In caso di esternalità, ad esempio, si giustifica teoricamente l’intervento dello stato in economia con l’introduzione di tasse e sussidi per scoraggiare le produzioni con esternalità negative e favorire quelle con esternalità positive. Quindi, quando un editorialista od un ministro discettano sui benefici effetti di un qualche stimolo alla competitività di un settore e raccomandano il non intervento statale dovrebbero assicurarsi che il settore di cui si occupano abbia effetti esterni nulli o trascurabili. Per qualche curioso motivo però sembra che questo dettaglio sfugga nella maggior parte dei casi, come se la lezione sulle esternalità del corso di economia sia sfuggita a molti studenti. E non solo. Trascurare la presenza di esternalità rischia di rendere incomprensibili eventi che, al contrario, sono facilmente spiegabili. Vediamo due esempi.

Uno dei motivi principali per cui è stato possibile creare le condizioni che hanno portato alla crisi finanziaria è che i mutui subprime, i Credit Default Swap e tutti gli altri elementi nella tavola periodica finanziaria in continua espansione sono, individualmente, perfettamente compatibili con il funzionamento ordinato dei mercati. In ciascuno di questi contratti, infatti, le controparti operano come sembra loro più opportuno e sono preparate ad ogni possibile evenienza. Alla fine alcuni guadagneranno, altri perderanno, ma questo non ha motivo di interessare altri operatori finanziari, e tanto meno le persone al di fuori delle istituzioni finanziare. Come è possibile allora che nel giro di pochi mesi milioni di americani (e non solo) abbiano perso il posto di lavoro e la loro casa, ed il mondo intero abbia rischiato il collasso economico a causa di qualche titolo derivato di troppo?

Solo considerando gli effetti esterni si può dare una spiegazione di quanto è successo. Inoltre, se si fossero considerati gli effetti esterni nella valutazione dei mercati finanziari prima della crisi, probabilmente si sarebbero potute evitare almeno le conseguenze più disastrose.  Ad esempio, ignorando le esternalità le grandi banche hanno valutato le proprie condizioni economiche sulla base della differenza netta tra le attività e passività nei propri bilanci. Ma lo stesso patrimonio netto, ad esempio pari a  10, può essere il risultato della differenza (110-100) oppure (100.000.000.010-100.000.000.000).

Le due situazioni sono molto diverse. Un motivo è che, nel primo caso, una diminuzione dell’1% del valore delle proprie attività rispetto alle passività non produce grandi conseguenze; nel secondo provoca una catastrofe. Un altro motivo, non meno rilevante, è che le attività di un attore sono le passività di un altro. Quindi il fallimento di una azienda comporta, nelle controparti, la perdita di una quota della attività, mentre le passività restano intatte. La catena delle dipendenze era diventata (e, peraltro, è ancora) di dimensioni tali che un singolo evento, ad esempio il fallimento della Lehman Brothers, può  attivare un disastroso effetto domino facendo cadere progressivamente tutti gli altri operatori.

Considerare gli effetti esterni nei mercati finanziari avrebbe implicato porre attenzione anche al livello assoluto delle attività in bilancio alle banche. Sarebbe così emersa chiaramente l’insostenibilità collettiva di un sistema che aveva creato nella sola piazza di New York titoli il cui valore “nozionale” aveva raggiunto, nel 2008, il 1100% (11 volte!) del PIL mondiale. La gran parte di questa massa di crediti/debiti si annullava reciprocamente nel bilancio di ogni singola impresa, ma la sua dimensione collettiva era evidentemente un rischio non solo per i contraenti di ogni singolo contratto, ma per ogni altro attore collegato, direttamente o indirettamente, a loro. I tanto vituperati mutui sub-prime erano una quota minima delle attività economiche totali, ma la massa di derivati basati su di essi era talmente grande da produrre, al momento del crollo del loro valore, una catena di fallimenti.

La tendenza a trascurare le esternalità ha invaso anche ambiti delle società che dovrebberoavere proprio lo scopo di gestirle e valorizzarle. Il caso della partecipazione della Gran Bretagna alla Comunità (e poi Unione) Europea è emblematico. La Thatcher per prima impostò le trattative con Bruxelles sulla base della semplice analisi dei flussi finanziari nazionali, ottenendo le famose rebates, la “restituzione” dei contributi considerati in eccesso. In modo simile il recente referendum è stato impostato su un semplice calcolo diretto tra i benefici ed i costi della partecipazione alla Unione Europea. Non stupisce quindi che una quota consistente della popolazione abbia considerato i soldi versati all’estero ed i posti di lavoro sottratti all’interno motivazioni sufficienti per votare a favore della Brexit. Gli argomenti a favore del remain sono tutti basati sui vantaggi indiretti che derivano dalla partecipazione ad una ampia comunità sociale ed economica. Questi vantaggi non sono limitati agli studenti Erasmus nelle università ed agli analisti finanziari della City, argomenti, comprensibilmente, di scarsa presa per la maggioranza della popolazione. Il vantaggio di far parte di una comunità formata da centinaia di milioni di individui è basato sulla moltiplicazione delle opportunità di sviluppo economico (e sociale) prodotto dalle esternalità, cioè dalle ricadute positive sulla Gran Bretagna  delle scelte di romeni, spagnoli, francesi ecc.

Anche ignorando gli aspetti etici e storici del legami tra il Regno Unito e i paesi continentali, e rimanendo quindi sul piano strettamente economico, il concetto di esternalità è fondamentale per capire (e far capire) che i vantaggi della appartenenza alla UE sono misurati non  dal saldo dei bilanci nèdai posti di lavoro nelle imprese esistenti, ma dalle nuove aziende che avrebbero potuto essere fondate e che, grazie alla Brexit, non vedranno mai la luce.

Adam Smith è spesso citato per la abusata metafora della mano invisibile, sostanzialmente una osservazione priva di alcuna conseguenza teorica ma propagandata come l’affermazione che i mercati privi di interventi funzionino al meglio. In realtà, il più rilevante contributo teorico di A.Smith è stato la considerazione che la “divisione del lavoro è limitata solo dalla dimensione del mercato”, cioè che la produttività, e quindi il reddito, individuale aumentano con la dimensione globale del sistema in cui si opera. Restringendo quest’ultima si riduce necessariamente la produttività, e quindi il reddito, in base alla cancellazione degli effetti esterni su cui sarebbe possibile far leva in un mercato ampio. Non stupisce quindi che la Scozia, patria di A.Smith, non abbia alcuna intenzione di seguire il resto dei Britannici nel sentiero che vuole riportare indietro le lancette della storia.

Nell’opinione comune si ritiene che il principale risultato della teoria economica è la dimostrazione della superiorità dei mercati concorrenziali rispetto ai monopoli ed all’intervento statale. Questo è, in realtà, un risultato semplificato dipendente strettamente da una serie di condizioni tra cui, oltre l’ipotesi di razionalità perfetta, anche l’assenza di esternalità. Gli economisti sanno (o, meglio, dovrebbero sapere) che la presenza di esternalità modifica radicalmente il funzionamento dei mercati e i loro effetti sulle società. Questa lezione non deve quindi essere limitata a spiegare fenomeni considerati, dalla teoria, come casi speciali e di scarsa rilevanza teorica. Al contrario, in un mondo che, si afferma, ha moltiplicato il numero e l’intensità delle connessioni, la considerazione delle esternalità deve avere un ruolo centrale nella formazione economica avanzata, nelle analisi economiche, e nella cultura sociale e politica.

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