Cause e conseguenze delle basse prestazioni scolastiche: un recente Rapporto dell’Ocse

Michela Boldrini, Gabriele Dente e Ludovica Galotto illustrano il recente rapporto OCSE sugli studenti low performers, basato sui risultati dell’indagine PISA 2012. Il rapporto esamina i fattori sociali, economici e demografici alla base delle differenze nei rendimenti degli studenti e discute le politiche che possono consentire a tutti di raggiungere un appropriato livello di competenze. Come sottolineano Boldrini, Dente e Galotto tali politiche sembrano anche in grado di portare a risultati più equi e più efficienti.

Chi sono i ragazzi con i risultati di apprendimento peggiori, e perché i loro risultati sono peggiori di quelli dei loro coetanei? Ma, soprattutto, se i meno bravi migliorano ne beneficiano tutti? In altri termini, innalzare i livelli di apprendimento dei meno bravi potrebbe avere effetti positivi sia dal punto di vista dell’equità che dell’efficienza?

Sono queste le domande a cui ha provato a dare risposta un recente Rapporto dell’OCSE “Low-Performing Students: Why They Fall Behind and How to Help Them Succeed”, che si è posto anche l’obiettivo di identificare i fattori di rischio legati a prestazioni scolastiche sotto la media.

Lo studio rientra nel programma PISA (acronimo per Programme for International Student Assessment) dell’OCSE, che dal 2000 rileva con cadenza triennale, mediante una batteria di questionari e test di valutazione, le competenze degli studenti nei campi della matematica, delle scienze e della capacità di lettura e interpretazione di un testo. I paesi messi a confronto nell’ultima indagine condotta nel 2012 sono 65, di cui 35 fanno parte dell’ OCSE e 30 sono Stati partner. Il campione è composto da 510.000 studenti quindicenni iscritti ad ogni tipo di istruzione di secondo grado, su un totale di 28 milioni di ragazzi con le stesse caratteristiche residenti nei paesi oggetto dell’indagine.

I quesiti sottoposti ai giovani studenti non hanno lo scopo di verificare le nozioni scolastiche acquisite ma piuttosto di valutare la loro capacità di ragionamento logico. L’insieme dei risultati raccolti globalmente viene suddiviso in sei livelli (su una scala crescente da 1 a 6) per ciascuna disciplina.

Sono definiti low performers quei ragazzi che non raggiungono il secondo gradino in almeno una delle tre discipline, mostrando risultati molto inferiori alla media dei loro coetanei. Lo studio indica che i ragazzi che non raggiungono questo standard minimo sanno gestire problemi solo in contesti a loro familiari, in cui le domande siano chiare e dirette e tutte le informazioni rilevanti esplicite. Un ragazzo low performer avrebbe pertanto problemi, ad esempio, ad interpretare grafici sulle vendite di un negozio, quantificare l’area di un appartamento da una piantina, calcolare velocità medie oppure applicare il concetto di proporzione.

Per poter individuare le cause che influenzano i risultati individuali, a ogni alunno è richiesto di completare un questionario sul suo background familiare, con quesiti che riguardano il livello di istruzione dei genitori, il numero di libri posseduti a casa, le attività extrascolastiche effettuate. Si può, quindi, analizzare il contesto socio-economico e demografico di appartenenza dei low-performers e identificare le origini degli svantaggi educativi, in modo da individuare soluzioni e politiche in grado di garantire a tutti gli studenti livelli adeguati di conoscenza. I dati sembrerebbero confermare, inoltre, che concentrare gli sforzi sui ragazzi meno capaci possa portare benefici all’intera popolazione di studenti, sottolineando come il trade off tra equità e efficienza sia solo apparente.

Prima di presentare i principali risultati raggiunti nel Rapporto, va ricordato che i test PISA non sono esenti da critiche all’interno della comunità accademica. In particolare, si può ricordare che nel Maggio 2015 un gruppo di professori, presidi e membri di associazioni criticò duramente i test con una lettera pubblicata sul quotidiano inglese The Guardian, che poneva l’attenzione sulle conseguenze negative derivanti dalla pubblicazione delle graduatorie fra scuole e fra paesi: per aumentare il prestigio di un’istituzione o la posizione in classifica di un paese, le scuole rischierebbero, infatti, di mettere in secondo piano la loro funzione educativa e diventare luoghi di mera preparazione di test.

Passiamo ora a presentare i risultati dei test condotti nel 2012. I paesi dell’Estremo Oriente risultano avere, in media, i ragazzi più brillanti in matematica e in lettura, mentre le posizioni di cotta in tutte le discipline sono occupate dagli studenti dei paesi dell’America Latina. Nel campo della matematica, ai primi posti si collocano Singapore, Hong Kong-China, Taipei, Corea del Sud, Macao e Giappone; seguono Liechtenstein, Svizzera e Olanda. Nel totale del campione analizzato, uno studente su 4 ha ottenuto un risultato scarso in almeno una delle materie, il che si traduce in quasi 11,5 milioni di ragazzi con performance inferiori allo standard minimo in matematica, 8,5 nella lettura e 9 in scienze.

Al di là dell’incidenza quantitativa delle basse performance, di primaria importanza è indagare le principali cause delle divergenze nei risultati fra paesi e all’interno di questi. Dall’indagine emerge che lo scarso rendimento scolastico non è collegato a singole caratteristiche degli studenti o delle scuole da loro frequentate, ma piuttosto a un insieme di fattori che possono limitare le opportunità di apprendimento e, dunque, minare le prestazioni degli studenti. Fra le determinanti dei risultati nei test PISA il ruolo svolto dal contesto familiare di provenienza risulta molto rilevante: il Rapporto dell’OCSE conferma infatti che, a parità di altre caratteristiche, i ragazzi che provengono da famiglie con livelli di istruzione bassi e limitate disponibilità economiche presentano una probabilità quattro volte maggiore di avere un rendimento scolastico scarso rispetto ai loro omologhi più fortunati.

Un precedente Rapporto dell’OCSE sui dati PISA condotto nel 2015 mostrava che in media, le ragazze tendono ad avere un rendimento peggiore in matematica rispetto ai ragazzi e hanno difficoltà a collocarsi nella fascia di rendimento superiore; tuttavia, le differenze più marcate si osservano all’interno dei due sessi. Il Rapporto sottolinea come le differenze di rendimento scolastico tra ragazzi e ragazze dipendano non da capacità innate ma dai contesti sociali e culturali in cui vivono, perché in questi ultimi si formano valori, preferenze, pregiudizi e comportamenti che incidono sul rendimento scolastico (nonché sulla successiva decisione se proseguire gli studi all’università).

L’immigrazione risulta essere un altro fattore demografico associato a maggiori rischi di scarse performance scolastiche: gli studenti immigrati, di prima o seconda generazione, tendono ad avere un rendimento peggiore in matematica, quantificabile in un distacco pari a circa un anno d’istruzione rispetto agli studenti nativi. Tra gli immigrati, quelli di seconda generazione, quelli che vivono da più tempo nel paese di destinazione o che appartengono a comunità più grandi e socio-economicamente eterogenee sono caratterizzati da un rendimento relativamente migliore.

Il Rapporto prende in esame anche l’influenza dell’ambiente di residenza. Se nelle città sono presenti maggiori risorse economiche e culturali è anche vero che i problemi sociali sono più marcati, ad esempio è più alto il tasso di criminalità. Inoltre, possono esservi differenze rispetto alle risorse destinate alle strutture scolastiche e alla presenza di insegnanti più o meno qualificati. Secondo il Rapporto, nella maggioranza dei paesi presi in considerazione, gli studenti che risiedono in zone rurali incorrono in un rischio di scarso rendimento 1,3 volte maggiore degli studenti che vivono in aree urbane.

Sintetizzando, il principale risultato che emerge dallo studio dell’OCSE è la chiara possibilità che il contesto socio-economico di appartenenza degli studenti influenzi la loro performance e che questa relazione, in assenza di interventi di policy adatti, si rinforzi progressivamente generando vantaggi/svantaggi che si cumulano nel tempo: in alcuni paesi, infatti, le differenze preesistenti si consolidano durante la formazione scolastica. Invece di favorire l’eguaglianza delle opportunità quest’ultima accresce le distanze fra i più e i meno fortunati.

Lo studio evidenzia che nei paesi OCSE uno studente socio-economicamente avvantaggiato realizza un punteggio più alto nei test di matematica rispetto a un suo coetaneo svantaggiato ed il divario è considerevole: equivale a quasi un anno di istruzione.

Per quanto riguarda l’Italia, la figura sottostante mostra che nel nostro paese nei test di matematica si registra una performance lievemente inferiore alla media dei paesi OCSE, ma al contempo un indicatore di eguaglianza di opportunità superiore, dove questa viene misurata in termini di minore influenza della condizione socio-economica degli studenti sulle loro performance scolastiche. La Figura 1 riporta la posizione di ciascun paese in termini di performance e equità così misurata, marcando con i diversi colori l’intensità del legame tra questi due elementi: più forte è la relazione, più iniquo è il sistema.

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Alla luce di questi risultati, il Rapporto si interroga sul ruolo che possono avere le politiche pubbliche per attenuare i divari nelle competenze degli studenti. Come detto, misure appropriate possono contribuire a migliorare sia l’equità dei risultati e delle opportunità educative fra gli studenti, sia la stessa efficienza, dato che la gran parte degli studi segnala che le prospettive di crescita di un paese sono positivamente correlate al capitale umano dei suoi cittadini.

L’OCSE segnala un generale impegno da parte dei paesi membri nelle politiche mirate a colmare il divario in termini di opportunità tra gli studenti più e meno fortunati: nell’allocare le risorse, ad esempio, molti paesi assicurano alle scuole “svantaggiate” (in base al contesto in cui sono localizzate) un numero d’insegnanti almeno pari, se non superiore, a quello delle scuole “avvantaggiate”. Queste misure non sono però sufficienti, da sole, a generare un automatico miglioramento della qualità dell’insegnamento a favore dei meno fortunati: come già messo in evidenza da uno studio dell’OCSE pubblicato nel 2014, le scuole “svantaggiate” scontano grosse difficoltà nell’attrarre insegnanti di alta qualità, a prescindere dalla quantità di fondi messi a disposizione. A questo proposito, nel Rapporto del 2016 si evidenza come l’eccellenza nell’istruzione non dipenda tanto dalle risorse disponibili, ma da come, quando e dove queste vengono impiegate.

Il primo suggerimento contenuto nel Rapporto è che i paesi inseriscano tra le priorità in agenda l’impegno a ridurre il numero di low performers attraverso politiche che, come evidenziano alcuni casi di successo, sono in grado di dare risultati già nel breve periodo. Un buon esempio è quello della Germania, che ha ridotto la quota di low performers dal 22% al 18% tra il 2009 e il 2012; tra gli interventi attuati ci sono l’investimento nella formazione psico-pedagogica dei docenti e l’organizzazione di programmi pre-scolari specifici rivolti a studenti di lingua nativa diversa dal tedesco.

Nel Rapporto si raccomanda di abbattere le barriere all’insegnamento legate al background socio-economico e di prevedere programmi rivolti ai ragazzi che mostrano difficoltà già nelle prime fasi di apprendimento, fornendo anche servizi di assistenza e supporto alle famiglie. Questo tipo di politiche ha ottenuto un buon successo, ad esempio, a Singapore, dove il governo ha offerto programmi di supporto ai ragazzi che mancavano delle capacità basilari di calcolo, con l’obiettivo di consentire loro di proseguire un percorso accademico di tipo scientifico.

Infine, nella riflessione sulle linee guida di policy, il Rapporto segnala che una maggiore inclusività dei low performers nel processo di apprendimento non andrebbe a discapito della possibilità degli studenti più dotati di raggiungere risultati eccellenti. Dai dati PISA, infatti, risulta che nei sistemi scolastici maggiormente inclusivi ed equi, la quota di studenti top performers non è sistematicamente più bassa.

Questi risultati sembrano, dunque, smentire chiaramente l’esistenza di un trade-off tra equità ed eccellenza nei risultati scolastici: è possibile combattere le disuguaglianze educative, senza che ciò pregiudichi o influenzi l’obiettivo dell’eccellenza.

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