Cambiamento tecnologico, mansioni e occupazione

Roberto Quaranta, Valentina Gualtieri e Dario Guarascio si occupano del rapporto tra cambiamento tecnologico, mansioni, e occupazione in Italia e nel Mezzogiorno. Gli autori classificano le mansioni in base al loro grado di routinarietà (connessa ad attività manuali) e di non-routinarietà (legata ad attività di natura cognitiva) ed esaminando le 20 professioni che nel periodo 2011-2016 hanno subito le maggiori variazioni in aumento o diminuzione, concludono che vi sono rilevanti interazioni tra l’andamento dell’occupazione ed il grado di routinarietà della mansioni.

Il timore che il cambiamento tecnologico possa tradursi in disoccupazione di massa alimenta il dibattito economico sin dalle prime fasi dell’industrializzazione. Lo studio della relazione tra tecnologia e occupazione si accentua, a partire dagli anni 90’, con l’avvento dell’ICT e la globalizzazione dei mercati. Recenti evoluzioni di questa letteratura – il passaggio dallo “Skill” al “Task biased technological change” – hanno visto uno spostamento dell’attenzione dalla dotazione di skill dei lavoratori alle mansioni che sono svolte da questi nei luoghi di lavoro. Sono le mansioni, a essere il “vero” oggetto della potenziale sostituzione da parte delle macchine ed è, dunque, una qualificazione del lavoro per caratteristiche – i.e. suscettibilità all’automazione – e peso relativo – i.e. importanza relativa di una certa mansione per una data figura professionale – delle stesse mansioni a consentire di stimare l’impatto del cambiamento tecnologico sul lavoro. Il focus sulle mansioni costituisce un passo avanti decisivo per l’identificazione degli effetti occupazionali dell’innovazione(sebbene registrati dal solo lato dell’offerta). Proprio adottando l’approccio del “Task biased”, che si sta tentando di valutare l’impatto occupazionale dell’attuale processo di digitalizzazione e automazione delle relazioni socio-economiche.

Le stime sin qui prodotte fanno riferimento alla possibilità di effetti radicali dell’attuale transizione tecnologica. Analizzando l’occupazione americana, Frey ed Osborne (2017) arrivano a prevedere la sparizione del 40% dei posti di lavoro; l’OECD (2016), adottando un approccio metodologico parzialmente diverso, prevede un più conservativo 9% di lavori a rischio. A prescindere dalla forte eterogeneità delle stime, il grado di allarme implicito in entrambi gli scenari è evidente. Tuttavia, la precisione di queste previsioni può essere posta in questione in virtù di valutazioni di carattere concettuale e metodologico. In primo luogo, tali previsioni assumono implicitamente la stabilità delle condizioni strutturali dell’economia nell’orizzonte temporale preso in considerazione. Si trascura cioè la cruciale interazione (endogena e ricorsiva) che nel tempo viene a verificarsi tra innovazione, composizione settoriale dell’economia, rapporti di forza tra gruppi sociali, variazioni nel sistema delle preferenze, nonché vincoli politici, culturali e normativi all’adozione delle nuove tecnologie. Questo complesso intreccio di fattori è ciò che effettivamente determina magnitudo e direzione della relazione tra tecnologia e occupazione. La mancata considerazione di queste dimensioni riduce sostanzialmente l’attendibilità delle stime che cercano di misurare l’impatto futuro del cambiamento tecnologico.

In secondo luogo, gli studi sin qui disponibili sembrano cogliere in modo parziale o eccessivamente aggregato la relazione tra cambiamento tecnologico e mansioni. Il pericolo è di produrre stime non corrette circa l’impatto dell’innovazione sulla singola professione. Si pensi a una professione che si caratterizza per lo svolgimento di 10 mansioni. Si ipotizzi poi che 6 di queste 10 mansioni saranno facilmente automatizzabili nel futuro. Dando una valutazione media – incapace cioè di tenere conto dell’importanza relativa di ciascuna mansione per quella specifica professione – del “rischio di sparizione” si potrebbe decretare la morte imminente di una professione che invece potrebbe sopravvivere sebbene mutata in termini qualità e peso relativo delle mansioni svolte. Inoltre, gli studi disponibili difettano di dati che consentano di valutare in modo granulare tutte le professioni. Ciò impone aggregazioni – ad esempio, lo studio dell’OECD stima il rischio occupazionale (anche per l’Italia) prendendo in considerazione le professioni al secondo digit della classificazione ISCO-08 quando la gran parte dei sistemi statistici nazionali rileva il dato professionale arrivando fino al quinto digit della medesima classificazione o della classificazione italiana (CP2011) – che non consentono di cogliere le importanti eterogeneità che caratterizzano le professioni considerate minando ulteriormente l’affidabilità delle previsioni.

Un’analisi pilota per lo studio della relazione tra cambiamento tecnologico e occupazione italiana. I problemi analitici appena descritti non riducono la portata trasformativa e potenzialmente destabilizzante del cambiamento tecnologico in corso. L’analisi degli effetti occupazionali è quindi cruciale ma è altrettanto importante condurre tali analisi i) tenendo a mente i caveat concettuali e metodologici messi in luce in precedenza e ii) usando dati che consentano di valutare in modo dettagliato il ruolo delle mansioni caratterizzanti le singole professioni. Questo articolo espande l’analisi pilota condotta da INAPP – pubblicata nel Policy Brief 4/2017 –analizzando (in termini descrittivi) il legame tra dinamica e struttura dell’occupazione italiana e grado di routinarietà manuale/intensità cognitiva delle mansioni. L’analisi esposta di seguito costituisce il primo passo di un lavoro in corso teso ad analizzare nel modo più approfondito possibile il legame tra occupazione, caratteristiche delle mansioni e delle competenze, natura tecnologica dei settori a cui tali occupazioni sono riconducibili e dinamica economica. In questo modo, sarà possibile avere un’immagine nitida del legame osservabile tra innovazione e occupazione avendo così a disposizione una base conoscitiva solida dalla quale partire per inferire il potenziale impatto occupazionale della transizione tecnologica in corso.

L’analisi è condotta sulle 10 professioni che sono cresciute e sulle 10 che si sono maggiormente contratte in termini occupazionali tra il 2011 ed il 2016. Lo studio è sviluppato separatamente per l’Italia e per il solo Mezzogiorno. Le unità di analisi sono le professioni al 4-digit della classificazione CP2011. I dati utilizzati per l’analisi derivano dall’integrazione dell’Indagine Campionaria sulle Professioni (ICP), condotta da INAPP e ISTAT nel 2012, e della Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro (RCFL) dell’ISTAT. La ICP rileva informazioni su conoscenze, competenze, abilità, attitudini e caratteristiche del contesto di lavoro per tutte le professioni italiane a 5 digit (nell’indagine sono coinvolti circa 16.000 rispondenti rappresentativi dell’intero set di professioni considerate).

La ICP è l’unica base informativa disponibile in Europa costruita in modo speculare all’Occupational Information Network (O*NET) americana. Ciò consente di superare due importanti limiti metodologici dei lavori sin qui prodotti per l’Europa: i) l’assunzione di omogeneità tra la struttura economico-occupazionale USA e quella del paese analizzato imposta dall’utilizzazione degli indicatori (O*NET) basati sull’indagine americana ii) l’uso di valori medi – circa il grado di routinarietà delle mansioni – derivanti dall’aggregazione di professioni tra loro eterogenee. Per quantificare il grado di routinarietà delle mansionisi sono utilizzati due degli indicatori proposti da Autor ed Acemoglu (2011):. Non Routine Cognitive Analytical (intensità nell’uso di capacità cognitive tese all’analisi ed alla gestione delle informazioni nello svolgimento dei task) ed il Routine Manual (intensità di attività ripetitive a scarso contenuto cognitivo). Le 20 professioni sono studiate considerando simultaneamente tre dimensioni: tasso variazione medio annuo 2011-2016, peso relativo delle singole professioni sul totale dell’occupazione (dato 2016) e grado di routinarietà/non routinarietà delle mansioni caratterizzanti la professione. Preliminarmente, si mostra il tasso di variazione dell’occupazione per le 10 professioni che sono maggiormente cresciute e per le 10 che si sono contratte nel periodo 2011-2016.

Fig. 1. Le professioni più e meno richieste nel periodo 2011-2016

Tasso di variazione medio annuo

Acemoglu, D. e Autor, D. (2011). Skills, tasks and technologies: Implications for employment and earnings. Handbook of labor economics, 4, 1043-1171.

Tra le 10 professioni che sono cresciute è possibile identificare tre profili riconducibili ad attività a elevata intensità tecnologica (specialisti dei rapporti con il mercato, tecnici della produzione manifatturiera, analisti e progettisti di software). Crescenti ma caratterizzate da una dinamica meno intensa sono, invece, le professioni riconducibili ad attività a minore intensità tecnologica ma dove risulta comunque rilevante la componente umana come nel caso degli addetti all’assistenza personale o delle professioni qualificate nel settore socio-sanitario. Le professioni che mostrano una importante decrescita nel periodo di interesse, al contrario, sono riconducibili a attività a bassa intensità tecnologica. Le dinamiche illustrate vanno tuttavia lette anche alla luce delle modifiche all’assetto produttivo, che hanno interessato in modo differente i settori economici, a seguito dalla lunga recessione post-2008.

 Fig. 2 La relazione tra dinamica dell’occupazione, struttura e grado di routinarietà/non routinarietà delle mansioni

Le professioni più richieste nel periodo 2011-2016

Le professioni caratterizzate da una maggiore intensità di mansioni a elevato contenuto non-routinario (box in alto a sinistra) sono interessate da una crescita relativamente più intensa. Inoltre, non sembra emergere alcuna correlazione tra la dinamica occupazionale ed il grado di routinarietà manuale delle mansioni (box in alto a destra). Circa il peso relativo sul totale dell’occupazione, vi è una ripartizione equilibrata tra le professioni caratterizzate da un elevato grado di non routinarietà delle mansioni e quelle che mostrano valori bassi dello stesso indicatore. Emerge poi una correlazione negativa tra la dinamica occupazionale e il grado di routinarietà manuale (box in basso a destra) mentre le professioni che hanno un peso relativo maggiore sul totale dell’occupazione sono in due casi caratterizzate da un elevato grado di non routinarietà relativamente all’uso di informazioni (contabili ed addetti di segreteria); in un altro caso, da un elevato grado di routinarietà manuale (operai del settore edile)

Il confronto Italia-Mezzogiorno. Di seguito riproponiamo l’analisi svolta concentrando l’attenzione sul solo Mezzogiorno.

Figura 3. Tasso di variazione medio annuo dell’occupazione per le 10 professioni che sono maggiormente cresciute e per le 10 che si sono contratte nel periodo 2011-2016, Mezzogiorno

Fig. 4. La relazione tra dinamica dell’occupazione, struttura e grado di routinarietà/non routinarietà delle mansioni, Mezzogiorno. Tasso di variazione medio annuo, 2011-2016

Le professioni più richieste nel periodo 2011-2016

Il confronto Italia-Mezzogiorno fa emergere una forte eterogeneità strutturale tra le due aree. Mentre a livello nazionale a crescere sono in misura rilevante professioni ad alto contenuto cognitivo (come gli analisti di software o gli specialisti nei rapporti con il mercato); nel Mezzogiorno, quelle che crescono di più si caratterizzino invece per un alto grado di routinarietà manuale. Il Mezzogiorno sembra essere affetto da una fragilità strutturale ancor più acuta di quella riscontrabile a livello nazionale. Le figure professionali più domandate – venditori a domicilio, camerieri e venditori ambulanti –, infatti, sono connesse ad attività per loro natura discontinue, a scarsa intensità tecnologica e caratterizzate da condizioni contrattuali precarie e da basse retribuzioni. L’unica eccezione riguarda gli operatori di catene di montaggio automatizzate che risultano essere le seconde professioni maggiormente richieste nel Mezzogiorno. In generale, ad eccezione della correlazione positiva tra tasso di variazione dell’occupazione e grado routinarietà manuale delle mansioni, la dinamica occupazionale nel Mezzogiorno non mostra particolari legami con l’intensità degli indicatori di routinarietà/non routinarietà.

Conclusioni. Questa prima analisi descrittiva mette in luce le potenzialità delle basi informative utilizzate – caratterizzate dal massimo dettaglio possibile circa l’identificazione della professione e da informazioni sulla natura di mansioni e competenze costruite sulla scorta di O*NET e ottenute mediante un’indagine condotta su 16.000 lavoratori italiani – riguardo la possibilità di superare alcuni dei limiti analitici degli studi diretti a stimare l’impatto del cambiamento tecnologico sull’occupazione (in particolar modo quella italiana ed europea). Il test ci consente di ipotizzare la concomitanza di fattori strutturali (l’evoluzione della composizione settoriale dell’economia italiana all’indomani della crisi, con il ridursi della capacità produttiva manifatturiera e la crescita di settori a bassa intensità tecnologica), di offerta (con la correlazione tra il tasso di variazione dell’occupazione e gli indicatori di routinarietà/non routinarietà considerati) e territoriali (con la radicale eterogeneità tra il dato italiano e quello del solo Mezzogiorno) quali elementi esplicativi chiave della dinamica occupazionale italiana a livello di singola professione. Grazie all’elevato livello di dettaglio disponibile è stato possibile identificare un’associazione tra crescita dell’occupazione e peso delle mansioni caratterizzate da un significativo grado di non routinarietà cognitiva. Allo stesso tempo, è emerso come la contrazione dell’occupazione per le professioni che si sono ridotte tra il 2011 ed il 2016 sia correlata all’intensità di mansioni routinarie manuali. Il confronto Italia-Mezzogiorno ha inoltre confermato il dualismo strutturale del Paese. Se, a livello nazionale, emerge un peso significativo di professioni caratterizzate da mansioni a basso contenuto cognitivo (ad esempio, magazzinieri e addetti all’assistenza personale), nelle regioni meridionali si registra la crescita di figure professionali ancor più marginali (come i venditori a domicilio o ambulanti). A livello nazionale, questa dinamica è in parte compensata dalla crescita di figure di medio-alto livello quali gli analisti di software o i tecnici della produzione manifatturiera mentre nel Mezzogiorno vi è una sola figura (tra le 10 maggiormente cresciute) caratterizzata da mansioni ad alto contenuto cognitivo. Per giungere ad un effettiva identificazione del ruolo del cambiamento tecnologico e del legame tra questo ed il “contenuto del lavoro” sarà necessario estendere l’analisi a tutte le professioni controllando in modo esplicito per i fattori di domanda e settoriali capaci di influenzare – condizionando significatività, magnitudo e direzione – la relazione tra tecnologia e occupazione.

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