Bitcoin, paleomonete, alternative currencies: qualche spunto antropologico

Gino Satta analizza Bitcoin dal punto di vista dell’antropologo, prendendo spunto da un articolo dell’Economist che accosta Bitcoin alla moneta di pietra dell’isola di Yap. L’analogia, che ha una lunga e interessante storia, è stimolante ma può essere fuorviante. Secondo Satta l’antropologia economica può contribuire all’analisi delle monete virtuali soprattutto con un approccio etnografico ai contesti sociali che analizzi le credenze, gli usi, le relazioni degli attori coinvolti.

Sull’Economist del 15 marzo 2014, in un articolo intitolato Hidden flipside, il Bitcoin era accostato alla celebre moneta di pietra dell’isola di Yap, gli enormi dischi di pietra perforati (Rai) che gli abitanti dell’isola del Pacifico usavano come mezzo di pagamento in alcune importanti transazioni, in particolare quelle matrimoniali. A motivare l’accostamento era la particolare modalità di trasferimento della proprietà delle pietre, che – essendo quasi inamovibili – cambiavano proprietario senza essere trasferite fisicamente, attraverso il riconoscimento pubblico della transazione incorporato in una storia orale, che tutti conoscono ma nessuno controlla. L’analogia con la blockchain che registra l’intera storia delle transazioni, certificando la proprietà dei Bitcoin e impedendo che essi possano essere «spesi due volte», è evidente, stimola interessanti riflessioni, e potrebbe anche essere esplorata più a fondo; ma, nello stesso tempo, suscita qualche perplessità in chi la affronti dal punto di vista antropologico. Prima di esplicitare quale essa sia, continuiamo a seguire la storia istruttiva del Rai dell’isola di Yap.

La principale fonte storica di notizie etnografiche è il libro di William Furness The Island of Stone Money, pubblicato nel 1910. Ad attirare l’attenzione degli economisti sul Rai fu però John Maynard Keynes (attribuendolo erroneamente a Rossel Island, sede di un altro noto e complesso fenomeno monetario), che nel Treatise on Money (1930, vol. II, p. 292) citò il trasferimento della sua proprietà come «il più antico esempio di ‘earmarking’», mettendone in evidenza l’analogia con quanto accadeva per l’oro nei forzieri delle banche centrali; Keynes si soffermava anche sull’aneddoto secondo il quale una di queste pietre, pur sepolta in fondo al mare in seguito a un naufragio, continuava «in queste isole civilizzate» a essere annoverata nello stock di moneta; l’analogia con l’«earmarking» dell’oro è ripresa, tra gli altri, da James Tobin per la voce Money del New Palgrave Dictionary of Money and Finance (1992) e da Milton Friedman in Money Mischief (1992); quest’ultimo utilizza anche l’esempio del Rai per confutare la «fallacia metallista», la credenza cioè che ogni moneta debba consistere in (o rappresentare) una merce dotata di valore intrinseco. La storia potrebbe continuare, ma ci fermiamo qui.

L’uso selettivo del materiale etnografico per rivelare sorprendenti analogie può essere utile e interessante da diversi punti di vista, sia per scardinare quegli inconsapevoli schemi evolutivi che guidano la nostra percezione comune dei fenomeni monetari (compendiati nella sequenza baratto-moneta-credito), sia per gettare luce o attirare l’attenzione su alcune particolari caratteristiche delle nuove monete virtuali e sulle loro possibili conseguenze, come fa l’articolo dell’Economist.

Ma presenta anche il notevole inconveniente di lasciare in ombra significative differenze. Sappiamo infatti che una gran parte di quelle che sono state chiamate monete primitive o paleomonete, tra le quali anche il Rai, non erano affatto analoghe al Dollaro o all’Euro, e nemmeno al Bitcoin. Raramente utilizzate come mezzo di scambio, erano invece spesso usate in transazioni non economiche, come il pagamento di indennizzi (il prezzo del sangue), spettanze derivanti da obblighi consuetudinari (la ricchezza della sposa), tributi, multe, doni o altri trasferimenti unilaterali. Spesso coesistevano in uno stesso ambito con una molteplicità di mezzi monetari, ognuno dei quali adibito a specifiche funzioni o, addirittura, specifiche transazioni (di tale pluralismo monetario parla Weber nella Storia economica; si tratta, nella terminologia polanyiana, di monete di scopo), e, talvolta, differenziati anche per genere e per ceto.

Se, come sosteneva Raymond Firth, «un articolo può essere considerato vera moneta solo quando funge da intermediario definito e comune degli scambi, […] da misura del valore [anche] con riferimento ai pagamenti passati o futuri, [e da] riserva di valore» (Encyclopaedia Britannica 1937), si dovrebbe concludere che la quasi totalità delle paleomonete non sono affatto monete. Karl Polanyi, criticando Firth, sosteneva al contrario che fosse necessario, a fini di comparazione antropologica, considerare moneta qualsiasi «oggetto (materiale) quantificabile» utilizzato in una o più delle classiche funzioni monetarie, aprendo un campo enorme alla ricerca che ha dato i suoi frutti in una pluralità di ambiti (dall’antichistica alla numismatica all’antropologia), ma al prezzo di dover usare una maggiore cautela nella comparazione, per evitare il rischio di cadere nella «fallacia economicistica»: l’assunzione implicita dell’economia di mercato, che porta a occultare i differenti assetti istituzionali, facendo apparire ogni altra economia come una forma minore di capitalismo. Contribuendo, insomma, a quella naturalizzazione del capitalismo che già Marx rimproverava a Smith e Ricardo quando ironizzava sulle «robinsonate del XVIII secolo».

Se, dunque, usando una certa cautela, le analogie con le paleomonete possono rivelarsi utili e interessanti, qualche considerazione antropologica più perspicua potrebbe venire dal tentativo di inquadrare il Bitcoin all’interno del fenomeno in espansione delle alternative currencies. Nate a centinaia negli ultimi decenni, queste sono in genere legate a forme di attivismo politico e a dichiarate finalità sociali. Le più comuni, le community currencies (banche del tempo, LETS), hanno in genere per obiettivo, pur nelle diversità che le caratterizzano, di istituire circuiti locali di scambio, creare comunità, porre rimedio alla mancanza di liquidità e alla scarsità del credito, a volte anche accelerare la circolazione attraverso meccanismi che disincentivano la tesaurizzazione. Le monete virtuali, e il Bitcoin in particolare, hanno una natura del tutto differente, e per certi versi opposta. Se le community currencies mirano a «rilocalizzare» l’economia, il Bitcoin si propone come uno strumento per «globalizzare la moneta», per abolire lo iato tra un sistema di scambi globalizzato e il carattere ancora nazionale dei mezzi di pagamento. Inoltre, il fatto che sia considerato intrinsecamente deflazionista, contribuisce a farne uno strumento di speculazione finanziaria, piuttosto che un mezzo di creazione di relazioni.

Il paradosso è che, nonostante queste macroscopiche evidenze, la diffusione del Bitcoin sembra poggiare, almeno in parte, su circuiti di attivismo politico non troppo lontani da quelli che hanno promosso altre forme di moneta alternativa. Su Le Monde del 18 ottobre Yves Eudes racconta, sotto il titolo Les anarchistes de l’argent, la storia di Amir Taaki, hacker anarchico che – tra centri sociali e case occupate di Londra Parigi e Barcellona – lavora alla creazione di DarkWallet, un’applicazione che dovrebbe realizzare un completo anonimato per le transazioni in Bitcoin, contribuendo a istituire un Dark Market fuori dal controllo di Stati e banche. L’utopia monetaria di Taaki, che presenta inquietanti tratti (a)narco-capitalisti, forse non è rappresentativa, ma non sarebbe saggio ignorarla.

Una recente ricerca (J. Bohr e M. Bashir, Who Uses Bitcoin? An exploration of the Bitcoin community, 2014; i dati sono stati, però, raccolti prima del caso MtGox) ha messo in evidenza quanto la motivazione politica contribuisca all’adozione del Bitcoin. Una metà circa degli intervistati (47%), che si definisce libertarian, vede nel Bitcoin uno strumento di liberazione dal potere pubblico, che permette di aggirare regolamentazioni e divieti, in un orizzonte che può arrivare a comprendere la «dissoluzione dello Stato» e l’instaurazione del «primo vero libero mercato della storia». Ciò che però può sorprendere è che una parte minoritaria, ma non irrilevante, degli utilizzatori della criptovaluta si definisca socialista (9%), ecologista (7%), genericamente progressista (17%), o anche anarchica (7%). A prevalere, in questo caso, sono gli effetti di disintermediazione del Bitcoin, visti come limite al potere delle banche, identificate come responsabili della crisi e delle devastazioni sociali che ne derivano.

Queste stesse ambiguità, condite da una buona dose di feticismo tecnologico e neolatria, sono presenti sul sito web della Bitcoin Foundation, istituita per sostenere lo sviluppo, la sicurezza e la promozione della nuova valuta. Il visitatore è accolto da una scritta a caratteri cubitali: Our future begins with you.

Con un lessico suadente e quasi profetico, la fondazione invita a intraprendere «un viaggio destinato a cambiare le vite attraverso il potere del Bitcoin», a partecipare alla costruzione di una nuova era nella quale il denaro, non più controllato dalle banche centrali o dal sistema bancario, apparterrà veramente a chi lo usa. Ma il futuro, si sa, è solo l’inizio.

I testi che, in un sito collegato, spiegando il funzionamento del Bitcoin dovrebbero convincere il visitatore a unirsi all’impresa (e magari anche a finanziarla con una donazione) insistono molto sulle caratteristiche tecniche, cui è evidentemente attribuito anche un significato etico o politico: il Bitcoin «è un nuovo tipo di denaro», «la prima valuta elettronica decentralizzata, non controllata da una organizzazione o da un governo. È un progetto open source» che consente a migliaia di persone in tutto il mondo di commerciare «senza intermediari e senza carte di credito», diventando parte di un network distribuito, senza padroni e controllori, senza nessuno che si possa arricchire alle spalle dei singoli che lo compongono. E se non bastasse il richiamo ai valori di libertà e autonomia, l’astio verso le istituzioni finanziarie, o l’eccitazione di far parte della «più grande opportunità di innovazione dai tempi della rivoluzione industriale», è anche detto di passaggio che, dato che smetterà di essere creata al raggiungimento dei 21 milioni di unità, Bitcoin fornisce anche un «incentivo per lo speculatore».

È difficile immaginare quale sarà il futuro di una moneta interamente fiduciaria, che, nei suoi soli 5 anni di vita, è stata al centro della più grande bolla finanziaria di tutti i tempi (il suo valore si è moltiplicato per 16.000 tra il 2010 e il 2013, per poi ridursi a un terzo del massimo) e del più eclatante caso di cybercrime (MtGox), attraendo l’attenzione di speculatori e militanti anarchici, narcotrafficanti e banchieri di Goldman Sachs. Ma, per tutto quello che si è detto e forse in contrasto con il parallelo suggerito dall’Economist, non sarà la comparazione con le paleomonete a fornirci la chiave.

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