Amazon e il capitalismo senza profitti

Maurizio Franzini prende spunto dalla recente notizia secondo cui Bezos, CEO di Amazon, ha superato Bill Gates come uomo più ricco del mondo per riflettere sulla causa principale di questo sorpasso: il vertiginoso aumento del valore di Amazon in Borsa. Franzini dopo aver ricordato che esso sii è verificato in corrispondenza di profitti persistentemente molto bassi, si chiede cosa abbia reso possibile questa apparente anomalia e ipotizza che dietro di essa possa celarsi una nuova varietà di capitalismo: il capitalismo senza profitti.

“Il venerdi mattina le azioni di Amazon erano cresciute dell’8% rispetto alla sera precedente facendo aumentare la ricchezza di Bezos di 7 miliardi. Nel frattempo le azioni Microsoft hanno avuto un’impennata del 7% sicché quell’aumento non è stato sufficiente a Bezos per scalzare Gates… ma alle 10 e un quarto Amazon è cresciuta ancora del 2%, così la ricchezza di Bezos è salita a 90,6 miliardi di dollari superando finalmente quella di Gates che ammontava a 90,1 miliardi”.

E’ questo il resoconto, da me liberamente tradotto, che si può leggere sul sito di Forbes della mattina di fine ottobre in cui Bezos, CEO di Amazon, è diventato l’uomo più ricco del mondo. In realtà, non è la prima volta; il sorpasso c’era già stato a fine luglio ma nel volgere di una notte si era verificato il controsorpasso e Gates si era ripreso lo scettro che è stato nelle sue mani per moltissimi anni, con l’eccezione di due brevi intervalli in cui lo ha ceduto a Warren Buffett e Carlos Slim.

Non sappiamo per quanto tempo Bezos (il cui patrimonio – non molto diversamente da quello di Gates – equivale a circa 250.000 appartamenti di buona metratura nel centro di Roma) resterà al comando di questa speciale classifica, e di per sé la questione non è molto interessante. Più interessante è, invece, riflettere sull’esplosivo andamento delle quotazioni di Borsa di Amazon perché possono aiutarci a mettere in luce alcuni aspetti del capitalismo digitale – se così vogliamo chiamarlo – che forse non sono adeguatamente considerati e che invece meritano una grande attenzione.

Partiamo dall’osservazione che Bezos pur essendo l’uomo più ricco al mondo non è l’uomo più pagato da Amazon. Stando alle dichiarazioni inviate alla SEC, l’ente federale di controllo della Borsa, Bezos come compenso riceve ogni anno dalla società che ha fondato, e della quale possiede oltre 80 milioni di azioni, 81.000 dollari. A questa misera somma si aggiungono, però, 1.600.000 dollari per spese di sicurezza personale. Non è chiaro perché costi così tanto la sicurezza personale di Bezos e le spiegazioni offerte dalla società in risposta alle perplessità di molti non aiutano: “Crediamo che l’ammontare delle spese di sicurezza sia particolarmente ragionevole alla luce del basso stipendio di Bezos e del fatto che non ha mai ricevuto alcun compenso sotto forma di stock option”. Resistendo alla tentazione di chiedersi perché si corrono enormi rischi e quindi sono necessarie alte spese per la sicurezza quando non si ricevono stock options, notiamo – appunto – che Bezos non ha stock option e che, pertanto, l’andamento delle azioni incide “soltanto” sulla sua ricchezza.

Non è così per gli altri top managers. Il più pagato di essi, nel 2016, è stato Andrew R. Jassy, secondo azionista di Amazon e CEO della Amazon Web Services, la piattaforma di cloud computing che produce l’ammontare maggiore di profitti all’interno della società. Jassy, nel 2016, ha incassato circa 36 milioni di dollari dei quali solo 175.000 come retribuzione in senso proprio. Il resto deriva dalle stock option. Il secondo manager più pagato è stato Jeffrey A. Wilke, CEO di Worldwide consumer: 175.000 dollari come vero e proprio compenso, esattamente come Jassy, e circa 33 milioni come stock option. Se guardiamo agli ultimi 5 anni notiamo una forte oscillazione in questi compensi. Tuttavia, nell’intero periodo Wilke ha ricevuto circa 60 milioni di dollari e Jassy 55. Più o meno 1 milione al mese.

Tutto ciò serve a chiarire che chi gestisce Amazon ha, per un motivo o per l’altro, un fortissimo interesse al valore di Borsa della società. E questo non può sorprendere. Sorprende, invece, che per realizzare i propri interessi questi manager non sembrano affatto obbligati a percorrere quella che sembrerebbe la strada maestra: massimizzare i profitti.

Consideriamo alcuni dati: nel terzo trimestre di quest’anno il fatturato di Amazon è stato di quasi 44 miliardi di dollari, in forte aumento rispetto ai circa 33 del corrispondente trimestre del precedente anno. Questo aumento ha contribuito al rialzo del valore delle azioni, che hanno superato la soglia dei 1000 dollari. Un anno fa il loro valore era 790, 3 anni fa 305 e 10 anni fa 89. Si tratta di tassi medi annui di aumento dell’ordine del 30% nell’arco del decennio: come dire un raddoppio del capitale ogni 2 anni e 8 mesi circa. Se considerassimo non 10 ma 20 anni queste cifre sarebbero ancora più da capogiro.

Il fatturato e il valore di Borsa crescono, anzi volano, ma non può dirsi altrettanto dei profitti. Nell’ultimo trimestre, a fronte del ricordato fatturato di 44 miliardi i profitti sono stati di soli 256 milioni di dollari. E nei trimestri e negli anni precedenti non sono stati quasi mai superiori. Dunque, profitti minimi e, naturalmente, dividendi minimi.

Questa situazione ha spinto un commentatore, Matthew Yglesias, a affermare ironicamente “Amazon, cerco di dirlo nel modo migliore, è un’organizzazione caritatevole gestita da membri della comunità finanziaria a beneficio dei consumatori “. E se non fosse per quello che è accaduto al valore di Borsa, con i conseguenti vantaggi per Bezos e i suoi manager, potrebbe anche essere così.

Con i dati che ho richiamato è inevitabile che il rapporto tra prezzo delle azioni e profitti operativi raggiunga valori stratosferici. Il cosiddetto Price/Earnings ratio di Amazon è oggi di oltre 240, quello considerato “normale” non arriva a 25. In realtà Amazon è al di sopra di questo livello, e di moltissimo, da tanti anni. Secondo i comandamenti finanziari, quando questo avviene il prezzo delle azioni dovrebbe cadere, perché la valutazione non è allineata ai “fondamentali”, ma questo non è avvenuto. Al contrario la corsa al rialzo è stata, ed è, vertiginosa.

Bisogna provare a chiedersi perché, e come, accade tutto questo. Un buon punto di partenza è quello che Bezos scrisse molti anni fa in una lettera agli azionisti, illustrando la propria strategia.

“Crediamo che una misura fondamentale del nostro successo sarà il valore che creeremo per gli azionisti nel lungo periodo. Questo valore sarà il risultato diretto della nostra capacità di estendere e consolidare la nostra attuale posizione di leadership nel mercato… misurata in termini di crescita dei clienti e del fatturato, di tendenza dei clienti ad acquistare da noi in modo ripetuto e di forza del nostro marchio. Abbiamo investito e continueremo a investire in modo aggressivo per espandere e sfruttare la nostra base di clienti, il marchio e le infrastrutture…”

Questa dichiarazione meriterebbe un approfondito commento, ma mi limito a osservare che – nella sua sostanza – essa potrebbe essere resa da un qualsiasi manager direttamente interessato alle dimensioni (più che al profitto) della propria impresa. Quando, molti decenni fa, per impulso di un acuto e non pienamente apprezzato economista come Robin Marris, si prestò attenzione al capitalismo manageriale – quello in cui si estendeva la separazione tra proprietà e controllo dell’impresa, individuata già negli anni ’30 per gli Stati Uniti da Berle e Means – si ritenne che tra manager e azionisti vi fosse un conflitto: i primi erano interessati alle dimensioni dell’impresa mentre per i secondi contavano solo i profitti e questi ultimi sarebbero stati inevitabilmente ridotti da una strategia orientata prioritariamente alla crescita delle dimensioni.

La strategia enunciata da Bezos sembra negare questo conflitto, e non perché alla maggiore crescita si accompagneranno miracolosamente profitti più elevati, ma perché agli azionisti si promette comunque l’accrescimento del valore di Borsa, sostenuto non dai profitti, ma dalla crescita stessa. Se poi i maggiori azionisti sono anche i manager della società, e le loro ricchezze e retribuzioni sono collegate nel modo che si è detto al valore di Borsa, la promessa troverà di certo una calorosissima accoglienza: per loro equivale a ottenere belle soddisfazioni sia come manager che come azionisti.

Se non apparisse esagerato si potrebbe dire che qui vediamo alcuni nuovi contorni del capitalismo contemporaneo, nella sua punta più avanzata; entro quei contorni il capitalismo sembra poter costruire le ragioni del proprio sviluppo abbastanza indipendentemente dal profitto. Il capitalismo digitale può anche essere capitalismo senza profitti. E ciò ha rilevantissime conseguenze, a iniziare forse dal fatto (paradossale?) che un capitalismo senza troppi profitti rischia di essere anche un capitalismo di bassi salari – ma non di bassi redditi per chi occupa posizioni di vertice nelle gerarchie dell’impresa.

Chiedersi cosa rende possibile tutto questo equivale a porsi una domanda molto complessa che merita una riflessione ben più approfondita di quella che ora farò.   Le direzioni in cui guardare sono due: il funzionamento del mercato di Borsa e la possibilità stessa di concepire una crescita continua per Amazon. Procedendo in entrambe le direzioni si incontrano assetti istituzionali che sembrano fatti apposta per favorire l’evoluzione del capitalismo senza profitti.

Perché il valore delle azioni cresca – e non solo nel breve periodo – mentre i profitti ristagnano, la Borsa deve funzionare in un modo ben diverso da come ipotizza la teoria dei mercati efficienti con la sua fiducia nel ruolo dei “fondamentali”. Questo modo potrebbe assomigliare molto al famoso “concorso di bellezza” di Keynes nel quale, per dirla in breve, è decisivo quello che si pensa che in media gli altri pensano. E, si può aggiungere, quello che gli altri in media pensano e credono può essere in qualche modo “manipolato” attraverso notizie, informazioni e aspettative più o meno sapientemente distillate – oltre che eventualmente sostenute dalla forza finanziaria di chi più ha da guadagnare dall’affermarsi di certe credenze. Nella distillazione è molto importante il ruolo degli esperti, di coloro che aspirano a formare il consenso e spesso ci riescono. Nel caso di Amazon oggi alcuni di essi prevedono che in non molto tempo le azioni raggiungeranno i 3.000 dollari – dunque, triplicheranno e ciò, tra l’altro, si dice che potrebbe permettere a Bezos di diventare il primo “trilardario” al mondo.

Con tutto il rispetto per i mercati, non dovrebbe essere di pochi la preoccupazione per il fatto che un’istituzione fondamentale per il capitalismo funzioni in questo modo.

Quanto al secondo punto, la questione è semplice. Bezos può formulare la promessa di un continuo rafforzamento della leadership di Amazon nei mercati perché l’Antitrust non ha, almeno finora, mostrato di essere troppo preoccupata per la concentrazione del potere di mercato (già oggi circa metà del complessivo e-commerce è nelle mani di Amazon). Ecco il secondo improvvido assetto istituzionale. Su questo punto non si può non concordare con quanto afferma Lina Khan nel suo paper di denuncia delle timidezze dell’Antitrust americano nei confronti del potere economico e di quello di Amazon in particolare. Ridurre le politiche di tutela della concorrenza alla sola condizione che cadano i prezzi pagati dai consumatori ha significato spianare il campo alla possibilità di concentrare sempre più potere economico (ma, evviva!, con alcuni prezzi calanti e salari – per i più – non certo crescenti) e oggi permette di tenere ben viva la speranza di quella crescita continua che Bezos pone come propria prospettiva.

Cosa accadrebbe se domani mattina l’autorità antitrust dichiarasse che vi sono limiti alle quote di mercato che ciascuna impresa può controllare? Di sicuro il capitalismo senza profitti troverebbe qualche difficoltà in più a dare soddisfazione (e che soddisfazione!) ai propri araldi.

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